NOTA SULLA LAVANDA: PIANTA DI LIGURIA

INDICE
VOCE GENERALE
*LAVANDA: PIANTA DI UN'ANTICA STORIA RURALE
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VOCI SPECIFICHE (29 voci specifiche, in ordine alfabetico/ tematico)
-AZIONE INSETTICIDA E TERMICIDA DELLA LAVANDA.
-AZIONE CURATIVA DELLA LAVANDA IN MEDICINA POPOLARE ED IN VETERINARIA.
-AZIONE CURATIVA DELLA LAVANDA IN MEDICINA POPOLARE (FORMULE EFFICACI DI ERBORISTERIA).
-CENNI STORICI SULLA LAVANDA IN GENERALE.
-ERBORISTERIA SCIENTIFICA SULLA LAVANDA
-FOLKLORE E TRADIZIONI SULLA LAVANDA
-LA LAVANDA NELL'ERBARIO MEDIEVALE DI S.ILDEGARDA.
-LA LAVANDA LATIFOGLIA E L'OFFICINALE: I RISCHI STORICI DI UNA CONFUSIONE.
-LAVANDA OFFICINALIS E LATIFOLIA NELLA DISTINZIONE DI LINNEO E QUINDI DEI BOTANICI SISTEMATICI.
-L'ANTICHISSIMA LAVANDA ITALIANA: LA LAVANDULA STOECHAS
-LAVANDA NOME EMBLEMATICO DERIVATO DA "LAVARE".
-LE DUE "LAVANDE ITALIANE" DI LIMITATA IMPORTANZA
-LE DUE "LAVANDE ITALIANE" DI MAGGIORE IMPORTANZA
-LAVANDULA DENTATA: LO "SPIGONARDO"
-LAVANDULA LATIFOGLIA
-LAVANDULA MULTIFICADA.
-LAVANDULA OFFICINALIS
-LAVANDULA OFFICINALIS: LA "PRODUZIONE DI OLII ESSENZIALI".
-LAVANDULA STOECHAS: L'ESSENZA RICAVATA DALLA DISTILLAZIONE SUE PROPRIETA'
-LE NUMEROSE SPECI DI LAVANDA E LA LORO AREA COLTURALE
-LE SPECI DI LAVANDA IN ITALIA
-L'"ESSENZA" DI LAVANDULA OFFICINALIS.
-L'IBRIDO PER ECCELLENZA: IL LAVANDINO.
-L'IBRIDO PER ECCELLENZA: IL LAVANDINO E LA "DISTILLAZIONE DELLA SUA ESSENZA".
-PROBLEMI COLTURALI DELLA LAVANDA NELL'IMPERIESE: MALATTIE, RIMEDI, ALTERNATIVE.
- (LE) TECNICHE DI DISTILLAZIONE ATTRAVERSO I SECOLI SIN AI GIORNI ODIERNI: DALL'ARTIGIANATO ALL'INDUSTRIA.
-USO DELLA LAVANDA IN PRATICHE DI MAGIA BIANCA E DI MAGIA NERA.
-USO DELLA LAVANDA E DELLO SPIGO IN FORMULE "MAGICHE" E/O "FILTRI".
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-" La lavanda, / alta di folte spighe... sovrasta / insultatrice e baldanzosa ai campi " (Bergantini, I, 439).
Così il poeta; ma ciò che è semplice per la lirica lo è meno per la botanica e quanto può sembrare una monade si rivela un artificio di comodo o un'effetto dell'ignoranza sotto la cui illusoria apparenza si celano piu entità, diversissime seppure somiglianti.
Non una ma 20 sono le specie di lavanda che sovrastano ai campi, ma ancor oggi non sono note tutte le differenze esistenti tra le singole entità vegetali.
Queste piante fanno parte della famiglia delle Labiate o Laminacee (tribù Laminacee) e si sviluppano su una vasta area geografica che va dalle Canarie sino all'India anteriore coprendo le regioni della fascia mediterranea.
Le speci di lavanda presenti in Italia sono in effetti cinque, diverse tra loro non solo per la morfologia ma anche per le proprietà e la conseguente applicazione di queste nel settore dell'erboristeria, su scala famigliare od industriale.
Sino al XII secolo l'unica specie di lavanda conosciuta in Italia è la Lavandula stoechas probabilmente introdotta dai Focesi nel 600 a.C.
Per quanto concerne la Francia meridionale e, di conseguenza, il Ponente ligustico la pianta è importata piu tardi (IV secolo a.C.) dai Greci di Marsiglia (cfr. Strab., III, 4, 17 e IV, 63; Pompeo Trogo in Justinum XLII, 4).
Di questa specie esiste una descrizione nel codice costantinopolitano del VII sec. d.C. attribuito a Dioscoride (già conservato nella Biblioteca imperiale di Vienna).
Da essa si ricava un'essenza od oleum stoechados di una certa utilità contro ai crampi ed i disturbi respiratori come si legge nel Regimen Sanitatis Salerni della fine del Duecento.
Non ha però mai avuto grande diffusione essendo pianta da climi aridi e selvatici; detta volgarmente steca (ed anche stecada o stigadosso) cresce sotto forma di arbusti alti sino ad un metro e mezzo con un gruppo brattee sterili, vivacemente colorate in violetto o porporino, che sormontano le infiorescenze (cfr. G. FASOLA - A. LEGA, La coltivazione della lavanda, in "Alcuni problemi economico-agrari della Riviera Ligure", Sanremo, 1958, p. 156).
Delle altre quattro specie italiane, DUE sono poco significative.
La L. dentata L. (volgarmente spigonardo), così detta per le foglie dentate, è un arbusto tipico della regione mediterranea occidentale e coltivato nel Gargano e in Sicilia come pianta ornamentale. Solo nell'estremità della Calabria, oltre che nei pressi di Messina, Catania e Trapani, si sviluppa la L. multificada L. riconoscibile per le foglie pennate divise fino al nervo mediano (propriamente pennatosette , termine composto di pennato e dal latino sectum= "tagliato").
Si tratta di una pianta perenne, tipica di ei luoghi aridi e collinoso del Nord Africa e della Spagna.
luoghi aridi e collinosi del Nord Africa e della Penisola Iberica.
Ma le più importanti specie di lavanda sono la lavanda latifolia e la lavanda officinalis introdotte nelle Alpi marittime, secondo lo Hegi, dai Benedettini.
La prima (nome scientifico Lavandula latifoglia Vill. = L. spica var. Beta) è un fruttice ramoso che fiorisce in estate in tutta l'area mediterranea occidentale sino alla Dalmazia.
In Italia è comune in Piemonte, Liguria, Colli Euganei, Firenze e zone limitrofe, Perugia, Spoleto, Napoletano e Sicilia; è detta spigo o spighetta ma "in Toscana ed in qualche altro luogo d'Italia si chiama spico B" (cfr. TRAMATER, S.V.).
La latifolia non cresce a notevole altura perchè predilige le temperature poco rigide; le sue foglie sono lunghe e lanceolate, più larghe che nell'officinalis. I fiori piuttosto piccoli, sono organizzati in infiorescenze ramificate composte da pseudoverticilli fusi in spicastri; di questa specie si conoscono tre fondamentali varietà: vulgaris Briq., tormentosa L., Alba De Ging..
La lavandula officinalis è la "vera lavanda" (nome scientifico Lavandula Chaix = L. Spica L. Var. Alfa = L. vulgaris var. Lamark = L. vera D.C.).
E' un fruttice ramoso, foglioso di 5-10 dm di altezza; diffusa in tutto l'occidente del Mediterraneo e presente un po' in tutta Italia sebbene Liguria e Piemonte (Cuneo) possiedano i più ricchi lavandeti naturali.
Le foglie sono lineari e lanceolate, bianco tormentose all'inizio e verdastre verso la fine; i fiori, piuttosto grandi, sono numerosi all'ascella delle bratte di forma romboidale e risultano organizzati in strutture compatte dette spicastri.
Questi sono di dimensioni diverse a secondo delle varietà; abbondanti e resistenti nella varietà Delphinensis e assai meno in quella Angustifolia.
Ricordiamo per ultima la varietà fragrans che ha le spighe più dense ma di minor dimensione e con fiori intensamente azzurri, concentrati soprattutto sul vertice della spiga.
La famosa essenza si trova concentrata in alcune ghiandole odorifere, composte da 4 ad 8 cellule, che sono disposte tra le scanalature situate in senso longitudinale sul calice florale.
L'essenza è ricca di acetato di linalide, fondamentale per la qualità stessa; la presenza di tale componente aumenta proporzionalmente all'altezza, così che l'essenza di maggior pregio (soprattutto per la varietà fragrans) si ottiene da lavandeti siti ad un'altezza intermedia tra i 1500 e i 1700 metri sul livello del mare.
Il più antico cenno alla lavanda (non possiamo sapere di quale specie) compare nella Bibbia dove ne è descritto l'uso, in associazione col mirto per profumare gli altari.
Parecchi secoli più tardi il medico latino Pedanio Dioscoride registra in una sua opera alcune considerazioni meno generiche sulla pianta (cfr. P. MATTIOLI, Pedanii Dioscoridis de materia medica libri sex XXVII) e scrive: "Abbiamo ancora in Italia il nostro nardo, il quale chiamiamo spigo, ancor che di più debile virtù").
Nel Medioevo tutte le specie di lavanda sono univocamente denominate Pseudonardus o Spicanardus per distinguerle dal Nardus indica (Nardostachys indica, famiglia delle Laminacee) e dal Nardus celtica (Valeriana celtica, famiglia delle Valerianacee).
Le lavande latifolia e officinalis sono citate specificatamente in un erbario del XII secolo intitolato Hortum sanitatis ed attribuito alla badessa benedettina Santa Ildegarda.
Nel capitolo De Lavandula la latifolia compare sotto il nome di Spica mentre l'officinalis è indicata col lessema Lafander.
Le due specie, che crescono frammiste, sono spesso confuse nel passato, con la conseguenza di grossolani equivoci.
I naturalisti dei secoli XV, XVI, XVII sono però gia consapevoli delle differenze morfologiche esistenti tra le due specie: "lo spigo e quello spigo che si denomina lavanda, son differenti. Questa ha le foglie più morbide e delicate né si distendono i suoi rami frascoluti et il suo fiore è più corto" (cfr. SODERINI, II, 365).
Nel XVIII secolo Linneo definisce la questione sotto il profilo botanico, identificando entrambe le specie come Lavandula spica e distinguendole nelle varietà Alfa (l'officinalis) e Beta (la latifolia).
Nonostante questa illustre precisazione si dovrà attendere l'opera più recente di botanici sistematici per giungere alla denominazione scientifica in precedenza riportata, certo più corretta, esauriente e meno equivoca di quella di Linneo.
La confusione a livello dei fitonimi è anche dovuta al fatto che, quasi ovunque, ai nomi scientifici si preferiscono quelli volgari di spigo e lavanda, con frequenti interferenze dell'uno sull'altro.
Ancora oggi è radicata in Liguria l'usanza di nominare le due più importanti specie di lavanda con nomi arcaici, veicolati in genere a livello di vernacolo.
La latifolia è infatti detta spigu a Genova, sciarmantin a Montalto
, busomo ad Alassio e steccadea a Camporosso; l'officinalis è conosciuta a Savona come spigo di S. Giovanni.
Il lessema lavanda (dal latino lavanda) ha avuto meno fortuna popolare del corrispettivo spica, spicum poi spigo in volgare tramite lenizione settentrionale della C in G.
Eppure la lavanda è nome sicuramente più pertinente con le proprietà e l'uso fatto di tale pianta dall'antichità ad oggi.
Tale lessema (scient. Iavandula) deriva, come il francese lavande (1370), dal verbo latino lavare "per l'uso che si fa nel lavarsi" (cfr. BATTAGLIA, s.v.); "il suffisso anda equivale alla desinenza del gerundio della prima coniugazione latina " (cfr. ROHLFS, 1098).
Questo nome viene attribuito a tale pianta forse per il fatto che "gli antichi la usavano nei loro bagni, o perchè le lavandaie ne mettono ne pannilini imbiancati per farli odorosi "(cfr. TRAMATER s.v.).
L'uso di un bagno schiuma all'essenza della lavanda o di tale profumo dopo una doccia è un fatto consueto ai giorni nostri.
E' invece folklore tipicamente ligure l'abitudine delle massaie di riporre tra la biancheria mazzetti di fiori di lavanda opportunamente ripiegati (ruchette ), in modo da trasmettere ai panni le loro benefiche proprietà. Queste non si limitano, come in genere si crede, al compito di profumare ma si concretizzano, grazie agli olii eterei dei fiori, in una azione termicida.
In alcune aree di campagna si continua tuttora a conservare l'abitudine, empiricamente appresa dagli antichi, di appendere o strofinare alle gambe del letto foglie di lavanda onde prevenire l'infestazione di cimici, ragni, scarafaggi.
A livello di medicina popolare entrambe le specie, officinale e latifoglia, in Ligura occidentale venivano usate nel passato come antidoto contro il morso della vipera; la terapia consiste nel fregare vigorosamente la ferita con foglie fresche.
La latifolia, sino ad epoca piuttosto recente, è stata spesso usata in veterinaria per le malattie degli zoccoli dei cavalli e come cura contro la rogna. Inoltre tale specie occupa da sempre un ruolo rilevante in erboristeria ed è spesso utilizzata per pratiche mediche come emmenagono ed abortivo; al pari di erbe come la consolida, il rosmarino, il biancospino, l'achillea millefoglie e la borsa pastore anche lo spigo è utile per la cura di disturbi della sfera sessuale femminile come la smenorrea e l'irregolarita delle mestruazioni.
Ma tale specie ha anche proprietà stimolanti e nervine; i fiori se utilizzati da personale competente e opportunamente manipolati, esercitano una reale azione corroborante sul sistema nervoso.
Date queste qualità anche il magismo (XV, XVI, XVII sec.) si impossessa di tale pianta, forse recuperando dai recessi del FOLKLORE e di DIMENTICATE RELIGIOSITA' antichi usi di MATRICE SCIAMANICA.
Come noto il magismo, fuori delle fantasticherie d'uso, è nel passato un modo di vita, una risposta irrazionale ai più negativi stimoli esistenziali. Le streghe sono spesso povere sventurate che apprendono, talora per esigenze personali di sopravvivenza, le proprietà di alcune piante che vendono sotto forma di olii, essenze, decotti, filtri e bevande.
Spesso per insegnamento della MEDICINA POPOLARE si compongono autentiche sozzure ma in alcuni casi si organizzano prodotti terapeutici efficaci: spicca la mistura di rose rosse, violette, melitosio, papavero bianco (2 g), giusquiamo bianco (2 g), finocchio bianco o pseucedano, che viene messa su un telo con cui si benda la fronte di chi e colpito da disturbi nervosi.
Secondo la moderna erboristeria i risultati sono buoni contro le affezioni neurovegetative e la mistura garantisce comunque un sonno tranquillo.
Le "medichesse popolari" sfruttano spesso, per il conforto di se stesse e dei miserabili, piante attive in diversa misura sull'organismo quali il ginepro, il papavero, lo spigo e il cartamo (scient.: Chartamus tinctorius, cfr. P. MATTIOLI, cit., I, 690: "Solve il cartamo la flemma disotto e parimenti per vomito e similmente l'acquosità del corpo".
Quando però elaborano e combinano piante dalle proprietà stimolanti, quali salvia, santoreggia e spigo, con altre dalle qualità soporifere come il papavero (specie il P. somniferum, varietà setigerum, famiglia delle Papaveracee, che cresce spontaneo in Italia), queste EMPIRICHE, ignorando spesso gli opportuni dosaggi, finiscono per combinare pericolosi decotti.
Questi hanno talora le caratteristiche di droghe leggere, capaci di causare ai loro fruitori lievi effetti allucinogeni, caratterizzati da sogni piacevoli o spaventosi con una sensazione di torpore al risveglio.
Ed è questo uno dei motivi per cui nei secoli XVI e XVII molte MEDICHESSE NATURALI si autoaccusano di essere streghe; ignoranti degli effetti di quanto conoscono solo intuitivamente esse danno valore reale ai sogni irrazionali indotti dalle droghe, che hanno sperimentato personalmente, e spesso si sentono autentiche complici del Maligno.
La scuola anglosassone valorizza scientificamente il potere nervino dei fiori di lavanda; una tazza di te caldo, allestito con fiori secchi o freschi, può alleviare i disturbi gastrici oltre che il mal di testa.
Ma soprattutto un decotto di fiori e germogli è utile per rinfrescare la bocca, purificare l'alito e rinforzare le gengive (così almeno ritiene Lelord Kordel, illustre specialista americano di dietologia e medicina psicosomatica).
La lavanda vera, cioè l'officinalis, pur partecipando di molte proprietà terapeutiche proprie della latifolia, è soprattutto nota per il rendimento e la costituzione di olii essenziali.
Naturalmente la pianta oggi coltivata è il risultato del miscuglio di diverse linee provenienti da fecondazione naturale.
Il suo habitat ideale è costituito da terreni pietrosi e siccitosi siti tra i 600 e i 1800 metri; se protetta dall'umidità e dalle piante infestanti cresce bene anche in altri terreni purchè siano adeguatamente concimati.
La Francia è la maggior produttrice mondiale di essenze (95%); in Italia la provincia di Imperia copre un ruolo fondamentale per la coltura della pianta e la distillazione dell'essenza.
Comuni importanti per la produzione di lavanda vera sono Cosio d'Arroscia, Carpasio, Pornassio, Borgomaro, Pieve di Teco, Pietrabruna, Armo, Vasia, Pigna, Castelvittorio, Molini di Triora (specie in località "Agaggio"), Triora, Rezzo, Rocchetta Nervina.
Sono tuttora significativi i lavandeti del monte Faudo dove è attuata una distillazione a carattere familiare che produce un'essenza di notevole pregio.
Il fiore viene in genere tagliato con un falcetto a mano e dovrebbe essere distillato entro le 24 ore per evitare al massimo perdite di essenza.
Un cespuglio di lavanda da 200-300 grammi di fiori dopo il terzo anno di impianto; un lavandeto, della durata di 10-12 anni, ha una resa media di 2 quintali di fiori al primo anno, di 15 al secondo, di 40 al terzo e di 50 al quarto.
La coltura della lavanda ha subito, in provincia di Imperia, una contrazione a partire dal 1940 in conseguenza di una moria di cui fu, con molti dubbi, ritenuta responsabile la Macrophonina phaseoli (in precedenza erano poche e non gravissime le malattie che attaccavano la pianta: Cuscuta, Septoria lavandulae, Arima marginata).
Un rimedio concreto e una possibile alternativa alla crisi di tale coltivazione è costituito dall'impianto di varietà nuove, più robuste, immuni ai parassiti e capaci di sopportare l'aumentato tasso di inaridimento del terreno.
Al proposito è esemplare l'esperienza portata avanti a Pietrabruna, sulla base di concrete indagini scientifiche; in quest'area si è proceduto alla messa a coltura di un ibrido di buona qualità teorica (10.000 piantine su terreni banco di prova).
I risultati saranno però apprezzabili solo tra qualche anno, quando si potrà constatare l'opportunità di un'opera di conversione della coltura.
Continuando a parlare di ibridi, merita un cenno particolare il LAVANDINO o lavanda bastarda (scientif. L. Burnati); benchè meno usuale e migliore il lessema alternativo lavandina (cfr. BATTAGLIA, S.V.), ma in questo caso si tratta di un adattamento cacofonico dal francese lavandin.
In Italia esso è esclusivo della provincia di Imperia: Pietrabruna, Dolcedo, Ventimiglia, Pieve di Teco, Airole, Carpasio, Rocchetta Nervina, Castellaro.
Si tratta di un incrocio tra la lavanda latifolia e l'officinalis; sono però predominanti le caratteristiche della latifolia da cui differisce per un numero di palchi di fiori più consistente.
Se ne ricava una essenza migliore di quella ottenuta dalla latifolia, anche se permane il tipico odore di canfora che caratterizza lo spigo.
Il lavandino è resistente, immune alle malattie dell'officinalis anche se, come questa, teme le piante infestanti.
Cresce ad altezze inferiori ai 600 metri, in terreni freschi ed in zone soleggiate; non porta però semi e la sua moltiplicazione deve avvenire per via agamica (talee) mentre per l'officinalis, pur sperimentandosi la riproduzione per talee, è tuttora applicata quella per semi (gamica).
L'essenza del lavandino è certo meno pregiata di quella estratta dall'officinalis, ma anche meno costosa e per questo motivo trova larga applicazione nell'industria dei saponi.
Concludendo questa rassegna vale la pena di citare i processi tecnici di distillazione.
I metodi di base di DISTILLAZIONE e per certi aspetti tradizionali sono due:
a fuoco diretto e a corrente di vapore.
Per attuare tali processi è necessario usare un alambicco (dal greco ambix = "vaso a grandi labbri"; attraverso la voce araba al-inibiqu), composta da una caldaia, denominata cucurbita, posta in un fornello, ossia con possibilità di essere direttamente riscaldata dal fuoco diretto, e chiusa da un coperchio denominato elmo o cappello.
Detto elmo, per mezzo di una ulteriore tubazione denominata pipa viene collegato ad un serpentino, ossia ad una tubazione di stagno puro, e racchiuso in una botte ove scorre acqua fresca corrente.
Il procedimento ai fini della distillazione della lavanda è il seguente: il fiore di lavanda viene riposto e pressato nella caldaia o cucurbita: nella stessa viene versato circa un quarto della capienza cucurbita di acqua.
A mezzo di un paranco l'elmo viene messo a coperchio della cucurbita, si ruota in modo che la pipa sia nella parte terminale inserita nel serpentino.
La condizione di tenuta stagna dell'elmo con la cucurbita avviene mediante riempimento dei bordi di conduzione d'acqua; per cui non è possibile la fuoriuscita di vapore.
Accendendo il fuoco sotto la cucurbita, gradatamente, si raggiunge l'ebollizione; il vapore prodottosi nella cucurbita, per l'ebollizione dell'acqua col fiore di lavanda, raggiunge l'elmo e di qui attraverso la pipa il serpentino, per cui conseguentemente al raffreddamento del vapore circolante si ritrasforma in liquido in funzione della condensa per cui fuoriesce l'essenza del distillato, nel caso olio di lavanda e acqua.
Per il peso specifico l'olio resta a galla dell'acqua di lavanda e finisce nel contenitore dell'essenza di lavanda.
In sintesi: il liquido nell'interno della cucurbita si trasforma in vapore, questo raccolto dall'elmo e dalla pipa finisce nel serpentino, si condensa ed esce quindi nuovamente allo stato liquido dall'apertura inferiore.
In questi ultimi tempi si è passati ad un impianto promiscuo: anziché mettere acqua nella cucurbita, vi si mette solo il fiore di lavanda ed il fuoco non viene più acceso sotto la medesima.
A fianco si è costruita una caldaia a vapore, collegata alla cucurbita da apposita tubazione, che permette di immettere il vapore nella cucurbita ad elevata temperatura e pressione.
Tale vapore, praticamente, si impregna dell'essenza di lavanda e seguendo il percorso dell'elmo e della pipa finisce nel serpentino, condensandosi e fuoriuscendo dallo stesso in forma liquida, composta da acqua di lavanda ed essenza.
L'alambicco degli antichi ha così, pur mantenendo le proprie caratteristiche, accettato di modernizzarsi di quel tanto che gli ha permesso di migliorare la produzione con la diminuzione dei costi.
E' da tener presente come detta attività, qualora venisse opportunamente guidata e potenziata, potrebbe concorrere ad una positiva soluzione incrementativa del reddito dell'entroterra.
Oltre alla lavanda, l'alambicco potrebbe, con modesta spesa, distillare altri prodotti, in particolare erbe, fiori e frutti che in oggi non sono utilizzati e non rappresentano alcuna economia positiva per la zona.
La produzione dell'essenza sta però assumendo nell'imperiese i connotati di un'operazione industriale, forse meno romantica e folkloristica di quella a fuoco diretto ma certamente più funzionale ed efficiente.
Proprio nel capoluogo sono installati opifici a carattere industriale, dove il processo di distillazione avviene attraverso l'utilizzazione di elementi chimici (solventi come il benzolo); una volta estratto, il prodotto è concentrato e denominato conreta.


Vi sono varie specie di MENTA: la MENTA ACQUATICA (nei fossati e nei luoghi umidi), la MENTA ROTONDIFOGLIA (che pure cresce nei posti umidi), la MENTA SILVESTRE (nelle siepi, nei campi e nei luoghi umidi), la MENTA VERDE, la MENTA PULEGGIO, la MENTA CAMPESTRE (vi sono poi le piante coltivate come la MENTA PIPERITA).
Sulla coltivazione della MENTA un celebre erborista, il Lieutaghi, ha scritto :"si tratta dell'ultima delle grandi medicine di un tempo, principessa detronizzata e alla quale rimangono solo il nome e la grazia come tesori, e che deve solo al suo profumo se non è caduta nell'oblio".
Nei paesi arabi ad es. mazzetti di menta portati nelle gerle dagli asinelli profumano tutti i mercati.
Arriva la menta e le mosche e le zanzare si mettono in fuga.
Nei periodi di gran caldo non è raro vedere passeggiare gli indigeni con un sacco di menta fresca in mano nel quale affondano continuamente il naso.
Le indubbie qualità antisettiche attribuite alla menta se inducono tuttora le popolazioni del terzo mondo ad usarla comne un profilattico contro le epidemie incoraggiavano i MEDICI del Medioevo e del Rinascimento ad accostarsi ai malati tenendo davanti alla bocca una spugna imbevuta di aceto o un sacchetto di menta: esperienza purtroppo vana data la virulenza di tale morbo.
Anticamente -e questo anche nella Liguria ponentina- i siti infestati dalle pulci venivano liberati facendovi bruciare dei fusti di menta fin a quando i fastidiosi insetti non si allontanavano.
A livello popolare le opinioni sulla MENTA E I CONSEGUENTI USI erano comunque vari.
Per esempio la MENTA impedisce al latte di cagliare.
Il latte di una mucca che avesse brucato della MENTA veniva squlificato per la fabbricazione del formaggio.
Col succo fresco della pianta di menta le padrone di casa sfregavano le mele "a rischio" impedendo loro di marcire.
E peraltro i certe contrade la MENTA era posta un pò in ogni casa per far sì che l'acre odore tenesse lontani topi e roditori.
Da queste considerazioni il passo alla magia nel Medioevo fu abbastanza facile.
Si credeva che, onde far guarire un malato tormentato dalla febbre, costui dovesse recarsi per tre giorni consecutivi, prima del levar del sole, innanzi ad una pianta di MENTA deponendovi intorno del pane o del vino, del sale o del pepe e, salutando quindi con trasporto la pianta, comunicarle che essasi sarebbe essiccata una volta che la febbre l'avrebbe colpita. Secondo la leggenda l'evento terapeutico sarebbe stato quasi certo e la febbre dall'uomo si sarebbe trasferita sulla pianta al segno di distruggere: non v'è da far commenti su questa fantasia ma il credo popolare che attribuiiva siffatti poteri alla pianta non era altro che la trasposizione in favola del pubblico convincimento sulle sue capacità curative.
La SALVIA si presenta in numerose varietà: la "officinalis", la "pratensis", la "sclarea" tutte della famiglia delle Labiate.
La SALVIA OFFICINALE cresce nei luoghi sassosi ed aridi. Le sue foglie oblunghe e grigiastre non cadono in inverno: all'inizio dell'estate sbocciano dei fiori di colore azzurro violaceo. Come sostanze attive, in farmacopea e medicina, nelle sue foglie si trovano un olio essenziale, acido tannico e resina: le foglie sono quindi utilizzate come astringente, digestivo, stimolante e antidiaforetico.
La SALVIA, pianta medicamentosa per eccellenza, fu fatta ascrivere tra CARLO MAGNO in un suo CAPITOLARE tra le erbe dei SEMPLICI cioè tra le 16 piante base dell'erboristeria, quelle cui ogni AROMATARIO doveva appellarsi per comporre le sue TISANE E/O DECOTTI.
La più celebre scuola medica dell'antichità medievale (la SCUOLA SALERNITANA) l'aveva battezzata "SALVIA SALVATRIX" la "PIANTA CHE SALVA" aggiungendo in un celebre versetto che "PERCHE' NON MUORE L'UOMO CUI LA SALVIA CRESCE NELL'ORTO?".
Nel passato le erano attribuite, non senza ragione, tante qualità: come stimolante aromatico, contro le alitosi, per agevolare il parto (un infuso di salvia preso regolarmente un mese prima del parto avrebbe facilitato lo stesso riducendone i dolori).
Una leggenda della SALVIA come erba medicamentosa sorse nel XVII sec. con un fatto criminale durante un dramma quale l'EPIDEMIA DI PESTE.
Nel 1630 Tolosa era tormentata dalla PESTE ma "sette (o "quattro", secondo un'altra versione) ladri" continuavano a saccheggiare le case ed a depredare i cadaveri degli appestati restando immuni.
I delinquenti vennero alla fine arrestati e furono interrogati.
Fatto il processo vennero condannati a morte: ma il giudice conoscendo le loro prodezze e saputo che, prima di avventurarsi tra le case piene di cadaveri, si strofinavano sul corpo un unguento, chiese loro di cosa si trattasse.
Secondo il francese Messegué, illustre erborista moderno (nel volume "Uomini, erbe e salute"), si sarebbe trattato dell'unguento composto da timo, lavanda, rosmarino e salvia macerati in aceto destinati a passare alla "storia" col nome di "ACETO DEI QUATTRO LADRI".
E' impossibile che l'intruglio funzionasse contro la PESTE ma nel '600 ebbe comunque un forte ascendente sul popolo che lo chiamò anche ACETO DEI SETTE LADRI (un'altra variante della formula comportava l'aggiunta di ruta e canfora).
L'"ACETO DEI SETTE (O QUATTRO LADRI)" ottenne comunque una certa rinomanza e fu riutilizzato a Marsiglia quando la città, assieme a tutta la PROVENZA, un secolo dopo fu colpita da altra epidemia: in questo caso l'aceto fu arricchito dall'uso di un'altra pianta ancora, l'AGLIO.
L'ACETO verso il XIX secolo entra nell'uso ufficiale e si vende in farmacia: lo si raccomanda per il ben stare a tutti, anche a preti, suore e medici: l'invito è di berne a digiuno una cucchiata in un bicchiere d'acqua e poi di strofinarsene le tempie sì da andare tranquilli poi a visitare malati e moribondi.
Il ROSMARINO era tra i SEMPLICI cioè fra le piante obbligatoriamente coltivate per le loro ragioni medicamentose dai sudditi del Sacro Romano Impero di Carlo Magno.
La pianta possiede dei fusti legnosi che di solito non raggiungono il metro di altezza e sono coperti da foglioline coriacee, lineari e fini. Già apprezzato dagli Egiziani e poi da Romani e Arabi il ROSMARINO aveva fama di pianta medicamentosa per eccellenza e tra le sue varie applicazioni si ricorda soprattutto l'uso come tisana antispasmodica per i dolori di ventre causati dallo stato infiammatorio della mucosa intestinale: in altra combinazione si ritiene vantaggioso come antispasmodico per i dolori mestruali.
La CIPOLLA ("allium cepa" della famiglia delle "gigliacee") ha una storia molto antica.
Oltre che per scopi alimentari fu venerata dai Caldei per presunti poteri magici: questo concetto passò ai Babilonesi ed agli Egizi.
Presso i Romani ne furono apprezzate le qualità alimentari.
Nel Medioevo la cipolla fu base alimentare preziosa: era poi consigliata come cibo energetico.
In effetti la pianta possiede anche delle notevoli qualità terapeutiche scoperte dai riceratori dell'Università di Newcastle: in particolare è utile per la prevenzione delle trombosi delle coronarie.
La scoperta però è avvenuta su basi storiche e documentarie: i ricercatori inglesi hanno dedotto (e poi sperimentata) questa proprietà della cipolla investigando su un'antica tradizione della veterinaria popolare francese (conservata in tempi moderni dagli stallieri e dagli allevatori), quella cioè di alimentare i cavalli sofferenti di embolia con cipolla ed aglio.
La LIQUERIZIA/LIQUIRIZIA ("REGANISSU" dizione ligure) non era una pianta realmente popolare e d'uso comune nel medioevo ligure (di origine asiatica era diffusa principalmente in Sicilia e Sardegna) ma rientrava comunque nella FARMACOPEA diffusa dai BENEDETTINI e non mancano documenti medievali, anche lavori di miniature, che rappresentano la RACCOLTA DELLA LIQUERIZIA e addirittura LABORATORI DI DISTILLAZIONE dei benedettini in cui la LIQUERIZIA ha un evidente posto d'onore.
La pianta (nome scient.: "glaba glycyrrhiza") della famiglia delle papilionacee, alta dai 30 cm. al metro, con fusto diritto, striato e robusto e con foglie di un bel verde, ha riconosciute proprietà medicamentose come quelle di combattere la tosse, l'ulcera dello stomaco e delle gastriti in generale (il succo si estrae dalle radici che si possono commerciare in varie forme per grandezza e aspetto).
La LATTUGA ("Lactuca sativa" della famiglia delle "Composite") si presenta in una notevole varietà di specie (circa 140 tra coltivate e selvatiche).
Il nome trae origine dal succo bianco e lattiginoso che cola da incisioni del fusto quando questo è in fioritura.
Come pianta alimentare naturalmente è nota da tempi remoti e ne parlarono nelle loro opera autori classici come Marziale ed Ovidio.
Fu però anche citata, per motivi igienico-sanitari, da illustri scienziati come il medico GALENO (che per sua ammissione l'avrebbe assunta alla sera prima di coricarsi per garantirsi un sonno tranquillo) e PLINIO che la citava come un buon afrodisiaco utile anche per la cura della blenorragia.
In effetti la moderna erboristeria ha provato che il lattice bianco contenuto in questa pianta erbace (propriamente il "lattucario") è un eccellente rimedio contro l'insonnia e le tossi persistenti e che viene usato per la fabbricazione di saponi igienici.
Il PREZZEMOLO (petroselinum hortense delle ombrellifere) ha il difetto di poter essere confuso dagli inesperti con l'"erba aglina", pure delle ombrellifere, velenosa, detta anche "cicuta aglina".
Il prezzemolo si riconosce per il fusto eretto, striato e ramoso con foglie triangolari e piccoli fiori bianco verdicci in dense ombrelle.
Secondo la vecchia fitoterapia gli era attribuita la facoltà di far sbollire le sbornie: era poi usato quale composto di ANTIDOTI AI VELENI.
In effetti la radice ed i frutti hanno proprietà aperitivi, diuretiche, stimolanti, emmenagoghe, carminativi, stomachiche, diuretiche. E’ fortemente controindicato in gravidanza giacché ad alte dosi può risultare abortivo. Una tazza di decotto può servire per cessare la produzione del latte alle nutrici.
La MALVA ("malva silvestris" della famiglia delle malvacee), annua o bienne con radice grossa, fusto pubescente, fiori di colore lilla tendente al rosa riuniti in fascetti, frutti a forma di carpello arrotondato e reniforme. E' diffusa in tutta Italia dal piano alle regioni submontane e nella MEDICINA POPOLARE è utilizzata da sempre onde preparare decotti emollienti.
Dal grande DIZIONARIO DEL BATTAGLIA si apprende che in tutti i tempi fu conosciuta ed utilizzata anche dalla MEDICINA UFFICIALE:
Per esempio l'ARRIGHETTO (ai primi del '300) scrisse: "La malva sana i frenetici, l'assenzio i collerici".
Nel "FASCICULO DI MEDICINA VOLGARE" (XV secolo) si legge:"Asima e difficultà del rifiatare cum suono. La cura de essa: fa cuocere malva in una pignatta e con quella così calda lava lo infermo".
MARCANTONIO MONTIGIANO (nella sua cinquecentesca traduzione degli scritti di PEDANIO DIOSCORIDE) annotò: "La malva giova assai a impiastarla su le punture delle vespe e delle pecchie".
La SANTOREGGIA è una pianta erbacea della famiglia delle Labiate ("Satureia hortensis") con fiori a spiga di colore rossastro usati come condimento di cibi ma -da tempi remoti- anche per ESTRARNE un'essenza usata in erboristeria.
Il nome peraltro -coniato evidentemente sotto influsso della MEDICINA POPOLARE allude alle sue qualità di panacea visto che è un'alterazione popolare del latino "SATUREIA" per incrocio con SANTO o SANTITA' in via di un'esplicita allusione ai poteri salvifici della pianta.
Il MATTIOLI nel suo volgarizzamento di PEDANIO DIOSCORIDE scrisse [181]:"Alcuni medici in tali malattie di fegato e di milza gli fanno mangiare di lungo inanzi al cibo, o con timo o con pepe o con giengievo o con pulegio o con santuregia o con calamento o con origano o con issopo".
Nel "LIBRO DI ESPERIMENTI DI CATERINA SFORZA" degli inizi del '500 (vedi: "Libro di esperimenti di Caterina Sforza, a cura di P.Pasolini, Imola,1894) si legge: "La santo regia trita e cotta in aceto, impiastata sul capo de la parte di rientro exita li dismenticati".