cultura barocca
INFORMATIZZAZ. DI B. E. DURANTE

PIETRO SARPI nacque a Venezia nel 1552; giovanissimo entrò nell'ordine dei Serviti, assumendo il nome di Paolo; si distinse presto per le sue capacità di studioso, sia nel settore umanistico sia in quello scientifico, come ebbero modo di osservare i suoi amici Fulgenzio Micanzio (suo primo biografo) e Galileo Galilei (Sarpi, in età matura, fu artefice dei rapporti che Galileo ebbe con il governo veneziano in merito al telescopio).
Nel 1572 assunse vari incarichi presso i Gonzaga di Mantova, tra i quali quello di teologo di corte; successivamente ricoprì anche prestigiose cariche all'interno dell'ordine religioso di cui faceva parte.
Sostenendo gli ideali di una Chiesa aliena da interessi materiali e politici,
PAOLO SARPI
entrò in contrasto con le autorità ecclesiastiche controriformistiche, tanto che nel 1607 venne scomunicato, coinvolgendo nello scontro con Roma la Repubblica di Venezia, presso la quale operava come teologo e canonista; nello stesso anno, proprio per le sue idee antipapali, subì un grave attentato.
Nell'opera Storia dell'interdetto, il cui argomento è proprio il conflitto tra papa Paolo V e Venezia, Sarpi riaffermò, modernamente, la necessità di separare il potere spirituale da quello temporale.
Di questa ponderosa vicenda "dell'Interdetto" si è pensato di riprodurre qui le
CONSIDERAZIONI SOPRA LE CENSURE DELLA SANTITA' DI PAPA PAULO V CONTRO LA SERENISSIMA REPUBLICA DI VENEZIA
che a giudizio di Gaetano Cozzi "tra le opere a stampa composte dal Sarpi durante la contesa dell'interdetto...ci è parso, quella dove si realizza una perfetta fusione dell'esposizione dei termini tecnico-giuridici della contesa, con l'impostazione delle premesse e del suo contenuto religioso, e con una concezione moderna del principe e dello stato e delle loro prerogative politiche e religiose".
L'opera più celebre del Sarpi, pubblicata a Londra nel 1619 con lo pseudonimo di Pietro Soave Polano, è l'Istoria del Concilio tridentino, nella quale si analizza mezzo secolo di storia della Chiesa, cercando di individuare con obiettività ed equilibrio le cause del rafforzarsi delle mire temporali delle gerarchie ecclesiastiche.
Il suo stile, caratterizzato da semplicità strutturale e dall'uso di un registro linguistico medio, rifugge la ricercatezza retorica tipica del suo tempo, nell'evidente intento di farsi comprendere da un vasto pubblico.
Paolo Sarpi morì a Venezia nel 1623.
Bibliografia:
Bianchi - Giovini, Biografia di Fra Sarpi (Brussels, 1836);
Campbell, Vita di Fra P. Sarpi (Torino, 1880);
Balan, Fra P. Sarpi (Venezia, 1887);
Pascolato, Fra P. Sarpi (Milano, 1893).
Note biografiche a cura di Giuseppe D'Emilio e Carmela D'Orazio.



























CONSIDERAZIONI SOPRA LE CENSURE DELLA SANTITA' DI PAPA PAULO V CONTRO LA SERENISSIMA REPUBLICA DI VENEZIA
Maledicent illi, et tu benedices
Psalm. CVIII
INDICE TEMATICO
1 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RAPPORTI ISTITUZIONALI STATO CHIESA
2- REPUBBLICA DI VENEZIA: ECCLESIASTICI GIUDICATI DALLA GIUSTIZIA ORDINARIA
3 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RISCHI DI SMODATI ARRICCHIMENTI ECCLESIASTICI A SCAPITO DI CASATE LAICHE
4 - REPUBBLICA DI VENEZIA: PROVVEDIMENTI FATTI AL FINE D'IMPEDIRE ARRICCHIMENTI ECCLESIASTICI A SCAPITO DI CASATE SECOLARI
5 - REPUBBLICA DI VENEZIA: APPROVAZIONE DI SIFFATTI PROVVEDIMENTI SINO AL PONTEFICE ROMANO CLEMENTE VIII INCLUSO
6 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IMPREVISTA PRESA DI POSIZIONE DEL PONTEFICE ROMANO PAOLO V, SUCCESSORE DI CLEMENTE VIII DAL 1605, CONTRO I VINCOLI AGLI ACCLESIASTICI D'ACQUISIRE IMMOBILI
7 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IMPREVISTA PRESA DI POSIZIONE DEL PONTEFICE ROMANO PAOLO V, SUCCESSORE DI CLEMENTE VIII DAL 1605, CONTRO L'AFFIDAMENTO ALLA GIUSTIZIA DELLO STATO DI ECCLESIASTICI REI DI GRAVI DELITTI
8 - REPUBBLICA DI VENEZIA: BREVI DI PAOLO V AI REGGENTI DI VENEZIA CONTRO LA PROIBIZIONE AGLI ECCLESIASTICI D'ERIGERE STABILI SENZA LICENZA E DI DOVER SOTTOSTARE SEMPRE GLI ECCLESIASTICI ALLA GIUSTIZIA ORDINARIA PER REATI GRAVI
9 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RISPOSTA DEL SENATO REPUBBLICANO AI BREVI DI PAOLO V
10 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CONSIDERAZIONI DI FRA P. SARPI
11 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CONCETTO DI LIBERTA' ECCLESIASTICA NELLE CONSIDERAZIONI DI FRA P. SARPI
12 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CONCETTO DI LIBERTA' DELLA CHIESA, IN ANTICO DA INTENDERSI LIBERTA' SIA DI ECCLESIASTICI CHE DI LAICI, MODERNAMENTE FRAINTESO CON QUELLO DI LIBERTA' ECCLESIASTICA, CIOE' DI LIBERTA' DEGLI ECCLESIASTICI SOLTANTO, NELLE CONSIDERAZIONI DI FRA P. SARPI
13 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CONCETTO INDETERMINATO DI LIBERTA' ECCLESIASTICA: DISORDINE CONCETTUALE IN MERITO SECONDO FRA P. SARPI
14 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DIMOSTRAZIONE SARPIANA CHE LA LIBERTA' ECCLESIASTICA NON E' ALTERATA DALLE ISTITUZIONI VENEZIANE
15 - REPUBBLICA DI VENEZIA: SULL'EREZIONE E/O ALIENAZIONE DI STABILI ECCLESIALI
16 - REPUBBLICA DI VENEZIA: SULLA CAUTELA NELL'INTRODURRE IN UNO STATO NUOVI ORDINI RELIGIOSI E SULLE OPPORTUNE LICENZE
17 - REPUBBLICA DI VENEZIA: OPPORTUNITA' ONDE CONCEDERE LICENZA D'EREZIONE DI VALUTARE TANTO IL RILIEVO STRATEGICO DEL SITO DELLA NUOVA CHIESA O MONASTERO QUANTO IL SUO DECORO MORALE
18 - REPUBBLICA DI VENEZIA: SIA LA CITTA' CHE IL DOMINIO DI VENEZIA HANNO UN ADEGUATO NUMERO DI EDIFICI RELIGIOSI BEN CURATI E CUSTODITI
19 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IL SARPI ANALIZZA ORA LA LEGGE DEL 1605 CHE PROIBISCE AI LAICI DI ALIENARE STABILI A FAVORE DI ECCLESIASTICI
20 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IL SARPI IN MERITO ALLA LEGGE DEL 1605 DIMOSTRA CHE IL PRINCIPE DELIBERA SU COSE DI SUA PERTINENZA E NON DI PERTINENZA ECCLESIASTICA
21 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IL SARPI IN MERITO ALLA LEGGE DEL 1605 SOSTIENE CHE GLI ECCLESIASTICI NON DEBBONO, PER IL BENE DELLA CHIESA STESSA, POSSEDERE IL SUPERFLUO
22 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RIPARTIZIONE DEI FONDI ECCLESIASTICI PER I DIVERSI SERVIZI
23 - REPUBBLICA DI VENEZIA: NON E' PERALTRO DA ECCLESIASTICI MERCANTEGGIARE ED ESERCITARE OPERE DI COMPRAVENDITA
24 - REPUBBLICA DI VENEZIA: OPPORTUNITA' DEL SENATO VENEZIANO DI LEGIFERARE AL FINE DI MODERARE LA CONCENTRAZIONE DI RICCHEZZE IN MANO A POCHI ECCLESIASTICI
25 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DEGENERAZIONE NELL'USO DELLA RICCHEZZA DEI MODERNI ECCLESIASTICI A FRONTE DEGLI ANTICHI PADRI
26 - REPUBBLICA DI VENEZIA: NON EQUA RIPARTIZIONE DI BENI E RENDITE FRA GLI ATTUALI ECCLESIASTICI
27 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DEGENERAZIONE MORALE DEL CONCETTO DI "ACQUISTO ECCLESIASTICO"
28 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CENSURA SARPIANA AGLI ECCLESIASTICI SUOI CONTEMPORANEI
29 - REPUBBLICA DI VENEZIA: ELENCO DI LEGGI CHE ATTRAVERSO LA STORIA HANNO REGOLATO I POSSEDIMENTI ECCLESIASTICI, GLI ACQUISTI, LE DONAZIONI ECC.
30 - REPUBBLICA DI VENEZIA: LA LEGGE CONTESTATA DA PAOLO V E LE SUE SOLIDE BASI GIURIDICHE
31 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DIFETTI INTRINSECI ALLA CENSURA DI PAOLO V AVVERSO LE LEGGI VENEZIANE
32 - REPUBBLICA DI VENEZIA: LA POTESTA' SPIRITUALE DEVE SOSTENERE QUELLA TEMPORALE, NON SOSTUIRSI AD ESSA
33 - REPUBBLICA DI VENEZIA: FORO LAICO E FORO ECCLESIASTICO (IL CASO DEI DUE ECCLESIASTICI IMPRIGIONATI DALLA GIUSTIZIA DELLO STATO)
34 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DIBATTITO SUL DIRITTO DI FORO ECCLESIASTICO: RIFERIMENTI AI CODICI DEGLI IMPERATORI ROMANI E DEI MONARCHI D'OCCIDENTE
35 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DIGNITA' DE IURE HUMANO E DE IURE DIVINO: PROVVEDIMENTI PAPALI NELLO STATO PONTIFICIO SIA IN LINEA ECCLESIASTICA CHE TEMPORALE
36 - REPUBBLICA DI VENEZIA: ANCHE NEGLI ALTRI STATI SUSSISTONO LE ESIGENZE E LE CONDIZIONI DELLO STATO DELLA CHIESA A RIGUARDO DEGLI ECCLESIASTICI
37 - REPUBBLICA DI VENEZIA: PERCHE' SIA NECESSARIO CHE I PRINCIPI TEMPORALI ABBIANO LICENZA DI PUNIRE GLI ECCLESIASTICI
38 - REPUBBLICA DI VENEZIA: LE PUNIZIONI DEL FORO ECCLESIASTICO SONO TROPPO MITI PER PUNIRE CERTE COLPE ESTREME COMMESSE DA RELIGIOSI
39 - REPUBBLICA DI VENEZIA: AGEVOLATI DALLA MITEZZA DEL FORO ECCLESIASTICO MOLTI RELIGIOSI SI LASCIANO ANDARE A GRAVI AZIONI DELITTUOSE
40 - REPUBBLICA DI VENEZIA: SARPI DEMOTIVA PARECCHIE GIUSTIFICAZIONI SULL'OPPORTUNITA' DEI GIUDIZI ECCLESIASTICI
41 - REPUBBLICA DI VENEZIA: VIENE CITATA, COME ALTRO ESEMPIO DI CATTIVA INTERPRETAZIONE ECCLESIASTICA, UNA LITE DEL 1602 TRA CERTO FRANCESCO ZABARELLA ED I MONAGI DI PRAGIA
42 - REPUBBLICA DI VENEZIA: BENI EMFITEOTICI DELLE CHIESE, LORO CARATTERISTICHE
43 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RAGIONE DI CENSO RESERVATIVO DELLE CHIESE
44 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RAGIONE DI FEUDO DELLE CHIESE
45 - REPUBBLICA DI VENEZIA: PERCHE' LE CHIESE RICORRANO PREFERIBILMENTE ALLE RAGIONI DI ENFITEUSI PER IMPOSSESSARSI DI UN BENE SECOLARE
46 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IMPORTANZA STORICA DELLA CONSUETUDINE NELLA LEGISLAZIONE INTERMEDIA
47 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IMPORTANZA DEI RESCRITTI NELLA LEGISLAZIONE INTERMEDIA E DEL SENATO VENETO IN PARTICOLARE
48 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DIFETTI SPECIFICI AVVERSO QUANTO SOPRA NEL MONITORIO DI PAOLO V
49 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CAUTELE DI CUI AVREBBE DOVUTO FARSI CARICO DI PAOLO V PRIMA DI COMMINARE UNA SCOMUNICA CAUSA DI TANTO SCANDALO INTERNAZIONALE
50 - REPUBBLICA DI VENEZIA: LA SCOMUNICA E L'INTERDETTO AVVERSO LO STATO VENETO VANNO CONTRO I CONSIGLI DEL CAPITOLO 24 SEXTUS DECRETALIUM DETTO ALMA MATER
51 - REPUBBLICA DI VENEZIA: INCONGRUENZE E MANCHEVOLEZZE DEL MONITORIO DI PAOLO V A GIUDIZIO DI P. SARPI
52 - REPUBBLICA DI VENEZIA: PAOLO V SCOMUNICANDO UNA COMUNITA', CIOE' TUTTO IL SENATO DI VENEZIA, HA CONTRAVVENUTO ALLE INTERPRETAZIONI DEI PADRI E DOTTORI DELLA CHIESA OLTRE CHE DEI PIU' GRANDI TEOLOGI
53 - REPUBBLICA DI VENEZIA: FALLIBILITA' DEL PONTEFICE IN MATERIA TEMPORALE E SUA POSSIBILITA' DI EMENDARE (ESEMPI STORICI)
54 - REPUBBLICA DI VENEZIA: NULLITA' SECONDO P. SARPI SIA DELLA SCOMUNICA AVVERSO DOGE E SENATO VENETO CHE DELL'INTERDETTO CONTRO IL DOMINIO TUTTO
55 - REPUBBLICA DI VENEZIA: ATTEGGIAMENTO DA TENERSI DA OGNI PRINCIPE AVVERSO UNA INGIUSTA SENTENZA ECCLESIASTICA SECONDO L'INTERPRETAZIONE DI S. GREGORIO
56 - REPUBBLICA DI VENEZIA: ATTEGGIAMENTO DA TENERSI DA OGNI PRINCIPE AVVERSO UNA INGIUSTA SENTENZA ECCLESIASTICA, ATTESO IL CONFRONTO FRA LE SENTENZE DI S. GREGORIO E PAPA GELASIO
57 - REPUBBLICA DI VENEZIA: SENTENZA GIUSTA - SENTENZA INGIUSTA ED INTERPRETAZIONI CORRELATE (INGIUSTA FU LA SENTENZA DI PAOLO V)
58 - REPUBBLICA DI VENEZIA: COMPORTAMENTO DEI SUDDITI VENEZIANI A FRONTE DELLA INGIUSTA SENTENZA DI PAOLO V



















Stimò sempre la Repubblica di Vinezia che il fondamento principale d'ogni imperio e dominio fosse la vera religione e pietà, et ha conosciuto per grazia singolare di Dio l'esser nata, educata et accresciuta nelvero culto divino, il quale ella ha con molta sollecitudine procurato sempre di accrescere, specialmente con fabricar molti edifici sacri, e quelli adornare magnificamente, provedendoli di condecenti ministri, e ricevendo quegli ordini di religiosi, che i tempi sono andati producendo nella Chiesa catolica.
Di che fa manifesta fede il numero grande delle chiese riccamente dotate, e l'ampiezza de monasterij, non solo nella città di Vinezia, ma ancora nelle altre soggette: e ciò sempre con opportuno e necessario riguardo d'impedire tutti quegli accidenti che potessero esser nocivi alle città e dominii per le novità che s'introducono sotto pretesto di collegi, confraternità, società o congregazioni, et il danno e pericolo che portano alla publica sicurezza le fabriche grandi e situate in luoghi non opportuni: per il che ebbe sempre in considerazione quali sorti di persone s'introducessero nella sua città, et in qual luogo si fondassero li monasterij e chiese, per poter riceverle e sostentarle; e quando conobbe che la diligenza commune et ordinaria non bastava, insino l'anno 1337 satbilì per legge che in Vinezia non fossero fabricate chiese, monasterij, ospitali et tali altri tal luoghi senza licenza. La quale legge confermò et innovò poi nel 1515 e nel 1561. Ma avvertitosi che così fatta provisione era necessaria ancora per le altre sue città terrestri e maritime, nel 1603 comandò alli rettori che per l'avvenire non dovesse permettere a qual si voglia persona religiosa o laica di fabricar monasterij, chiese, ospitali o altri ridotti di religiosi o secolari, senza licenza del senato sotto pena di bando alle persone e di confiscazione della fabrica e del fondo.
Stimò anche sempre la Repubblica che sì come ella nelli tempi innanzi s'era esemplarmente conservata, così doversi conservare medesimamente nell'avvenire con l'uso della sincera et incorrotta giustizia amministrata alli soggetti suoi sapendo che la Scrittura Divina dice:" Regnum de gente in gentum transfertur propter iniustitias, iniurias, contumelias et diversos dolos".
Et in contrario: "Rex qui iudicat in veritate pauperes thronus eius in aeternum firmabitur".
Per il che conservando ciascuno in possesso delli suoi beni, con difesa e protezzione specifica dell'onore d'ogn'uno, ha mantenuta e perpetuata felicemente la quiete e tranquillità publica.
La quale perchè non avesse ad esser turbata con indebita usurpazione et offesa altrui, essendosi spesso trovati in atroci et enormi delitti diversi ecclesiastici, i quali con la bontà della vita e de costumi, com'è l'obligo loro, doverebbono essentarsi dalla giustizia criminale, non è restata la Republica di usarla contro di loro, per quanto la publica tranquillità ha ricercato, concedendo però loro essenzioni dalli magistrati nelli delitti communi per favorir quell'ordine, ad essempio delli principi circostanti, tenendo di questa maniera sempre li cattivi in timore, e consolati gl'offesi: e così essercitando la potestà datale da Dio ha costumato dal suo nascimento sino alli tempi presenti senza alcuna interruzzione, di giudicare e punire nelli delitti gravi qualonque ecclesiastico di qual si voglia grado et ordine; onde s'è continuato a godere et esercitare con la quiete publica l'antica et independente libertà del suo vero dominio.
Similmente la Republica in ogni tempo ha procurato di tenere li suoi soggetti abbondanti di possessioni e beni stabili, sapendo che alla sicurtà publica principalmente era di utilissimo servizio se il privato fusse stato commodo; laonde già circa 300 anni cominciò ad avertire che gli ecclesiastici andavano cercando cotidianamente di crescere in possessioni e rendite: cosa che (se bene essi non avevano tale intenzione) riusciva però non solo in danno delle famiglie secolari, che necessariamente bisognava mancassero scemandosi la quantità delli beni loro, ma ancora in detrimento delle publiche rendite e delle publiche forze.
Imperò che diminuendosi sempre il numero delli cittadini che attendono e servono al governo civile, e mancando la quantità de' beni loro, sopra le quali le publiche rendite sono fondate, e per il contrario crescendo il numero degli ecclesiastici che pretendono essenzioni da tutti li carichi necessari alla Republica, et augumentandosi la quantità de' beni loro, che pretendono pure essere essenti, era necessario che le cose publiche si andassero sommamente diminuendo.
Aggiungevasi che non potendo mai gli ecclesiastici alienar cosa alcuna, se non con qualche loro avantaggio, et essendo le chiese perpetue, se essi sempre acquistassero, e li secolari sempre diminuissero, era necessario in fine che restassero tutti li beni in mano degli ecclesiastici, e si estinhuesse ogni nobiltà ed ogni civiltà, riducendosi il mondo a due condizioni d'uomini, ecclesiastici e villani.
Per provedere adunque a così grave e noto inconveniente, ordinò la Republica l'anno 1333 che alle chiese non fosse donato o lasciato alcuno bene stabile in perpetuo nella città e ducato di Vinezia, e che se pur fosse lasciato dopo certo termine si vendesse, restando alle chiese il prezzo.
La qual legge variamente fu osservata sino al 1536, quando fu stabilita in questa forma: che non fossero da alcuno lasciati beni stabili alle chiese, se non per dui anni, nel qual tempo si dovesse venderli, e se ciò non fosse fatto dagli ecclesiastici
, un magistrato avesse cura di farne l'essecuzione.
E dalle sopradette leggi si vidde in diversi tempi esser seguiti tanti beni e publici e privati, che alcune città delle soggette per constituzioni sue municipali decretarono l'istesso, parte anticamente, e parte in questi tempi nostri.
Le quai cose dal senato considerate, per ridur tutto lo Stato suo ad uniformità e provedere alle diminuizioni de' beni secolari, nel 1605 estese la legge, che era ordinata per la città di Vinezia, a tutto lo Stato insieme.
Aggiongendo che nissuno nella città di Vinezia o nel Stato possa sotto qual si voglia colore vendere, donare o in altro modo alienare a persona ecclesiastica beni stabili senza licenza del senato, da concedersi nel medesimo modo, come si concede nelle alienazioni de' beni publici, e ch'ogni alienazione altrimente fatta sia nulla, e li stabili confiscati con pena alli notari.
Per li quali rispetti, tre anni inanzi, del 1602, per moderar il soprabondante acqusito degli ecclesiastici, che sotto pretesto di ragioni dirette avute da loro in beni posseduti da laici, ogni giorno tentavano di appropriarseli, movendo lite ora a questo or a quello delli possessori, dando nome di enfiteusi alli censi e locazioni perpetue, e perciò eccitando pretensioni d'essere nelle vendite preferiti, overo che li possessori fussero decaduti, o che li beni non potessero passare ad ogni sorte di eredi, con molto danno delli sudditi, che erano travagliati et avviluppati in continue liti, deliberò il senato per occasione di certa controversia mossa dalli monachi di Pragia che le chiese non potessero appropriarsi beni posseduti da laici per ragioni di prelazione, estinzione di linee, consolidazione dell'utile, salvo loro il suo diretto.
Il che fu statuito attesa la consuetudine di più di 200 anni sempre, e gli innumerabili giudicii in conformità seguiti, per levare le occasioni delle controversdie e liti, e dar forma scritta alli giudici da seguire in ogni caso.
Queste leggi, ordinazioni et amministrazioni della giustizia sono molto bene state vedute, sapute et osservate dalli pontefici passati, sì per li avisi continui ch'hanno dagli ecclesiastici di questo Stato, come per li particolari che cotidianamente ricevono dalli nonci suoi residenti in questa città, senza che per se medesimi molti pontefici n'hanno avuta piena notizia et informazione: altri per esser nati et educati in questo Stato, altri per esser vissuti privati facendovi officio di confessore per molti anni, alcuni officio d'inquisitori, et altri vescovi di qualche città.
Di modo che ogni pontefice in qualche modo ha avuto notizia della giustizia et equità delle leggi veneziane e delli giudicii de' loro magistrati; onde si ha da presupporre che non avendo mai reclamato, tacitamente insieme gli abbiano approbati?
Li giudicii sopra le persone ecclesiastiche sono sempre stati essercitati, e per lo passato più frequentemente che nelli tempi prossimi; e le ordinazioni o leggi soprascritte, lasciando le più antiche memorie, si veggono esser state in uso già più di 300 anni, se bene in questi ultimi tempi alcune sono state confirmate altre estese, et altre dalla legge non scritta, con la quale s'osservano, ridotte in scrittura, e così finalmente espresse e publicate.
Delle quali, una del 1602 e l'altra del 1603 sono state vedute da papa Clemente VIII, zelantissimo e diligentissimo, ma con tutto ciò non hanno soddisfatto alla Santità di papa Paulo V. Al quale per incognita cagione nel principio del suo pontificato è piaciuto di essaminare le leggi e giudicii della Republica.
E nel fine di ottobre prossimo passato [Paolo V] nella audienza ordinaria si dolse coll'ambasciadore [Agostino Nani] di essa Republica [di Venezia], perché nella sede vacante avesse fatto una legge che proibisce agli ecclesiastici di acquistar stabili, aggiungendo che, quantunque fosse constituita in virtù d'un'altra prima, li canoni però fanno invalida così la vecchia come la nuova; per il che omnimamente voleva che fosse annullata, imponendo all'ambasciadore di notificar questa sua volontà alla Republica.
Il che avendo fatto, e ricevuto ordine del senato di dar conto al pontefice [Paolo V] delle ragioni cause e giustizia della legge, e della potestà che la Republica ha di far simili ordinazioni, il pontefice, attento alla sua deliberazione, disse apertamente [all'ambasciatore Agostino Nani] che udiva per dar sodisfazzione, e non per mettere così fatte raggioni in alcuna considerazioni, e concluse di voler mandare sopra ciò un breve oratorio a Venezia, e mostrò una scommunica, che aveva fatto stampare contro un'altra città, significando in simil cause di non voler risposte o allegazione di ragioni, ma pronta obedienza: e soggiunse un'altra querela per la retenzione fattasi nelli mesi innanzi d'un canonico di Vicenza e dell'abbate di Nervesa, dicendo di volere che fossero rimessi al foro ecclesiastico, e che se la Republica ha privilegi di giudicar ecclesiastici, non si estendono né a tal sorte di persone né a tal genere di delitti, per li quali li sudetti sono carcerati.
E qui sarà necessario di digredire un poco, per narrar le cause della carcerazione di questi delinquenti.
Brandolino Valdemarino, abbate di Nervesa, fu querelato et imputato d'aver essercitato molti atti tirannici sopra la robba e mogli degli uomini abitanti nelle terre vicine a lui; d'aver levato di vita con veneno più persone, e tra queste un religioso sacerdote suo domestico; d'aver dato il veleno al padre et ad un fratello; d'aver fatto uccidere più uomini; d'aver tenuto commercio carnale continuato con una sua sorella naturale; d'aver essercitato molti atti magici et empi per venire al fine delle sue disonestà; e per altre cause, che non si può senza orrore narrare più particolarmente come apparisce nelle denonzie e querele fatte da diverse persone contro di lui.
E Scipione Saracino, canonico vicentino, fu imputato che con sprezzo avesse rotto li publici sigilli delli rettori di Vicenza, posti sopra la cancelleria del vescovato in sede vacante, per custodia e sicurezza delle scritture e ragioni del vescovato, a petizione et instanza del cancellier di quello; e di più d'aver insultato una gentildonna veneta, di famiglia principale vicentina, sua parente, con sporcargli la porta e la casa, dopo aver tentato per longo tempo, con modi indecenti la sua castità, con scandolo publico, perché non si asteneva costui di essercitare i suoi libidinosi tentativi anco nelle chiese.
Ma ritornando al pontefice, la Santità sua in diversi congressi con l'ambasciatore persuase la Republica a voler lasciare da canto le sue ragioni et ubidirla intieramente; e doppo alcuni giorni aggionse nuove querele per la legge soprascritta, che proibisce fabricare chiese senza licenza.
E si restrinse risolutamente che voleva fossero rivocate le due leggi sudette, et rimessi li dui prigioni al suo noncio residente in Venezia.
Et il dì 10 di decembre, formati due brevi, uno sopra le due leggi, e l'altro sopra il giudicar gli ecclesiastici
[custoditi in a.s.v., Commemoriali, Reg.27, cc.28 v - 32 v], commise al noncio suo che li presentasse.
Ma il noncio [monsignor Offredo degli Offredi] forse mosso perché il senato in quegl'istessi giorni eletto un ambasciator straordinario per tentar ogni via umile e possibile di rimuovere la Santità sua dalla resoluzione presa innanzi la cognizione della causa, et indurla ad informarsi prima che venir ad altra esecuzione, differì la presentazione delli brevi, cosa che non fu approvata dal pontefice, ma gli spedì in diligenza commandamento di presentarli immediate.
Per il che il giorno della natività di Nostro Signore, quando il duce Grimani stava per render l'anima a Dio e che la Signoria era congregata con li senatori, de' quali alcuni avevano ricevuto il santissimo sacramento dell'eucarestia, altri erano per riceverlo, dimandò audienza, e presentò due brevi sigillati: li quali non furono aperti per la morte del duce, che successe nel seguente giorno, sino dopo l'elezzione del nuovo [Leonardo Donà, eletto il 10/I/1606].
I quali aperti si trovarono ambidui d'un istesso tenore. E contenevano esser venuto a notizia sua che la Republica nelli suoi consegli aveva constituito molte cose contro la libertà ecclesiastica e l'auttorità della Sede Apostolica, et in particolare aveva esteso a tutto il suo Dominio alcune leggi, che erano per la sola città di Venezia, ch'era di non fabricar chiese e monasterii e luoghi pii, et un'altra che proibiva l'alienazione de beni laici in ecclesiastici senza licenza del senato: le qual cose per esser contarie alla libertà ecclesiastica dichiara nulle et invalide, et chi le ha statuite incorsi nelle censure ecclesiastiche, e comanda sotto pena di scommunica latae sententiae che siano revocate e cancellate, minacciando, se non sarà obedito, di procedere più innanzi.
Al che il senato, sotto il dì 28 di gennaro, rispose [la stessa data in cui il Sarpi fu fatto consultore della Repubblica = l'autografo è nella F.5 del fondo Consultori in iure]: aver con dolore e maraviglia inteso dalle lettere di sua Santità che le leggi della Repubblica osservate felicemente per tanti secoli, non riprese da alcuno delli precessori suoi, le quali revocare sarebbe un revoltare li fondamenti del governo, si riprendino ora come contrarie all'auttorità della Sede Apostolica, e coloro che le hanno constituite, uomini di eccellente pietà, benemeriti della Sede Apostolica, che sono in Cielo, siano notati per violatori della libertà ecclesiastica: avere egli secondo l'ammonizione della Santità sua essaminato le leggi e vecchie e nuove, né trovato in quelle cosa che non abbia potuto per auttorità di supremo principe statuire; e toccato qualche particolare delle sue ragioni, concluse credere di non essere incorso in censure alcune, e che la Santità sua, piena di pietà e religione, non vorrà senza cognizione della causa persistere nelle comminazioni.
Questo luogo ricerca, prima che passiamo più innanzi, che si esplichi quali siano le opposizioni che il pontefice fa alle due leggi soprascritte, e quante siano di facile e pronta risoluzione, e quali siano insieme le ragioni, la giustizia e l'equità delle leggi, e quanto sia legittima nella Repubblica la potestà di costituirle.
Oppone il pontefice a tutte due queste leggi insieme, dicendo che sono "Sedis Apostolicae auctoritati et ecclesiasticae libertati immunitatique contrariae, tum generalibus conciliis et sacris canonibus, necon romanorum pontificum constitutionibus repugnantes".
Per il che, innanzi d'ogni altra cosa, sarà molto opportuno che vediamo che cosa sia libertà ecclesiastica, e donde abbia ricevuto origine.
Imperò che certa cosa è che questo nome è nuovo, e non inteso per 12 secoli nella Chiesa
.
Fa mensione il santissimo apostolo Paulo della libertà cristiana nelle epistole alli Romani et alli Galati a pieno, quivi dimostrando che per lo peccato del primo padre nostro eravamo fatti servi del peccato, dalla qual servitù Cristo Nostro Signore ci ha liberati, riscuotendoci con il suo sangue. E però dice: "Cum servi essetis liberi fuistis iustitiae, nun vero liberati a peccato, servi autem facti Deo, habetis fructum quidem sanctificationem, finem vero vitam aeternam ["Roma 5, 20-22"].
Et alli Galati un'altra servitù propone alle cerimonie delle legge mosaica, della quale similmente Cristo ci ha liberati, quando dice: "Nun fratres non sumus ancillae filii sed liberae, qua libertate Christus nos liberavit" ["Gal. 4, 31"].
Non ad altri è stata donata tanta grazia di liberazione, che a ciascuno delli fideli di Cristo et alla Chiesa in corpo.
Per il che si ritrovarono alcuni delli santi antichi chiamarla libertà della Chiesa: a questa non si oppongono se non li ministri del demonio e la parte dell'inferno; e non ha dubbio che qualonque con le sue leggi pensasse derogarli in una minima parte sarebbe alieno della santa Chiesa cattolica.
Ma di questa non si parla al presente, poiché il famoso et augusto nome di Chiesa, che era commune a tutti li fideli anticamente, così clerici come laici, adesso pare che sia ristretto per lo più a significar li clerici solamente.
Onde se le è data anco una libertà propria loro, separata dalla sopradetta, della quale pare che Onorio III [successore di Innocenzo III, papa dal 1216 al 1226] fosse il primo a far mezione circa il 1220.
Ma quello che esso Onorio III intendesse per libertà ecclesistica, e Federico II imperatore, che nell'istesso tempo et ad instanza dell'istesso papa la nomina, né essi lo dichiarano, né tra li canonisti è in tutto ben deciso: poiché in tutta la legge canonica non si trova diffinita, né si dichiarano le cose che sotto essa si comprendono, né è data regola coma giudicarle; per lo che ancora non si accordano quando nasce disputa sopra alcuna cosa se sia contra la libertà ecclesiastica.
La libertà è diffinita dalli giuriconsulti essere una facoltà naturale di fare quello che ciascuno vuole quando le leggi lo permettono.
Alcuni pensano che questa facoltà nelli clerici di fare quello che piace a loro conforme alle leggi, sia la libertà della Chiesa
; in modo che in questo senso quello istesso che è libertà assolutamente nel laico, è nell'ecclesiastico libertà ecclesiastica, e consiste in godere quella facoltà che la legge commune dà a ciascuno.
Pare che tale sia il senso del capitolo Eos qui, dove dice che se alcuno proibirà che non sia cotto pane, macinata biada, fatto servizio alli ecclesiastici ["De immunitate ecclesiae in Sexto" = Sexti decretales, lib. XV, tit. III, cap. 23], questo si presume in derogazione contra la libertà ecclesiastica.
Altri non vogliono così, ma sotto questo nome comprendono quelle cose che solamente agli ecclesiastici convengono, per privilegi concessi loro da Dio o dal papa nelle cose spirituali, e dalli principi nelle temporali; talmente che non voglia altro dire che privilegio di essenzione, concesso alla Chiesa universale, così nelle cose temporali, come nelle spirituali.
Un'altra opinione compone ambedua queste insieme. Altri chiamano libertà ecclesiastica ogni cosa fatta a favor de clerici, e dicono essere contra a quella li statuti per li quali li clerici si rendono più timidi, e li laici più audaci; la qual diffinizione è di Bartolo [bartolo da Sassoferrato (1314-1357): a margine della copia a stampa del XVII secolo è scritto: Authent. cassa, can. sacr. sanct. Eccl. nei Commentaria], e pare la più accomodata all'essaltazione dell'ordine clericale.
Ora anderemo mostrando che preso il vocabolo di libertà ecclesiastica in qual si voglia di questi sensi, le ordinazioni della Republica di Venezia e la carcerazione e condannazione di persone ecclesiastiche non levano alcuna libertà, et insieme risolveremo le opposizioni che particolarmente si fanno a ciascuna delle leggi.
Non dice il papa altra ragione speciale perché la legge del non potersi fabricar chiese l'offende, se non per essere statuita, così sono le parole formali del suo breve: "Quasi ecclesiae et ecclesiasticae personae temporali vestre iurisdictioni subiectae aliquo modo essent, vel qui ea ratione in vestris ditionibus ecclesias et alia pia ac religiosa loca extruerent, tanquam in qliquo scelere deprehensi multandi viderentur".
Né altra ragione medesimamente allega per provar la sua intenzione che sia contra libertà ecclesiastica la proibizione a laici di non lasciare o donare in perpetuo e non alienare stabili nelli ecclesiastici
, se non che pare che si fondi in una certa usurpata giurisdizzione che la potestà secolare abbia nei beni ecclesiastici, e queste sono le parole sue: "Perinde ac si temporablibus dominis liceret in ecclesiastica bona quae ecclesiis ecclesiasticis personis ac aliis locis piis a testatoribus et caetersis Christi fidelibus pro remedio peccatorum et exoneratione conscientiae plerunque relinquuntur aut alio modo conferuntur, ius aliquod exercere.
Ma primieramente ciascuno che con interna diligenza vorrà considerare, penetrarà da se stesso ch'l far una legge che proibisca ad ogn'uno, così ecclesiastico come laico, di non fabricar chiese senza licenza, non è (come il pontefice oppone) essercitar potestà soprala chiesa, ma sopra il fondo, sopra l'area o superficie ove si può fabricare, la qual nissuno negarà che non sia pura e meramente secolare.
Nissun privato, che proibisca ad un ecclesiastico fabricar una chiesa nel suo fondo, si dirà che ordini cosa alcuna sopra la chiesa né a persona ecclesiastica, ma che disponga del fondo suo a suo beneplacito, e che vieti l'uso della cosa a chi non è obligato per legge concederlo.
Non si chiama chiesa quella che si può fabricare, ma quella che è già dedicata: ogni privato ha dominio sopra il fondo suo, et il principe sopra tutti li fondi del dominio ha una potestà maggiore; per il che, sì come è ingiustizia fabricar una chiesa nel fondo di un privato senza sua permissione, così è ingiustizia fabricare in qual si voglia loco d'un principe contro la sua proibizione.
Non viene levata qui libertà all'ecclesiastico in nissuno delli sopranominati sensi: nel primo, perché nissuno ha libertà d'usar la cosa altrui contro il voler del padrone; nel secondo medesimamente, perché Dio, universal Signore d'ogni cosa, dando libertà alli ministri della Chiesa di edificar tempii, non ha levato il dominio del privato né l'imperio del principe sopra il fondo: né il papa ha disposto altrimente, né potrebbe disporre, per esser cosa temporale; né principe alcuno con suo privilegio ha potuto disponere alcuna cosa nello stato di questa Republica nata libera; e così non è derogato in conto alcuno alla libertà ecclesiastica.
E se questa ragione valesse: la chiesa è cosa spirituale, adunque chi dispone sopra il fabricarla, dispone sopra cosa spirituale, ne seguirebbe che un principe, che proibisce mettere nelle fabriche delle chiese roveri, che sogliono servire al fabricar galere, barche, ponti et in altro, overo che proibisce coprirle di piombo per carestia che n'avesse per uso di guerra, si direbbe far legge sopra le chiese e loro coperti, essendo nondimeno vero che fa l'ordinazione sopra li roveri e sopra il piombo, che sono cose meramente laiche.
Qual cosa è, che non possa esser dedicata al culto divino?
Forse non si troverà alcuna, ché non essendo se non il solo peccato contrario a Dio, ogni cosa gli può esser consacrata; adunque chi disporrà d'una cosa, vietando che non possa esser dedicata, offenderà Dio?
Non certo.
Il precetto dell'onor divino, essendo affermativo, non comprende tutte le materie, tutti li luochi, tutti li tempi, come vorrebbono quelli che tirano tutto all'ecclesiastico, ma admette che quando non manca cosa alcuna a lui, il resto s'applichi ad usi umani, et ad esso si attribuisca quanto gli è appunto condecente.
Se fosse lecito contro il voler del principe fabricar chiesa in qualonque luogo, sarebbe lecito similmente contro il suo volere adoperar qual si voglia materia o qual si voglia artefice, il che estendendo anco alli paramenti et ornamenti delle chiese et alli vasi sacri, restarebbe ogni panno, ogni metallo, ogni legno et ogni altra cosa appartenenerebbe all'ecclesiastico: l'assurdità delle quali conseguenze mostrano chiaramente che, sì come la chiesa già dedicata appartiene al spirituale, così nissuno luogo può esser dedicato senza la permissione del prencipe temporale, e la equità di questa legge fu sempre conosciuta dal mondo.
Cicerone nell'orazione pro domo sua mostra che in quei tempi nissuna area poteva esser consecrata "iniussu populi".
Sotto gli imperatori gentili ancora erano quattro leggi che vietano potersi consacrare cosa alcuna senza licenza del prencipe, le quali avendo Giustiniano portato nelli Digesti, senza dubbio le ha accomodate alla nostra religione, e dato loro virtù anco sopra i fabricar le nostre chiese [vedi la legge sacrae autem res entro il Titolo VIII, libro I: vedi anche le Institutiones di Giustiniano al libro II, titolo I sotto la legge Nullius autem sunt res sacrae et religiosae et sanctae].
E chi leggerà le istorie ecclesiastiche e le Novelle di Giustiniano, vederà che nelli tempi dell'imperatori, così in oriente come in occidente, al prencipe sopra tutti gl'altri è stato deferito in questa parte, sì che non solo da loro è stata richiesta licenza del far nuove chiese, ma ancora nissuno ha mai pensato di erigere una chiesa in catedrale o metropolitana senza permissione et espresso decreto del principe.
Si può vedere sopra ciò la novella 67 di Giustiniano, e quello che Balsamon [Teodoro Balsamone, canonista bizantino del XII secolo, patriarca di Antiochia molto estesamente riferisce sopra il XVII canone nel concilio calcedonense [Canones XXX sanctae et oecumenicae quartae synodi chalcedonensis = P. G. del Migne, CXXXVII = il canone XVII commentatto alle coll. 450-453].
Nè sarà fuor di proposito aggionger qui il costume di Francia, dove non si possono fabricar chiese senza lettere regie di espressa concessione, et appresso senza arresto [deliberazione] del parlamento.
E per portar anco esempio di qualche luogo d'Italia si ricordarà qui che nella Republica di Genova si ha particolare constituzione che senza licenza di ambdua li collegi non si possa fabricar monasterii, in pena di confiscazione del loco.
Ma non tanto alle chiese materiali la Republica di Venezia ha avuto risguardo, quanto anco alle persone che devono averle in governo, poiché non in ogni luogo sta bene ogni sorte di religiosi.
Abbiamo un ottimo essempio del famosissimo governo dei re di Castiglia, poiché senza la licenza regia non si può introdur nuovi religiosi in quelli regni; per il che sino al presente li padri capuccini non hanno potuto avervi ingresso; e non sono molti anni che li padri di S. Francesco di Paula diedero principio a fabricar una chiesa in Madril senza la permissione regia, la quale opera il re Filippo II fece che si fermasse, restando in essempio la chiesa così principiata et imperfetta. E la Santità sua, essendo nuncio straordinario a quel re, l'ha potuta molto ben vedere.
Li fondamenti di ciò non sono men ragionevoli, legali e legitimi che necessari; perché sì come non sarebbe permesso ad un numero di persone d'alieno stato, contrarie di costumi e con fini diversi da quelli d'una republica, che entrassero nello stato di lei e si riducessero in un sol luogo insieme, si facessero un capo e trattassero con li soggetti del prencipe in secreto, poiché questa, come sospetta e perniziosa conventicula, sarebbe subito impedita: così, col pretesto d'un monasterio nuovo potendo venir insieme sotto un capo molti di altre nazioni, alle volte contrari di costumi e di sensi, e per la commodità che hanno di trattare per le confessioni o altri colloqui spirituali, insinuandosi con li sudditi del prencipe, e così corromperli nella fedeltà, questo similmente con ottima ragione deve esser molto bene avvertito, per la publica conservazione e quiete dello stato. E per questo rispetto convenne pur alla Republica, pochi anni sono, licenziar di Venezia alquanti padri di un monasterio, tutti di nazione aliena, per esser stati da loro sviati molti uomini dell'arsenale.
E così gl'oratorii e collegi che si fanno di tutta una nazione in una città, massime piena di molte sorti d'uomini, non sono senza gravissimo pericolo, quando non sia consapevole il prencipe di quello che nelle sue ridozzioni si tratta.
Si aggionge che le fabriche, se non sono situate in luoghi convenienti, portano gravi danni alle città, spezialmente a quelle che sono forti; e si sa quante città sono perite alle volte per una chiesa di fuori poco lontana dalla fossa, occupata dall'inimico accampato, e quanto danno abbia recato medesimamente una fabrica tale vicina alle mura di dentro; e quante machine et edifici sacri similmente per importanti rispetti ha bisognato spianare per sicurtà publica, con qualche maraviglia delle persone semplici e devote.
Non solo al ben publico è cosa utilissima, come di sopra si è discorso, che non si fabrichino chiese senza licenza, ma ancora è per bene di esse chiese, acciò che ad arbitrio di chi si sia non siano fabricate in luoghi indecenti, appresso prostibuli, appresso cloache, né di forma indecente e senza decoro conveniente alla mestà della religione, sì che siano più tosto a derisione che ad altro: né si vede che il molto e soprabondante numero delle chiese sia utile per la devozione, anzi in contrario, perché quando sono troppo, non si può prestare li debiti servizi a tutte, e cagiona più indevozione una chiesa mal tenuta che diece ben custodite; e le limosine anco non bastano per tutte le chiese, quando il numero è eccessivo, sì che né le vecchie né le nuove hanno i suoi debiti servizi.
Per grazia di Dio non mancano chiese e luoghi pii nella città di Venezia e nelle altre tutte dello Stato: e queste sono tali e tante, che alcune città colme di reliquie d'innumerabili martiri, che restano poco decentemente conservate, possono venir a prendere essempio da queste; e con tutto ciò non ha tralasciato il senato, quando l'opportunità si sia presentata, di dar licenza di fabricar nuove chiese e luoghi pii dovunque è occorso, e di dare parimente ingresso a nuovi religiosi, anco dopò fatta la stessa legge.
Ma chi non si maravigliarà udendo riprendersi la pena della legge veneziana imposta a chi fabrica chiese senza licenza, dicendosi da chi oppone che il fabricarle è opera in sè non cattiva, quasi che l'opera in sé e di sua natura buona, se sarà fatta senza le debite circostanze, non sia viziosa e meriti castigo. Non dalla materia overo oggetto solamente, disse Aristotile, e dopò lui tutti li teologi, si piglia la bontà dell'azzione, ma dalla integrità di tutte le circostanze ["Ethica,2,6"].
E' bene fabricar chiese in luogo e tempo e modo conveniente, ma non è bene senza queste condizioni il fabricar in luogo altrui una chiesa, e senza consenso del patrone non è dovere. Il prencipe, oltre il dominio che il privato ha, tiene sopra ogni luogo una potestà molto maggiore, alla quale et il patrone et il luogo sono soggetti, sì che di essi non si può fare quello che il prencipe proibisce o non consente.
Certamente ho consumato molto più parole di quelle che bisognavano per far capace ogn'uno che abbi il senso commune delle ragioni che sono per questa legge: ma non me ne pento, perché servono anche a difesa della seguente del 1605, che proibisce a laici alienar stabili a ecclesiastici.
Imperò che meno questa dispone di cosa ecclesiastica, né commanda agli ecclesiastici cosa alcuna, ma solamente a secolari, e sopra bene secolari.
Che ingiuria farà mai un prencipe che commandi a' suoi sudditi di non contrattatre con una sorte di persone?
E' cosa usatissima in tutti li regni la proibizione di non trasportare fuori o di non introdurre alcuna sorte di merci, adunque ed è offesa de forestieri?
Non credo che alcuno assentirà in questa consequenza, e tanto più quanto li privati fanno tal legge sopra li beni suoi, quando nelli contratti livellari pongono condizioni che il livellario non possi venedere o alienar li suoi utili nella Chiesa: e pure questo si fa da tutti.
Et altri nelli testamenti per conservar la robba in casa sua la condizionano sì che non può mai passar nella Chiesa.
Tutte le leggi de' fidecommissi sarebbono contro la libertà ecclesiastica, perché vietano che il bene sia lasciato alla Chiesa; e quelle della falcidia trebellianica ancora, perché tutte detraeno alla Chiesa quella porzione che vogliono sia detratta dalli legati e resti dell'erede.
So che alcuno molto zelante di qual si voglia augumento delle cose ecclesiastiche nel temporale, afferma che così sia: ma non credo che l'opinione sua avrà molti seguaci.
Et è una gran risoluzione il dannare azzioni et ordinazioni che tutto il mondo cristiano, da 1500 anni e più in qua, ha, non voglio dire solamente ammesso, ma lodato, commendato e tenuto come servizio di Dio.
Sono bene alcuni che per far un gran favore al secolare dicano che sarebbe stato e saria lecito statuir una legge che nessuno potesse vender li suoi stabili senza licenzia; la qual così generale comprenderebbe anco gl'ecclesiastici, e potrebbe il prencipe richiesto della licenza concederla sempre, quando l'alienazione dovesse passar ad un laico, e negarla quando ad un ecclesiastico, che non sarebbe contro la libertà ecclesiastica.
A' quali bisogna ben rispondere con qualche libertà che studiando un poco di logica trovarebbono che, concesso tutto il genere, viene concessa ogni specie in particolare e solitaria: laonde chi concede ch'l prencipe possa assolutamente proibire l'alienazione, bisogna che confessi poterla proibire in forastieri, in nobili, in ecclesiastici et in qual si voglia altra sorte di persone in particolare.
Essi dicono: può assolutamente a tutti, ma non però agli ecclesiastici soli, e la logica dice: se può universalmente a tutti, adunque anco alli soli ecclesiastici.
Ma più severamente gli parleremo che studino un poco la Divina Scrittura, dove gli ammonirà S. Paulo: "Nolite errare, Deus non irridetur" ["Gal. 6,7"].
Bella cosa certo: se non è peccato questo effetto di operare che li beni laici non possino passare in ecclesiastici, perché lo dannano, perché lo riprendono? Non ha fatto il prencipe assai bene, se non ha offeso Iddio? E se è peccato, quando, restando l'istesso effetto, averanno mutate le parole, che averanno altro fatto che burlatosi di Dio e creduto d'ingannarlo con artificii? Dio non voglia che in animo cristiano cadano simili pensieri. Se fosse voler di Dio che gl'ecclesiastici, instituiti da lui per attendere alle cose spirituali, mutata la sua instituzione, si facessero patroni non solo d'una parte delle cose temporali, ma di tutte ancora non dovressimo onorarli di sole parole, ma con fatti procurare d'affettuar quanto prima questo voler divino.
Ma passiamo a mostrar più chiaramente che il prencipe in tal legge ordina sopra cosa veramente sue e non ecclesiastiche. E' pur cosa chiara che, s'una possessione ha qualche servitù, non può il patrone d'essa lasciarla alla Chiesa, sì che non ritenga la servitù istessa. Ma qualunque stabile si ritrova in uno stato ha soggezzione al prencipe, la quale è molto maggiore e più stretta di qual si voglia altra cosa che possa avere con alcun privato, imperò che la potestà del prencipe sopra li beni è maggiore che'l dominio del privato. Può il prencipe per la potestà sua, a fine di ben publico, derrogare e levare il dominio privato, non può il patrone privato derrogare in parte alcuna alla potestà del prencipe. Per il che, anco per sua donazione o testamento o altro non può fare che il prencipe non vi abbi la sua potestà. Pensi questo ciascuno, e pensi come sia conforme alla natura che passi un bene per disposizione del privato nella Chiesa, e perciò resti libero dalla soggezzione del prencipe. Ma risponderanno contentarsi che passi con gl'istessi oblighi di pagare quello che pagava quando era nel laico. Bene: ma perché adesso solamente consentono così, e per lo passato hanno voluto essentarsi da ogni obligo? Diremo poi appresso ch'l prencipe ha altre ragioni sopra lo stabile, oltre li tributi ordinari, poiché vi ha anco li straordinari, senza il qual obligo non è dovere che esso stabile passi, per poterlo come aggravare di altre gravezze. E se questa par dura condizione pure è naturale. Ma di più se il prencipe riceve servizio personale dalli possessori, di milizie, offizi, curiali et altro, perché doverà perderlo? Et oltre di ciò il prencipe ha ius di confiscare quel stabile per li delitti del patrone: ma quando passa alla Chiesa non è più confiscabile, e però il prencipe perché doverà perder il suo ius? E qui serva uno essempio notissimo per convincere li contradicenti.
Li benefici ecclesiastici vacano per la morte de' beneficiati, e la corte di Roma ha perciò l'annata et il prezzo delle bolle.
essendo assai beneficii uniti a monasterii, capitoli et altre università, avvertirono li pontefici che per tal unione si perdeva quell'emolumento che per la morte del beneficiato ricevevano; e considerarono che sottosopra la vacanza averebbe potuto occorrere ogni quindeci anni, e però statuirono che ogni quindici anni delli beneficii uniti si pagasse la quindena. Adunque potrebbe anco il prencipe così riputare che sottosopra ogni cento anni un bene potrebbe esser confiscato, e far pagare ogni cento anni la confiscazione.
Al che per provedere, in alcuni regni si costuma che quando alcun stabile è lasciato alla Chiesa ella è obligata dare uomo vivente, moriente e confiscabile sino che lo stabile sia per autorità regia amortizato.
Lo stabile ancora spesso si vende, e per ciò paga al prencipe gabella, o si lascia ad eredi stranieri, onde similmente paga certa porzione. Facciasi parimente che in tempo di tanti anni occorra uno di questi accidenti, sarà il dovere che'l prencipe senza suo consenso venga privato di queste sue ragioni? E per tanto è molto onesta e giuridica l'ordinazione del 1605. E se appresso la licenzia si ricercasse anco per le sopradette cause una gabella propria quando lo stabile ha da passar nella Chiesa, non sarebbe ingiusto: anzi in Francia et in molti altri regni, quando un bene passa all'ecclesiastico, eziandio con licenzia, paga una terza parte, dicono per l'amortizazione, cioè perché quel stabile è come morto al prencipe, che non se ne prevale e serve come prima.
Non è adunque contra la giustizia et equità se il Prencipe, che tante cose perde, vedendo che hanno gl'ecclesiastici venticinque volte tanto di quanto si doverebbono contentare, delibera e risolve che si fermino e non acquistino più senza licenzia, la quale nondimeno si darà loro quando sarà conveniente. I quali rispetti di confiscazione, vendite e legati ad estranei, potendo occorrere anco alle superficie dove alcuni dissegnano di fabricar chiese, non è maraviglia se il Prencipe non permette che senza licenzia sua sia amortizato.
Ma passando più oltre, quelli che negano al prencipe secolare il poter far leggi sopra cose ecclesiastiche, e che gl'ecclesiastici siano soggetti alle leggi secolari, consentono nondimeno che per il ben commune si possa far ogni sorta di leggi che comprendano eziandio gl'ecclesiastici.
Ma il ben publico ricerca che si conservi questo membro principalissimo della republica, cioè il secolare, che porta li pesi, fa le fazzioni publiche, così personali come reali, acciò non avvenga quello che Ulpiano dice "quod viribus et viris destituta erat respublica" [vedi Lex 3 in Digesta L, tit.IV].
E' adunque giusta la legge, et è conveniente che sia in questo membro protetto dal Prencipe, sì che, conservandosi li suoi beni in esso, resti colle forze necessarie per servir la Republica. E se da questo nasce che gl'ecclesiastici hanno meno di quello che averebbono, ciò non è direttamente inteso dal prencipe, ma accidentalmente occorre; né mai la ragione e le leggi attendono a quello che indirettamente o per accidente segue [vedi Codice di Giustiniano = IV, tit. II = "c. quia diversitatem tit. de concessione prebend." in Decretales Gregorii IX, lib. III, tit. VIII, cap.5].
] Nè quegli presume far ingiuria al prossimo che ha per meta l'utilità propria, se bene di là viene ch'l compagno sia privato di qualche guadagno che farebbe. Se non fosse questa legge, l'ecclesiastico s'arricchirebbe più, lo confesso; ma l'ordinata carità et Iddio commandano che ciascuno riguardi prima alle cose a sé necessarie, e questo è attendere alla vocazione sua. Chi conserva il suo, senza dubio impedisce che non vada in un altro, né mai uno si fa ricco, se altri non si fa povero. Non è però contra la carità ovviare alla propria povertà, perché insieme s'impedisce la ricchezza altrui. Deve il prencipe curare che la tranquillità e le forze del suo imperio si mantenghino.
Se di qua viene che gli ecclesiastici non averanno maggior abondanza, a questo non debbe risguardare il prencipe. Gaetano ["In summa ver. ecom. c. 31"], seguito da tutti, nega essere contra la libertà ecclesiastica lo statuto secolare dove si restringa e ponga modo alle spese de funerali, sponsalizi e messe nuove; e pure da queste segue più manifestamente che gli ecclesiastici sono privati di que' guadagni che averebbono, se fosse lecita qualonque sontuosità.
Se vorranno gli ecclesiastici comprare, di quali denari compreranno? Comandò il canone Concesso [Decretum Gratiani, causa "12 quaestio 2"] che siano fatte quattro parte dell'entrate ecclesiastiche, la prima per il vescovo, la seconda per il vitto del clero, la terza per la fabrica, la quarta per le limosine de' poveri.
Il che fu anco da Carlo Magno nel suo capitolare confirmato ["lex I cap. 87"].
Non vorranno gli ecclesiastici acquistar con la prima né seconda parte; né è dovere che si levino gli alimenti.
Lasciar cader le fabriche per acquistar di nuovo non è ragionevole, né il ben publico lo consente; d'implicarci la quarta parte che è la debita alli poveri, la pietà non lo comporta, nè il detto del Signore, poiché S. Paulo ci comanda di avere sempre in memoria :"Beatius est magis dare quam accipere" [Act., 20, 35].
Per il che, passando alli stabili donati o lasciati, è d'avvertire che le chiese per questa legge non sono impedite dall'avere tutto quello che loro viene donato o lasciato: il che se non hanno in propria spezie, hanno però il prezzo, il quale è equivalente alla cosa.
Sarebbe forsi fuori di luogo l'aggiungere, ma pur con brevità non fia tanto male, che non è utile agli ecclesiastici il possedere superfluamente, poiché così sono deviati dal servizio di Dio, al quale è carico loro l'attendere.
E si ha nelle leggi ecclesiastiche tutto un titolo "Ne clerici vel monaci secularibus negotiis se immisceant" ["in Decretal.", lib. III, tit. L delle Decretales Gregorii IX] dove particolarmente il primo capitolo pare fatto per proibire li disordini presenti; e S. Paolo con poche parole comanda: "Nemo militans Deo implicat se negotiis secularibus, ut ei placeat cui se probavit" ["2 Tim. 2", 4].
Vi è un longo discorso in S. Gio. Crisostomo dove mostra dalle ricchezze della Chiesa nascere dui mali, uno, che li laici cessano di essercitarsi nelle limosine; l'altro, che gli ecclesiastici, lasciato l'officio loro, ch'è la cura delle anime, diventano procuratori, economi e dacieri, esercitando cose indegne del suo ministerio ["In Matthaeum homilia XXVI" in Migne, P. G., LVII, coll. 327-334].
Dicono qualche volta gli ecclesiastici con gravi querele che viene proibito loro quello che è concesso a tutte le altre sorti di persone, eziandio vili et infami, quasi che siano di peggior condizione.
Al che si può rispondere: prima, che non tutto a tutti conviene; né conseguita, se una cosa viene permessa agl'altri, debba esser permessa a loro: si concede a' soldati et a' gentiluomini andar armati, adunque a loro ancora doverà permettersi l'istesso?
E se non si concederà, doveranno riputarsi offesi e trattati come inferiori agl'altri tutti?
Poi, se alcuna sorte di persone nella republica possiede più della parte sua, a quella non conviene acquistar più.
Costantino Porfirogenito, Romano e Bsilio, imperatori costantinopolitani, fecero leggi che li patrizi e senatori, vescovi, monasteri etc. non potessero acquistar da' loro inferiori per compra, donazione, o testamento, per conservare quel membro necessario alla republica [Imperatoriae Constitutiones del Corpus iuris civilis = la legge citata va sotto nome di Romano senior, De praediorum acquisitione e risulta citata al III capitolo sotto le leggi Basilio Porfirogeneto dettando "Lege etiam sanxit, ne potentiores multiplicandis praediis augescerent quamquam eadem etiam ab avo eius Costantino huiusque socero Romano lata fuit: trattasi di imperatori del X secolo e Basilio II Bulgaroctono era nipote di Costantino II Porfirogeneto].
Così potrà fare il senato altra legge sopra li beni delli sudditi suoi, conveniente al suo buon governo quando ne sarà di bisogno: e la fa fa al presente sopra gli ecclesiastici, perché conviene tener così regolato il corpo della Republica, acciò che un membro non cresca più del dovere, sì che faccia il corpo mostruoso, e prendendo più alimento del conveniente, dannifichi le altre membra, togliendo loro il suo debito; e per se stesso non potendo digerire il superfluo, si riempia di mali umori, onde nasca prima infirmità in lui, e poi corrozzione di tutto il corpo.
ma lo stato degli ecclesiastici in questo Dominio è un membro che può essere una centesima parte di tutto il numero delle persone, et ha tirato in sè una porzione delli beni a questo corrispondente, ma nel Padoano più d'un terzo, nel Bergamasco più della metà; e non vi è luogo dove almeno non abbia un quarto delli beni; e se li fosse concesso acquistar ancora, non è dubbio che s'impatronirebbe di tutto il paese, lasciando tutti gli altri poveri, ignudi e servi e levando alli secolari ogni alimento.
Il luogo e tempo presente ricerca una legge che proibisca un tale eccesso.
Anticamente già, quando l'ecclesiastico era governato secondo la maniera che li santi apostoli lo instituirono, e li santi padri a loro imitazione seguitarono d'osservare, era cosa utile che avesse molti beni; e nel corpo della republica era come un stomaco che prendeva tutto il cibo sì, ma ne gigeriva poco per sè e molto per gli altri.
Così, gl'ecclesiastici
, possedendo molto, e partecipando delle rendite delli beni per sé parchissimamente, e tutto il rimanente dando in elemosina, erano molto proficui alla republica.
Per il che anco tutti procuravano accumular loro possessioni e beni, nella quale erano gli ecclesiastici tutori e procuratori per li poveri e bisognosi, sì che non seguiva nissuna mostruosità, essendo li beni ecclesiastici come beni communi, che faceano accrescimento in tutto il corpo proporzionalmente, e non in una parte sola.
Ma mutata questa lodevole consuetudine, li beni e facultà passate negli ecclesiastici eccedono in grandezza, e ciò è troppo sproporzionato al corpo della republica, alla quale sarebbe di grandissimo incommodo quando più crescesse, né si potrebbe reggere, ma sarebbe necessario o che si riducessero alla debita misura, o che ne succedesse la rovina di tutto il corpo. E se bene abbiamo parlato delli beni ecclesiastici come communi a tutti loro, non perciò la possessione è ugualmente divisa tra essi, anzi tre quarti delli religiosi non vivono sopra le rendite ecclesiastiche, ma di limosine et oblazioni de' secolari, essendo le possessioni et entrate in un piccolissimo numero de clerici, il quale appena arriva alla quarta parte di essi.
E quello che più importa è che di questi la metà abita fuori dello stato, e questi tirano a sé tutte le rendite loro, con danno del publico servizio.
E se nelli tempi migliori, quando gli uomini pensavano più al cielo che al mondo, e quando fiorivano gli Augustini, che rifiutavano l'eredità lasciate alla Chiesa, privati li figli ["Ad fratres in eremo sermo 52" di Agostino = Migne, P.L., XXXIX, coll. 1570-1571], s'è fatto un tanto acquisto, che sarebbe nell'avvenire?
trovandosi ora di quelli che con artifici vanno persuadendo maggiori acquisti, sarebbe da temere al sicuro che in due o tre centinara d'anni crescessero tanto gli acquisti, che divenissero patroni del tutto.
Sono monasterii fabricati già 300 anni, e non hanno il quarto dell'entrata di quelli che non è più di 40 anni che sono edificati.
Adesso vi sono assai religiosi che hanno proibizione di posseder stabili, la quale quando fosse levata, che probabilmente potrebbe farsi, poiché vediamo ciò essersi fatto con quattro numerosissime religioni [ordini religiosi], oltre molte altre minori, pensi chi ha giudicio quali acquisti si fariano in un momento.
Molte cose nelli principii loro sono buone, che in progresso alterandosi si fanno perniciose.
L'acquisto degli ecclesiastici
, nel suo principio ottimo, è venuto per quattro gradi allo stato presente.
Prima le possessioni si vendevano, e del prezzo si nutrivano gli ecclesiastici e li poveri ["Actus...",4,32-36].
Si pensò poi di ritenere gli stabili e nodrire li poveri delle rendite [Decretum Gratiani, causa 12, quaestio I, cap. 15 "futuram Ecclesiam spesso semplificato in "futurum" e cap. 16 Videntes autem].
Nel terzo luogo si passò a far quattro parti, una per il vescovo, la seconda per il clero, la terza per la fabrica, la quarta per li poveri ["c. concesso" in Decretum Gratiani, causa XII, quaest.II, cap. XXVI].
Adesso sono fermati li benefici, e nata l'opinione, che da tutti i teologhi e buoni canonisti è reprobata, che "clerici sunt domini fructuum", con tutto che abbiano li sacri canoni e li santi padri costantemente predicato che li beni ecclesiastici sono de' poveri [assunto che il Sarpi svilupperà nel Trattato delle materie beneficiarie].
Per il che anco il sacro concilio di Trento "Omnino interdicit episcopis ne ex reditibus ecclesiae consanguineos familiaresve suos augere studeant, cum et apostolorum canones prohibeant ne re ecclesiasticas, quae Dei sunt, consanguineis donent, sed, si pauperes sint, iis ut pauperibus distribuant". E poco di sotto: "Quae vero de episcopis dicta sunt, eadem non solum in quibuscunque beneficia ecclesiastica tam saecularia quam regularia obtinentibus pro gradus sui conditione observari, sed ad sanctae romanae Ecclesiae cardinales pertinere decernit" [Concilium tridentinum = vedi sessio XXV - de reformatione I e specificatamente dal capoverso de reformatione I "Omnino interdicit episcopis"].
E però non doverebbono gli ecclesiastici interpretar così in sinistro una legge fatta per necessità publica, tanto conforme all'equità e giustizia, e dire che sia fatta per tenerli inferiori agli uomini vili. Più tosto potrebbono dire che meglio sarebbe che vivessero conforme agli apostoli ["Actus 4", 32].
Vogliono forse affermare che essi apostoli, vendendo tutti li stabili e dando limosina, fossero di condizione inferiori alle persone vili? Vogliono dire che siano di peggior condizione che gl'infami? Forse tante congregazioni de regolari, che non possedono, dovranno esser riputate infami? E se rispondono che questi lo fanno volontariamente, se può replicare che il volontario o involontario fanno ben differente circa l'esser virtuoso o meritevole, ma non circa l'esser onorato o vile. In questo proposito è degno d'esser considerato un canone, dove si dice: "Bonifacius martyr et episcopus interrogatus si liceret in vasculis ligneis sacramenta conficere, respondit: Quondam sacerdotes aurei ligneis calicibus utebantur, nun e contrario lignei sacerdotes aureis utuntur calicibus" [Decretum Gratiani = "De consecratione distinctio I c. Vasa"].
Ma contentisi essi volontariamente di quello che hanno, che eccede di tanto la sua parte, e così restariamo accordati.
E' degno d'imitazione l'esempio di Moisè a c. 36 dell'esodo, il quale, avendo invitato il popolo ad offerire oro, argento et altre cose preziose per la fabrica del tabernacolo, quando fu offerto più di quello che bisognava, per publica proclama ordinò che nissuno più offerisse cosa alcuna.
Ma soggiungasi un'altra ragione ancora.
Se per queste leggi fosse lesa la libertà ecclesiastica, adunque per leggi pontificie che proibiscono agli ecclesiastici alienare a' secolari, sarebbe offesa la libertà secolare.
E di questa maniera essi potriano far leggi che levano altrui la libertà: e gli altri non potranno far verso loro l'istesso?
E tanto più è forte la ragione, quanto, se ben gli stabili laici non possono passar negli ecclesiastici, può nondimeno passarvi il prezzo e con la licenza anco essi beni a giusta compra: ma gli ecclesiastici non possono alienar per qual si voglia contratto gratuito, né vendere o permutare se non con avantaggio: e se li secolari, che più ne hanno ragione, non si lamentano di questo, perché doveranno essi lamentarsi di cosa di minor apparenza?
Finirò questa parte con dire che, innanzi l'anno 400 della nostra salute, Valentiniano, Valente e Graziano fecero legge che i clerici non potessero acquistar cosa alcuna dalle donne etc. [vedi Codex Theodosianus = 16.2.0. - De episcopis, ecclesiis et clericis = legge 20].
La qual legge fu anco inviata a Damaso, pontefice romano di que' tempi, che la pubblicasse; e si pubblicò; e fu anco per longhissimo tempo osservata in Roma.
E S. Girolamo, che che ne fa menzione nell'Epistola ad Nepotianum [Epist.,LII,6 in Migne, P.L., XXII, col. 532], dice non dolersi della legge, perché i clerici l'avevano meritata, ma dispiacerli l'avarizia loro, ch'avesse data occasione a' principi di farla.
Fu fatta una simil legge in Sassonia da Carlo Magno di gloriosa memoria, e servata longamente.
Del 1300 Odoardo III re d'Inghilterra fece una legge precisamente come questa, e quantunque gli ecclesiastici ripugnassero alquanto, fu posta però in essecuzione ["Polydorus, liber 13 Historiae Anglicae"].
Lodovico Molina attesta nelle ordinazioni di Portogallo esser una legge, che le chiese e monasterii per compra, successione o donazione non possono acquistar stabili, acciò non crescano più del dovere a danno de' laici le possessioni e rendite ecclesiastiche, aggiungendo che anco negli altri regni di Spagna sia in uso l'istessa legge ["De contractibus t. 2, disput. 140, l. 2, t. 8].
Certo è che Giacomo, re d'Aragona, statuì nelli regni soggetti a quella corona che li beni di realenco (così chiamano quelli che pagano alcuna cosa al re) non possino passar nell'ecclesiastico senza licenza ["Petr. Bolug. in spe. princ. R. 13": è P. Belluga, Speculum principis = il passo venne menzionato pure da R. Choppin, De sacra politia forensi libri III ad Henricum III, Parisiis, 1577, p. 528].
In Francia la medesima legge fu constituita da S. Lodovico, che è cosa molto notabile, e poi successivamente confirmata da Filippo III, da Filippo il Bello, da Carlo Bello, da Carlo V, da Francesco I, da Enrico II, da Carlo IX e da Enrico III [la citazione si rivolge alle leggi, menzionate da Sarpi in un'epistola a Leschassier del 17/III/1609, emanate da Enrico III a Blois nel 1579 e Carlo IX nel 1560 = vedi B. Ulianich, Lettere ai gallicani, Wiesbaden, 1961].
Et avendo però fatto, già 300 anni, la Republica di Venezia questa legge per la città e ducato suo, non si ha da dire che la sua estensione a tutto lo Stato sia una innovazione, poiché Salvio Giuliano rispose: "Omnes debere sequi leges et consuetudines urbis Romae". come Giustiniano imperatore riferisce [Codice di Giustiniano = lib. I, tit. 17 = legge 10].
Et in Sicilia del 1296 il re Federigo (sì come è scritto nel capitolare di quel Regno) fa una legge della forma stessa della legge veneta del 1536, se non che dà termine un anno solamente.
Pio V similmente, nella terra del Bosco [Pio V, al secolo Michele Ghislieri era nato a Bosco Marengo] dove egli nacque, avendo quivi fabricato un gran monasterio, perché ella non si distruggesse, proibì in perpetuo agli ecclesiastici il poter comprar da laici; e Clemente VIII, avvertendo quanto la santa casa di Loreto possedesse, per conservar li laici proibì che essa più comprasse.
E pur anco in Genova vi è costituzione generale che tutti li beni siano affetti alla Republica, sì che non possano essere alienati ad ecclesiastici.
Risponde bene alcuno che papa Clemente fece tal legge come principe temporale, avendo avendo richiesto licenzia a sé come papa di farla.
Considerazione molto sottile, ma non conforme alla soda dottrina teologica e morale, la quale vuole che, avendo Dio dato un stato in governo a chi tiene la maestà cin potestà independente nelle cose temporali, gl'abbia anco data auttorità di fare da sé, e senza licenza o permissione di qual si voglia, tutte quelle leggi che sono necessarie per mantenerlo.
Non si troverà mai che Dio abbia fatto un precetto, che per adempirlo bisogni pigliare la licenza da altri.
Nelle cose indifferenti, overo nelle buone ma libere, può occorrere che si commetta errore, facendole contra il volere del superiore; ma in quelle che sono di precetto espresso di Dio serve quello che disse S. Pietro: "Obedire oportet Deo magis quam hominibus" ["Actus 5", 29].
Che Dio dica al prencipe: "Fa quelle leggi che sono necessarie alla tranquillità publica, e se mancarai, io lo riceverò ad offesa"; e ci voglia licenza per obedirlo? Licenza si ricerca, dove senza non licet: addunque quello che Dio commanda non è lecito?
La natura quando dà un fine, dà ancora tutte quelle potenze che sono necessarie per ottenerlo: e Dio darà un fine et un precetto che non si possa essequire senza riconoscere in grazia degli uomini? Questo è troppo grande inconveniente.
Ma ritorniamo alla materia della legge, la quale sì come non è una nova invenzione, così di lei ancora i iureconsulti celebri hanno trattato e l'hanno difesa per giusta; e tra gl'altri Baldo ["Bal. cap. quae in ecclesiarum, c. ecclesiae S. Mariae de constit."], l'Archidiacono [soprannome di Guido da Baisio arcidiacono della cattedrale di Bologna = "Archid. cap. Romana, de appellat. in Sexto" = Sextus Decretalium, lib.II, tit.XV,cap.3], l'Abbate ["liber I, consilium 63" = Abbas siculus o Panormita pseudonimo di Niccolò de Tedeschi], Signorolo ["consilium 21" = Signorollo degli Omodei di Milano: i suoi consulti furono stampati nel 1497], Alessandro ["Alex. consilium 93" = Alessandro tartagna (1424-1477): fu famoso per i consigli ma anche per commentari al Digesto e alle Decretali], barbaccio ["Barbat. liber 2 consilium 14" = Andrea Barbazza messinese del XV secolo autore di Commentari, del De praestantia cardinalium e del De cardinalibus et legatis a latere], Croto ["Crotus libr I consilium 5" = Johann Jaeger soprannominato Crotus Rubianus da Lutero di cui fu seguace prima di abbandonarlo in nome di una riforma interna della Chiesa], Tiraquello ["Tiraq. de retractu consang. I, gl.13" = Andreas Tiraqueau, giurista francese], Gaelio ["Gail. liber 2 consilium 32" = Andrea Gail di Colonia consigliere di Massimiliano II e di Rodolfo II], Copino [Capit. de pac. pol. liber 3 to. I = R. Choppin].
Dalla lezione de' quali ogn'un potrà scoprire se questa era una causa dove convenisse procedere con censure, e massime non essendosi servate le cose sustanziali del giudicio.
Onde sarà se non molto a proposito il dire anco qualche cosa intorno l'ordine servato da sua Santità, acciò si veda quante nullità sono passate nel maneggio, dirò, così di fatto negozio, perché giudicio non si può chiamare, mancando di materia.
I teologhi dicono che il giudizio ingiusto può bene nell'esteriore parere giudicio, ma in sé non già; et ogni giudicio ingiusto esser eziandio da sé nullo; né esser il giudicio ingiusto più giudicio di quello che l'uomo morto sia uomo.
Ma ancora vederemo in ciò mancamento di forma, e così sustanziale, che lo rende di niun momento.
Primieramente, senza citazione alcuna precedente cien dichiarato che le leggi vecchie e nuove del non alienar beni e non fabricar chiese senza licenza siano contra l'auttorità della Sede Apostolica e della libertà ecclesiastica, e che siano incorsi nelle censure gli stessi legislatori.
E pure la citazione essere de iure naturali, e ricercarsi anco nelle declaratorie, eziandio di censure, è cosa notissima appresso tutti li iurisconsulti.
Il che basta per nullità così del breve sudetto, come di tutto quello ch'è seguito dopò in virtù di esso.
ma che adesso siano dichiarati per escommunicati tanti uomini pii defonti in Cristo, i quali hanno continuamente communicato con li pontefici de' tempi loro, che altro è, se non condannare gli precessori della santità sua, et affermare che non abbiano essercitato la cura delle anime come dovevano?
E pure tra quelli vi furono pontefici di eccellente virtù e santità.
Rende il papa la causa perché abbia deliberato proceder contra la Republica, dicendo:"...cum praetermisso officii nostri et causae ecclesiae desertae a nobis rationem extremo iudicii die exigi a Deo nullo modo velimus. Neque enim extimetis nos qui alioquin pacis et quietis publicae cupidissimi sumus, omnesque nostros cogitatus eo intendimus, ut soli Deo inservientes rem christianam, quantum possumus, pacate gubernemus, quique omnium animos, praesertim maximorum principum, nobiscum ea in re consentientes esse optamus, si aliquando Sedis Apostolicae authoritas laedatur, si ecclesiastica libertas et immunitas impetatur, si canonum decreta negligantur, ecclesiarum iura et ecclesiasticarum personarum privilegia violentur, quae muneris nostra summa est, id aliquo modo dissimulaturos aut officio nostro defuturos. Hac vero in re id vobis persuasum esse volumus, nos nullis humanis rationibus moveri, aut quidquam praeter Dei gloriam quaerere, aliudque habere propositum, nisi perfectam, quoad eius fieri possit, apostolici regiminis functionem".
E non senza ragione teme sua Santità il giudicio divino, quando mancasse del debito pastorale, perché Dio per Geremia [Ier., 23, 1-2 e 3,15] minaccia: "Vae Vae pastoribus qui dispergunt et dilacerant gregem pascuae meae, dicit Dominus: Ideo haec dicit Dominus Deus Israel ad pastores qui pascunt populum meum: dispersistis gregem meum et eiecistis eos, et non visitastis eos. Ecce ego visitabo super vos malitiam studiorum vestrorum, ai Dominus". Et al popolo promette: " Dabo vobis pastores iuxta cor meum, et pascent vos scientia et doctrina".
Imperò che certa cosa è la somma del carico pastorale essere la predicazione dell'Evabgelio, le sante ammonizioni et instruzzioni delli costumi cristiani, il ministerio delli santissimi sacramenti, la cura delli poveri, la correzione delli delitti che escludono dal regno di Dio: cose che Cristo Nostro Signore ha raccomandate a S. Pietro, e datele per carico; le quali sole sono state essercitate tanto da lui, quanto dalli santi martiri suoi successori e dalli santi confessori ancora, che sono succeduti di tempo in tempo, non in quel modo che le tenebre succedono alla luce.
La gloria di Dio nelle Scritture Divine vediamo essere nella propagazione dell'Evangelio e nella buona vita delli cristiani: et, in somma, come S. Paolo dice, nella mortificazione dell'uomo esteriore e vita dell'interiore, e nell'esempio delle opere di carità ["2Cor.4", 7 sgg.].
Ma se la gloria di Dio stasse nell'abbondanza delli beni temporali, averessimo molto da temere di noi medesimi, poiché agli suoi Cristo ha promesso se non povertà, persecuzioni, incommodi ["Ioan. 15", in effetti 16, 1-4]; e finalmente, come l'istesso vulgo conosce, li travagli e patimenti sono le visite e le prove degli amici di Dio, e niuno, dice l'Evangelio, segue Cristo, se non doppo aver presa sopra le spalle la propria croce ["Matth. 8", in effetti 10,38].
E' molto differente dalla dottrina di S. Paolo quello che da alcuno è stato disseminato in molti luoghi et a molte persone, e cioè che non si sa vedere perché in questa città si possa commendare di religione, imperò che, se bene vi vi abondano le limosine et opere pie verso li poveri, et il decoro delle chiese et il culto divino, il cimento però del cristiano è il favorire la giurisdizione ecclesiastica; e di questo si vede in Venezia il contrario;. La sentenza di S. Paolo è: "Si tradidero corpus meum ita ut ardeam, charitatem autem non habuero, nihil sum" ["Chor. 15", in vero 13, 3: il testo della Vulgata non riporta sum ma mihi prodest]. Leggesi nel Santo Evangelio che il Nostro Salvatore nel giorno del giudicio dimandarà conto alli reprobi delle opere di pietà e di misericordia non esercitate: "Esaurivi enim, et non dedistis mihi manducare: sitivi, et non dedistis mihi potum: hospes eram, et non collegistis me: nudus, et non operuistis me: infirmus et in carcere, et non visitastis me" ["Matth. 25", 42-43].
ma che sia levata a' scelerati la licenza di offendere il prossimo, che sia lasciata alli secolari una parte della porzione de' beni che loro conviene, non è da temere che Dio ne ricerchi ragione; anzi possiamo animosamente dare tutti li beni della Chiesa
a' poveri, senza dubitare che Dio per ciò resti offeso.
Né si deve tralasciare qui di ponderare anco l'ultime parole di quel breve, dove si dice: "Quin immo nulla alia ratione melius publica illa christianae religionis incommoda [religionis hostium incommoda nel testo del breve papale], in quibus evitandis tantopere insistitis, longe a vobis propulsabitis, quam si ecclesiarum et ecclesiasticorum, qui pro vobis dies ac noctes excubant et assiduas ad Deum preces effundunt, immunitates et iura (prout religiosos et pios vires decet) conservaveritis".
Ha bisogno certamente la Republica di essere aiutata con le orazioni degli ecclesiastici, per il che ella anco assiduamente si raccomanda loro; e ben sa quello che il savio dice: "Deprecatio pauperis ex ore usque ad aures perveniet" ["Eccli. 21", 6]. E si duole quando alcuni, poco intenti a queste sante opere, sono causa col male essempio di molti peccati nelli laici; onde, in luogo di placare la divina giustizia e commuoverla a misericordia verso noi, si irrita tanto più lo sdegno suo a castigarci col mezo degl'infedeli. Né dobbiamo credere che le orazioni dei più ricchi e meglio agiati siano per piegare maggiormente la Maestà Divina, della quale è scritto: " Neque despexit deprecationem pauperis" ["Psal. 21", 25], con ciò sia che molto male averebbono fatto e farebbono con questa dottrina tanti santi monachi et eremiti, che vissero e vivono in estrema povertà e abiezzione, con ferma credenza che in tale stato le orazioni loro debbano più facilmente ascendere alla presenza di Dio.
Ma è tempo di passare al terzo capo controverso [annota il Sarpi in questa sua opera], il quale è in materia del giudicare gli ecclesiastici: la qual cosa debbe esser trattata separatamente, poiché anco in diverso tempo fu presentato il breve sopra essa materia. Forse la Provvidenza Divina dispose che, come abbiamo detto, da quali si sia delli ministri pontificii fusse errato nel presentar delli brevi, acciò che la Santità sua avesse qualche tempo di pensar meglio di quanto momento fosse il negozio che s'incominciava: ma non però restò sua Beatitudine di commandare che l'altro breve sopra li dui carcerati fosse presentato, come fu fatto a' 25 di febraro, con la soprascritta Marino Grimano duci et Reipublicae Venetorum, ancor che la Santità sua fosse consapevole della morte di quel principe, successa dui mesi prima, et avesse fatti fare gli uffici di congratulazione col Serenissimo principe presente, suo succesore [il breve recava, come il precedente, la data del 10 dicembre e quindi il nuovo doge Leonardo Donà si lamento del ritardo della consegna, dell'incongruenze formale e della severità dei contenuti = come si legge nell'Archivio di Stato di Venezia (Esposizioni collegio 25 febbraio 1606) il nunzio apostolico gli replicò: Io non posso rispondere altro alla Serenità vostra, se non che nostro Signore non ha innovato alcuna cosa, mentre che questo breve de preggioni si doveva presentare con l'altro delle parti li mesi passati, e se nbene è dricciato al principe morto, è anco dricciato, come si può vedere alla Repubblica].
Qualche canonista defenderebbe questa azzione con la dottrina loro: Papa est iudex vivorum et mortuorum; ma più tosto si deve credere che abbia pensato, essendo l'istessa dignità, non importasse la mutazione della persona, in che averà li canonisti tutti contrari, i quali vogliono che, trattandosi di censure, chiamate materia odiosa, le parole debbano esser strettissimamente interpretate. Laonde se pretende che il Serenissimo duce presente sia per ciò ammonito, non glielo concederanno: sì che contra di lui, anco per questo capo, ha proceduto senza servare un atto ch'è sustanziale al giudicio, e cioè la citazione per la declaratoria, e l'ammonizione per le censure. Si deve tener per cosa certa che se il pontefice avesse ascoltate le ragioni, dove la Republica di venezia fonda l'autorità sua di giudicar gli ecclesiastici, mai averebbe sopra ciò mossa parola; ma non avendo voluto trattar et udire le ragioni di essa Republica con quella pazienza, carità e maturità che si prometteva dalla Santità sua, come padre universale della cristianità, non è maraviglia se biasma li giudicii della Republica, affermandoli fondati sopra uso e consuetudine vòtissima, e sopra alcuni brevi de Pontefici. Rispose il senato al breve del pontefice in poche parole: maravigliarsi che nasca cotidianamente nova materia di dissensione, e che si tenti di sovertire quelli fondamenti, sopra quali la sua libertà è stabilita per 1200 anni, imperciò che dal nascimento della republica li maggiori suoi hanno ricevuto da Dio l'auttorità di opunire qualunque delinquente, la quale hanno essercitato continuamente ad onor di Sua Maestà Divina, con quiete publica et approbazione delli precessori di sua Santità, e lode universale. Di consuetudine non si fece menzione alcuna, atteso che ha la potestà sua molto più altamente e fermamente fondata che sopra un uso, se bene immemorabile; perché ella tiene per indubitata la dottrina dei teologhi e dei migliori canonisti, che l'essenzione degli ecclesiastici dal foro secolare nelli delitti non ecclesiastici ma temporali, o, come Giustiniano dice, civili, non sia de iure divino, ma per privilegio de' principi, se però alcuno non volesse pigliare il significato della parola ius divinum tanto largamente o abusivamente che vogli dire ius humanum.
Questa dottrina, che se gl'ecclesiastici non fossero per privilegio e grazia essentati sarebbono soggetti a' magistrati secolari, si mostra e conferma con gl'essempi del vecchio Testamento, dove si vede che tutti li re hanno commandato e giudicato e punito li sacerdoti e questo esser stato fatto non dagli re cattivi overo mediocri solamente, ma dai santissimi e piissimi David, Salomone, Ioas, Ezechia e Iosia, lo abbiamo precisamente nell'Evangelio, nelle parole di Cristo Nostro Signore dette a Pilato: "Non habens potestatem adversus me ullamo, nisi tibi datum de super" ["Ioan. 19",11]; aggiuntovi (se alcuno volesse dargli qualche senso stravagante) l'esposizione di S. Agostino ["Super Ioann. tract. 116" in Migne, P.L., XXXV, coll.1942-1943], di S. Bernardo ["Epist. 42" Ad Henricum Senonensem], del cardinale gaetano ["in 2 quaestio 62, art. I" nel commento sulla Secunda Secundae di Tommaso d'Aquino], che il giudicio di Pilato fu bene iniquissimo, ma non usurpato. Oltre di che si ha la confirmazione ancora nell'essempio di S. Paolo, il quale avendo congiettura che Festo, sotto pretesto di giudicarlo in Ierusalem, volesse darlo in mano agl'Ebrei, appellò a Cesare ["Act. 25"]; cosa che mai averebbe fatta, quando non fosse stato legitimo suo giudice, essendo peccato mortale a chi non ha potestà legitima. Vien ben fatta certa considerazione da un scrittor moderno, Che S. paolo avrebbe appellato a Pietro, ma che non lo fece, perché sarebbe stata stimata pazzia. Considerazione ben degna d'un intelletto perspicace, ma non già degna della risoluta constanza di S. Paolo, che fosse restato di dire una verità per timore d'esser riputato pazzo. Non ebbe egli questo rispetto innanzi a Festo, né restò di dir parole per causa delle quali il prefetto gli rispose "Insanis, Paule" ["Act. 26",24] ed esso stesso S. Paolo dice: "Nos predicamus Iesum Christum crucifixum Hebrais quidem scandalum, gentibus autem stultitiam" ["I Cor. I", 23]. E pure non restava di dire e predicare quello che sapeva essere riputata pazzia. Però non faccia in modo alcuno questa ingiuria a S. Paolo, poiché veramente quel santissimo et essemplarissimo apostolo non la merita. Ma che diremo dei precetti di S. Pietro e del medesmo S. Paolo? I quali sono: " Subiecti igitur estote omni humanae creaturae propter Deum, sive regi, quasi praecellenti, sive duvibus, tamquam ab eo missis ad vindictam malefactorum, laudem vero bonorum, quia sic est voluntas Dei"["I Petr. 2", 13-15]. E di questo: " Admonet illos principibus et potestatibus subditos esse, dicto oboedire" ["ad Tit. 3",1]: e quello che si ha nel decimoterzo capitolo Agli Romani ch'è come un sole per rischiarare tenebre quali si siano di dubitazione: "Omnis anima potestatibus subdita sit: non est enim potestas nisi a Deo; quae autem sunt, a Deo ordinata sunt. Itaque qui resistit potestati, Dei ordinationi resistit; qui autem resistunt, ispsi sibi damnationem acquirunt. Nam principes non sunt timori boni operis, sed mali. Vis autem non timere potestatem? Bonum fac, et habebim laudem ex illa, Dei enim minister est tibi in bonum. Si autem malum feceris, time: non enim sine causa gladium portat, Dei enim minister est, vindex in iram ei qui malum agit. Ideo necessitate subditi estote, non solum propter iram, sed etiam propter conscientiam. Ideo enim et tributa praestatis, ministri enim Dei sunt, in hoc ipsum servientes. Reddite ergo omnibus debita: cui tributum, tributum; cui vectigal, vectigal; cui timorem, timorem; cui honorem, honorem".
Veggasi S. Agostino, che in quel numero de' soggetti al prencipe secolare pone anco se stesso ["Expositio ad Romanos nume. 72" = Expositio quorundam propositionum ex epistola ad Romanos, 62, in Migne, P.L., XXXV, coll. 2083-2084]. Veggasi Grisostomo ["super epistulam ad Romanos Homel." = Homilia XXIII, in Migne, P.G., LX, coll. 613-618], Teodoreto, Teofilatto et Ocumenio [Teodoreto vescovo di Ciro moderato sostenitore delle teorie nestoriane = Commentarius in omnes S. Pauli Epistulas; Teofilatto arcivescovo di Bulgaria, esegeta del passo paolino in Commentarius in epistulam ad Romanos, in Migne, P.G.,CXXIV, col. 514; Ecumenio -alla latina Oecumenius- vescovo di Tricca in Tessaglia )X sec.) la cui esposizione del passo paolino si trova nel Commentarius in epistulam ad Romanos, in Migne, P.G., CXVIII, coll.575-578 che con pertissime parole includono apostoli, evangelisti, profeti, sacerdoti e monaci.
Leggasi S. Tomaso sopra quel medesimo luogo, e vederassi che afferma apertamente ogni essenzione ecclesiastica esser per privilegio de' principi [Super epistolas S. Pauli Commentaria praeclarissima..., Venezia, 1510, f. 45-46].
Ma S, Bernardo ad un arcivescovo scrivendo più chiaramente dice: "Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita est: si omnis est, est et vestra, quis vos excipite ab universitate? Si quis tentat excipere conatur decipere" [ep. 42, il cui citato passo si legge in capo VIII, in Migne, P.L., CLXXXII].
Considerino i contradicenti se mai alcuni dei santi pontefici, vescovi o altri sacerdoti hanno detto d'essser essenti dalla potestà del prencipe e de' magistrati; che mai ne troveranno, ma sì bene troveranno che ciascuno ha confessata la suggezzione, solo negando la giustizia nella causa perché erano condennati.
Un famoso essempio abbiamo di S. Policarpo vescovo di Smirna, discepolo di S. Giovanni Evangelista, uno degli fondatori della nostra fede, dopò gli apostoli, eccllentissimo; le parole del quale portate da Eusebio sono queste: "Magistratibus enim et potestatibus a Deo constitutis eum honorem, qui nostrorum animorum saluti nostraeque religioni nihil affert detrimenti, pro dignitate tribuere docemur" ["Euseb. liber 4 c. 4" = dell' Historia ecclesiastica].
Alcuni dicono esser commandata dall'apostolo la soggezione agli prencipi quando erano infideli, ma non dapoi che sono fatti cristiani, e questo perché gli ecclesiastici per l'ordine sacro e per auttorità spirituale sono maggiori.
Et a costoro S. Gio. Crisostomo risponde in poche parole: "Si enim Paulus, cum gentiles adhuc essent principes, praecipit, multo magis oportet et fidelibus exhibere; quod si maiora tibi concredita esse dixeris, disce non nunc honoris tui tempus esse: peregrinus enim hic es et advena. Tempus erit cum omnibus apparebis illustrior; nun vero vita tua abscondita est cum Christo in Deo: quando Christus comparuerit tunc et vos comparebitis in gloria" [Homilia XXIII = coll. 617-618].
Costantino Magno [continua il Sarpi in questa sua opera], circa il 315 essentò gli ecclesiastici dalle fazzioni publiche, personali e curiali; Constanzo e Constante suoi figli aggiunsero le essenzioni dalle fazzioni sordide e dalli censi, e concessero alli soli vescovi essenzioni dalli giudicii del foro secolare, restando gl'altri ecclesiastici, ai giudici secolari, così in criminale come in civile ["codex Theod. de episcopis et clericis, 2, lx 10, 12" = più esattamente vedi Codice Teodosiano, libro XVI = precisamente legge 10 e legge 12].
E sopra di ciò vi hanno dopò altre leggi: una di Valente e Graziano circa il 380 e l'altra di Arcadio et Onorio circa il 400 ["codex Theod. de episcopis et clericis, 2, lex 23, 37, 41, 47" = più esattamente vedi Codice Teodosiano, libro XVI = precisamente legge 23 - legge 37 - legge 41 - legge 47 ].
Ma intorno l'anno 420 Onorio e Teodosio II e dopò l'istesso Teodosio con Valentiniano III concessero il giudicio delli clerici alli vescovi, quando le parti ambedue si fossero contentate, rimettendo alli magistrati secolari quando una non volesse accettar il vescovo: la qual cosa fu anco confirmata da Marziano, circa il 460, e da Leone suo successore.
Finalmente da Giustiniano circa il 560 fu fermata e stabilita ogni varietà, con la legge che gl'ecclesiastici nelle cause civili fossero soggetti al vescovo, nelle criminali al giudice secolare [vedi "Novellae 83"], il che durò sino al 630, quando Eraclio gli essentò dalli magistrati secolari, così in civile come in criminale, salva però sempre l'auttorità delli delegati dal prencipe: e sino alla divisione dell'Imperio così sempre fu osservato, e dopò quella, tale è sempre stato l'uso e lo stile della Chiesa greca, insino a tanto che è durato quell'Imperio [Impero romano d'Oriente].
Ma in occidente gli imperatori franchi e sassoni e li re italiani variamente hanno osservato, alle volte lasciando li giudicii agli ecclesiastici, e talora giudicando non solo preti e vescovi, ma gl'istessi pontefici romani, quando rimettendoli parte ad esser giudicati agli ecclesiastici e parte alli magistrati, secondo che la varietà de' tempi comportava, prevalendo ora l'auttorità de' pontefici, ora quella degli imperatori.
Finalmente Federico II circa il 1220 fece l'autentica inserta ["Codex de episcopis et clericis, lex cum clerici, lex omnes qui", libro I]nel codice giustiniano, che nessuno possa tirar al giudicio secolare così civile come criminale persona alcuna ecclesiastica.
Et ogn'uno che leggerà li titoli episcopis et clericis e de episcopali audientia vel de episcopali iudicio nel codice teodosiano e giustiniano, ritroverà tutte queste leggi, e resterà a pieno informato come la essenzione degli ecclesiastici è stata una grazia fatta dagl'imperatori; et anco si certificarà che, se bene essi hanno concesso alli clerici essenzioni dalla potestà de' suoi magistrati, mai però dalla potestà sua suprema hanno essentato alcuno.
E' così congunto col principato la potestà di punire qualunque commette contra le leggi, ch'è inseparabile da quello; e tanto vuol dire che nel suo stato abbia il prencipe uno non soggetto a sé nelle cause temporali et in qualunque altra concernente il ben publico, quanto che non sia prencipe.
Non potrebbe durare un corpo naturale che avesse in sé una parte non destinata all'essere dell'intiero; meno può durare un corpo civile, che nel suo mezo abbia uomo che riconosca altri che il prencipe nelle cose umane e temporali.
Il papa medesimo nelle cose spirituali esenta chi gli piace dell'auttorità de' vescovi, arcivescovi; ma da se stesso non può essentare alcuno senza restar d'esser papa.
La Republica di Venezia, essendo nata libera circa l'anno 420, se bene, come è avvenuto a tutte le gran potenze, non dilatata ne' principii suoi in grande e spacioso dominio, ha però ricevuto da Dio, non meno che gli altri prencipi grandi nel loro grand'imperio, la potestà sopra qualunque persona vivente nel dominio di lei; et agli ecclesiastici ha lasciato godere essa Republica quelle essenzioni dalli magistrati che godevano nelle terre dell'Imperio di tempo in tempo, bastandole punire in loro quei soli eccessi che, per esser gravi et enormi, potevano turbare la publica tranquillità.
E restano le memorie de' delinquenti ecclesiastici puniti in qualunque sorte di delitti, et alle volte ancora in certi che al presente si terrebbono per leggieri, ma che era necessario fossero per alcuna particolar circostanza degni che la Republica li correggesse.
E se bene i pontefici romani hanno fatti diversi decreti dal 1160 in poi sopra l'essenzione de' clerici ["can. at si clerici tit. de iudiciis, c. clerici eodem, can. cum non ab homine eodem, can. qualiter et quando eodem" in decretales Gregorii IX", lib. II, tit. I], questi però non sono stati ricevuti intieramente in loco alcuno appresso nissun prencipe, né hanno potuto ottenere che li delitti di maestà offesa non siano stati sempre soggetti alli giudicii secolari.
Quasi per tutta Italia si castigano li clerici, se ben non ammoniti, che non vanno in abito, non ostante l'essenzioni et i decreti pontificii.
In Spagna si fa l'istesso ne' delitti di portar armi et in molti altri.
In Francia si distinquono i delitti communi e privilegiati; e quelli soli si rimettono agli ecclesiastici e questi son giudicati da' secolari.
La Republica parimente ha distinti li delitti in gravi e leggieri; et i leggieri sono rimessi al foro ecclesiastico, li gravi commessi alli magistrati.
E così ha continuato d i esercitare sempre la giustizia e la libertà della sua giurisdizione.
Non diremo che questa sia una consuetudine solamente, la quale, contraria ad una legge, per la longhezza del tempo abbia preso vigore sopra la legge istessa.
Non dubitiamo che la consuetudine mai può pregiudicare alla legge di Dio e della natura, se bene fosse longa a migliaia d'anni, e confessaremo ingenuamente che se Dio avesse essentato gli ecclesiastici, ogni atto da qual si voglia prencipe in contrario fatto sarebbe una usurpazione et un'offesa di Dio; ma aggiongeremo ben anco, con licenza di coloro che chiamano la loro essenzione de iure divino che se così fosse, il papa non averebbe potestà di sottometterli, perché li secolari non sarebbono capaci di essercitare per dispensa del papa quello che Dio avesse proibito Dio ha proibito alli secolari dir messa, confessare etc., il papa on può abilitarli in modo alcuno con sue dispense.
E se diranno che questo è ius divinum indispensabile, ma quello dispensabile dal papa, per non disputare et affaticarsi a mostrare la contradizzione che è nel ius divino e dispensabile per potestà umana, basterà risponder loro che tutte le ragioni che si possono acquistare per dispensa del papa si possono acquistar anco per consuetudine, la quale sopravenga contraria alla legge ["Innoc. c. cum Apostolica, tit. de simonia de privilegiis, c. quod quibusdam, tit. de verborum significatione c. in his, c. super quibusdam" in Decretales Gregorii IX, lib. III, tit. X, cap. VII, tit. XXII, cap. IV; lib. V, tit. III e XXXIII, capp. XV e XXVI nel tit. XL].
E se presupponessimo la essenzione de' clerici essere prima stata ordinata per legge et esequita ancora, e che poi per consuetudine immemorabile fosse stato prescritto in contrario, dico che legitimamente si essercitarebbe.
Ma nel nostro caso l'auttorità e l'uso della Republica precede di tempo ad ogni legge ch'abbia esentati gli ecclesiastici dalli giudicii in cause criminali enormi: né qualunque decreto abbino fatto gli ecclesiastici ha potuto pregiudicarle punto.
S'aggionge a questo l'approbazione tacita di tutti li pontefici che, vedendo e sapendo questo, se non avessero giudicato convenire, vedendo e sapendo questo, se non avessero giudicato convenire, l'averebbono ripreso: e la medesima approbazione espressa ancora di Sisto IV, Innocenzio VIII, Alessandro VI e Paolo III, li brevi de' quali, conservati nelli archivi della Republica, sono veramente in approbazione di quanto essa ha giustamente fatto.
Il che chiaramente mostra Innocenzio nel suo breve diretto al patriarca di Venezia, dato l'ultimo ottobre 1487, nel quale mostrando come ragionevolmente la Republica giudicasse gli ecclesiastici non solo nelli atrocissimi delitti ma anco in tutti gli altri gravi et atroci, usa queste parole: "Nos attendentes privilegia ad bene vivendum dari, non ad delinquendum, illaque praesidio bonis contra improbos esse debere, non autem malis ad nocendum, facultatem" etc. Cosa che non in questo tempo solamente occorre spessissime volte, ma allora anco era frequentissimo, come Sisto papa IV in un suo breve pur al patriarca di Venezia, sotto il dì 2 giugno 1474, testifica con queste parole: "Cogimur non sine cordis nostri dolore plurima quae nollemus de personis ecclesiasticis audire ex ista civitate praesertim, in qua saepe nonnulli aut monetas adulterasse, aut crimen laesae maiestatis admisisse dicuntur".
E se alcuno, per provare che l'essenzione è de iure divino, si volesse valere dell'esempio di Costantino nel concilio niceno, lo rilegga bene, e venga a dire se fa per lui overo contro la sua intenzione.
Le novelle di Giustiniano imperatore 3, 5, 6, 11, 83, 123, 131, 133, 137, con molta abbondanza di chiarezza mostrano quali essenzioni avessero li clerici sotto quell'imperatore, e quale avevano goduto innanzi a lui.
Se adunque per privilegi degli imperatori nel principio, e poi per connivenza hanno avuto l'essenzioni, perché debbano far tanti rumori, quando la Republica veneta dice che se altri nello stato loro hanno concesso che anco gli delitti enormi fussero giudicati dall'ecclesiastico, credendo e giudicando che ciò potesse convenire al governo loro, ella però non l'ha mai concesso o acconsentito, come cosa che ha reputato essere contraria alla publica tranquillità sua.
Si può aggiungere qui che in nissun regno o dominio si pratticano queste essenzioni nell'istesso modo: e chi leggerà quanto ne scrivono li criminalisti, e Clario in particolare, vederà come variamente in diversi luoghi è esequita e pratticata questa essenzione: argomento indissolubile che non è de iure divino, sì che la consuetudine può regolarla, e che li decreti de' papi sopra ciò non sono stati per ogni luogo in tutto ricevuti [Giulio Claro (1525-1575) fu un illustre criminalista la cui opera più famosa fu costituita dalle Receptae sententiae distribuite in 5 libri].
E qui si dovrà considerare ancora che nel breve delli 10 di decembre dice il presente pontefice [Paolo V] che sono carcerati un canonico et un abbate "personas in dignitate ecclesiastica constitutas".
Vi sarebbono mille brevi papali per mostrare che canonicatus non est dignitas; ma essendosene accorti, e nel monitorio stampato hanno escluso il canonico, e detto solo dell'abbate "personam in dignitate ecclesiastica constitutam", tanto che si raccoglie che si può anco errare nelli brevi papali, quando massimamente si scrive con troppa celerità, la quale è cagione che non si considera quanto fa di bisogno.
Ma non è anco senza qualche dubbio se questi abbati commendatari siano dignità o non, poiché il sacro concilio di Trento proibisce le comende.
Importa nondimeno a quello che noi trattiamo molto e che sia dignità, e che sopra questo il papa faccia fondamento, sì che se fosse un povero sacerdote senza benefizio non riputarebbe la causa tanto importante, ma la qualità della dignità sia speziale per far maggiore e più autentica l'essenzione, atteso che è cosa certa che nella Chiesa sono posti gl'ordini che sono sacramenti iure divino, tra' quali il sacerdozio è sommo, ma queste dignità di abbate, preposito, archidiacono sono introdotte iure humano: adunque se la essenzione fosse de iure divino, sarebbe principalmente nelli sacerdoti, se bene senza titolo, e non nelle dignità specifiche, come vogliono.
Et al sicuro chi vorrà sciogliere questo nodo di ragione, non tentarà di farlo senza grande e vana fatica.
Questa materia ricerca che si consideri nella persona del papa ritrovarsi due qualità, l'una di pontefice romano, vescovo di quella Chiesa particolare e capo dell'universale, l'altra di prencipe di quello stato che possiede; che se bene al presente sono congionte; non per tanto è necessario né che il prencipe temporale di Roma sia pontefice, né che il pontefice sia prencipe.
Non occorre adesso di esplicare quando ambe queste qualità furono unite, che forse non sono quattro centenaia d'anni, ma concedasi anco che già 800 anni ciò avvenisse, non importa al nostro discorso.
Come pontefice nella città di Roma tiene il suo vicario, e nelle città soggette gli arcivescovi, vescovi et altri rettori ecclesiastici: e come principe ha li ministri, governatori, giudici et altri, che se bene in parte sono preti, però non in quanto preti essercitano quei carichi, e molti anco sono laici.
Ora se alcun ecclesiastico, prete o frate, commette delitto enorme, vediamo che non li vescovi e quelli che hanno li governi ecclesiastici lo puniscono, ma li governatori, auditori etc.
Abbiamo veduto Torre di Nona, Corte Savella, il Torrione di Bologna et altre prigioni laiche piene di preti e frati giustiziati, e quello che importa, eziandio senza degradazione nelli pontificati di Sisto e di Clemente s'è veduto impiccati frati con l'abito regolare.
Queste cose furono certamente necessarie e giuste, altrimente lo Stato ecclesiastico non viverebbe in pace.
Non sono però gli altri stati senza questa necessità: e se piacesse alla Santità sua misurare li bisogni altrui con la misura che usa et ha data agli suoi, non dannerebbe li principi che castigano li preti che non vivono da preti.
Ma non si credi già poter riuscire negli altri stati quello che non riesce nel proprio; e doveressimo noi dar essempio di quello che voressimo essere fatto dagli altri, perché, vedendo il male che ne risulterà, compatiressimo alle altrui necessità.
Io so la risposta che si darà, e questa è che il papa ha le due qualità sopra narrate, una di principe e l'altra di pontefice: come principe, vedendo esser necessario al buon governo dello stato suo che col braccio laico
siano castigati li delitti enormi de' chierici, ne chiede la licenza a sé come pontefice; e che sì come la dà a sé, così la darà anco agli altri, se la dimanderanno in grazia: medicina più insopportabile che la infermità, e che più nuoce al corpo, e risposta che divide l'indivisibile ancora.
Non sarebbe più facile dire che il pontefice, in quanto principe, conosce esser necessario per il buon governo dello stato suo castigare con l'auttorità temporale ogn'uno che perturba la quiete, se ben è ecclesiastico; ma non vedendo li bisogni degli altri principi e stati, né consentendo che abbiano auttorità dalla Maestà Divina, conosce solo la propria auttorità di pontefice e padre universale, per il che vuole essere a parte delli governi loro?
Qui si oppongono alcuni dicendo: ogni castigo è per correzzione del delinquente, altrimenti, quando non avesse questo buon fine, sarebbe opera tirannica; ma la correzzione di ciascuno appartiene al superiore suo, pertanto al principe non debbe importare se il delinquente ecclesiastico sia corretto o non.
Attendi pure a castigare i laici, ché se gli ecclesiastici
non saranno puniti, li prelati ne renderanno conto a Dio.
E veramente concluderebbe la ragione, se il supposto di essa fosse vero, che la correzzione del delinquente fosse solo fine della giustizia criminale.
E' fine certo, ma è fine secondario, et il minore, essendo per utilità privata, ché il principale è un fine publico, et in due consiste: una in mantenere nelli cittadini buoni costumi, e nella città tranquillità e quiete; e l'altra se alcuno si usurpa sopra l'altro qualche avantaggio, affligendolo o danneggiandolo contro ragione, con altretanta pena proporzionalmente data a lui ridurre le cose all'ugualità.
L' ecclesiastico, quando posposto il timor di Dio e del mondo, contraviene alle leggi, offende il publico, dando esempio alli laici, i quali con così fatta imitazione si rendono cattivi; ed oltre di ciò invita anche quello che si trova offeso da lui a vendicarsi con sovversione della quiete e del riposo publico. Per le quali cose debbe essere cura del principe che il delitto sia castigato, altrimenti per la sopradetta ragione non dovrebbe mai il principe punire un forastiero che nel suo stato errasse, poiché non essendo suo suddito, non ha da curare l'utilità di quello.
Il principe castiga il forestiero, non avendo mira alla sua correzzione, ma al difendere il suddito proprio dall'ingiurie, come è obligato, et all'impedirgli li essempi cattivi, che possono introdurre costumi perniciosi alla publica quiete.
Né vale dire: dunque se è necessario al ben publico che l'ecclesiastico sia castigato, procuri il principe la correzzione sua dal prelato, né permetta che li magistrati laici l'esequiscano.
Perché per risposta è necessario considerare che gli ecclesiastici [i giudici del foro ecclesiastico o comunque i giudici ecclesiastici] per delitti ezandio gravissimi et enormissimi non possono secondo li sacri canoni punire in pena di sangue, ma castigano con censure di sospensione, privazione, deposizione, o con pene di irregolarità; overo impongono penitenze salutari di orazioni, digiuni et altre opere . Anzi se qualche volta danno di queste penitenze per qualche longo tempo, doppo fatta relazione della umiltà del penitente e prontezza dell'obedienza, le rimettono e ne fanno grazia presto e facilmente.
E quantunque fosse commandamento di Giustiniano che per li delitti fossero dati al braccio secolare, nondimeno la commune e praticata opinione de' canonisti è che questo si faccia solo in tre casi, di eresia, di falsificazione di lettere apostoliche e di conspirazione contro il proprio vescovo. del resto dicono affermativamente che se un chierico averà commesso delitto enorme e gravissimo, quantunque avesse ucciso il sommo pontefice, sempre che offerirà di voler fare la penitenza, non debbe degradarlo e darlo al braccio secolare, ma confinarlo in prigione perpetua.
Da questo modo e condizione di giustizia segue che gli ecclesiastici facilmente incorrono nelle transgressioni delle leggi, perché, apportando loro più utilità o dilettazione il peccato, che danno o noia la pena, eleggono più tosto questo male riputato da loro minore che privarsi delli propri appetiti e libidini, e non temendo punto della vita (cosa che sola frena e atterrisce per lo più i delinquenti), e sperando anco se saranno con alcune pene ecclesiastiche castigati d'accomodare il tutto ben presto, si fanno lecito però senza rispetto alcuno di commettere ogni sceleratezza: oltre che non sono dalli fori ecclesiastici puniti più li delitti che turbano la publica tranquillità, ma quelli che più sono contro li loro rispetti.
Imperò che non è di tanto interesse del laico la falsificazione di lettere apostoliche o la conspirazione contro il vescovo, che sono li casi (come si è detto sopra) per li quali è ordinata la degradazione, ma la prodizione[sia come alto tradimento che tradimento in senso lato], la maestà offesa, la falsità della moneta, l'omicidio, per li quali darebbono delle sue penitenze ecclesiastiche, sono quelli che per servizio della tranquillità publica devono esser puniti con grande et essemplare severità.
E veramente il prelato che governa li soli chierici non può far opera che abbia rispetto se non ad essi soli et alla loro utilità, né può né sa aver risguardo al benefizio di tutta la republica nel punire li suoi preti, sì come un padre di famiglia non castiga gli figli e servi suoi, se non avendo rispetto al bene della casa propria solamente.
Li soli castighi del prencipe e de' sui ministri s'inviano e tendono veramente al benefizio commune, ch'è il fine suo reale.
Il dire che delli delitti enormi che turbano la quiete publica il chierico sia punito dal suo prelato, non vuol dir altro se non che quella pena si riferisca al bene essere dell'ordine ecclesiastico, e che delli delitti commessi da loro tutto il danno sia partecipato dalli laici, e del bene che nasce dalla loro pena non ricevino parte alcuna.
E vaglia a dire il vero, li prelati mai puniscono li chierici per offese fatte a' secolari, se non per instanzia che loro facciano li magistrati, o per timore che essi non suppliscano al mancamento: e con ragione, perché cura loro è governare il prete, e non difendere il secolare.
Na il prencipe, che riceve li tributi et altri servizi dalli sudditi, acciò difenda la vita, l'onore e la robba loro, non può senza peccato abandonarli, quando sono oppressi dalla audacia di coloro che sotto pretesto di essenzioni ardiscono ogni male, permettendo che li delinquenti vadano impuniti o siano castigati con sole pene spirituali; ma è in obligo di punirli per conservazione della giustizia et essempio degl'altri, massime essendo esso prencipe costituito dal Creatore, come S. paolo dice: "Minister Dei vindex in iram ei qui malum agit"[Rom., 13,4].
In che se manca, è ancora punito con la privazione del dominio: "regnum de gente in gentem transfertur propter iniustitias, iniurias, contumelias et diversos dolos" [Eccli.,10,8].
Et oltre l'offesa di Dio, nella quale incorre il prencipe abandonando li sudditi, e mancabdo loro della debita protezzione, ne seguono altri mali, che tendono tutti alla publicaruina. Li secolari offesi dagli ecclesiastici nel sangue, nell'onore e nella robba, vedendosi privati di quella giusta vendetta che si fa con la publica auttorità, sono incitati con qualche ragione alla privata; e quello che peggio è, temendo di non essere di nuovo offesi, nè sperando nella giustizia de' prelati, cercano di prevenire; e così di male nascono mille altri mali, che causano sedizioni e gravissime perturbazioni nelle città.
Et oltre l'offesa di Dio, nella quale incorre il prencipe abandonando li sudditi, e mancando loro della debita protezzione, ne seguono altri mali, che tendono tutti alla publicaruina. Li secolari offesi dagli ecclesiastici nel sangue, nell'onore e nella robba, vedendosi privati di quella giusta vendetta che si fa con la publica auttorità, sono incitati con qualche ragione alla privata; e quello che peggio è, temendo di non essere di nuovo offesi, nè sperando nella giustizia de' prelati, cercano di prevenire; e così di male nascono mille altri mali, che causano sedizioni e gravissime perturbazioni nelle città.
Quel tanto poi che si dice a difesa delli giudicii ecclesiastici, che le essenzioni de' fori laici sono concesse alli clerici in onore di quell'ordine, il quale, dedicato al culto divino, è ragionevole che sia rispettato, questa è cosa che ogni buon giudizio intenderà in contrario, perché se si vuol dire in onore di quello che ha commesso il fallo, prima egli non merita essere onorato; e S. Paolo dice: "Vis non timere potestatem? bonum fac, et habebis laudem" [Rom., 13,3]; poi ben disse Socrate: "Ogn'uno che pecca è infelice, ma più infelice però se fuggirà la pena". In onore delli buoni molto meno, perché possono esser macchiati per la compagnia delli cattivi, e restano più onorati li buoni quando sono senza cattiva compagnia. Consigliò S. Paolo: "Auferte malum ex vobismet ipsis; modicum fermenti totam massam corrumpit"[i Cor., 5, 13 e 6]; onde, se essi peer li sacri canoni non possono, levando la vita a' tristi, escluderli dal suo numero, servirà a dignità delli ecclesiastici che la loro bontà purgata dalli cattivi con l'auttorità del prencipe resti sincera, e perciò onorata. Né si può dire che altra libertà sia loro levata, se non la libertà di far male. Da queste considerazioni è più manifesto che la Republica Veneta non ha eccesso in conto alcuno, così nel constituir le sue leggi, come nell'amministrar la giustizia, quella potestà di prencipe temporale supremo che Dio le ha dato; e non ha così meritato che si procedesse con lei con censure ecclesiastiche: e tanto più, quanto si è proceduto alla fulminazione con tanta celerità, che ogni persona intendente delle cose di Roma si maraviglierà onde nasca che le cause (eziandio di poco momento) si trattino in Roma con tanta longhezza, che gran parte di esse terminano più tosto per la morte delle parti che per la sentenza dei giudici, e nondimeno in una causa di tanto momento sia stato proceduto non con celerità, ma con precipizio. Poiché nel principio di novembre solo passarono li primi ragionamenti di queste cause, sì che in 5 mesi s'ha potuto venire ad una deliberazione tanto ardua di scommunicare una moltitudine di tre millioni di anime, et interdire così gran tratto di paese e di dominio; massime che con impazienza insopportabile si è aspettato questo breve tempo, sempre con querimonia che si cercasse dilazione per valersi del tempo. Et è venuta sua Santità a così fatta risoluzione con darne solo notizia a' cardinali, e senza ricercar il parer loro, come è solito farsi specialmente in casi di tanta importanza; e ciò non senza qualche mormorazione della corte romana, essendo solito non solo di fare li cardinali partecipi di così fatte materie, ma di averli anco per consultori.
E doppo stabilito e stampato ancora l'ultimo suo breve delli 17 di aprile [alcuni esemplari in A.S.V., Consultori in iure, F. 5], l'istesso giorno ne parlò in consistoro, et immediate procedette alla affissione et alla intimazione. Et in ciò è cosa degna di gran stupore che facendosi professione in Roma che nessun altro sappia far processi, e che in servare l'ordine si usi una somma vigilanza, andando per bocca de tutti come per proverbio: "Omnis processus formatus extra curiam ut plurimum est nullus", nondimeno in una causa di tanto momento s'abbia proceduto senza citazione. Dicono pur essi che sia de iure naturae, et hanno sempre in bocca: "Adam ubi es?". Et: "Ubi est Abel frater tuus?" [Gen.,3,9 e 4,9]. E pure questo non si vede esser stato servato. E se alcuno dirà che li dui brevi delli 10 di decembre servino per citazione, a questo ostano tre cose. La prima, che sono essi dui primi brevi delli 10 di decembre ancora soggetti a questa infirmità insanabile, perché in uno di essi dichiarandosi le leggi del senato nulle, e coloro che le hanno constituite caduti in censura, a questo non si poteva venire, senza prima citare a dire le ragioni in contrario.
Poi altro è monizione, et altro citazione, come bene li giuriconsulti dimostrano: quella comanda che s'obedisca come in cosa decisa, questa chiama a discutere se sia bene, se sia necessario e obligo di obedire. Per il che, comandandosi in quei brevi la revocazione delle leggi e la consignazione delli prigioni sotto censure e pene, non si possono chiamare citatorii, ma monitorii; né si può dire che si risolvino in citazione, non avendo termine alcuno, anzi comandando l'esecuzione immediatamente.
Nè si può dire risolversi in citazione il monitorio, che dà li 24 giorni di termine, atteso che vengono in quello dichiarati nulli et annullati li statuti della Republica, non doppo li 24 giorni, ma nell'istesso tempo delli 17 aprile: adunque così fatta annullazione per modo alcuno non può risolversi in citazione.
E molto meno ancora quanto al rimanente, mancando della clausola giustificativa, senza la quale non solo mai si risolve in citazione, ma il monitorio ipso iure è nullo insieme con la sua scommunica, come a pieno pruova Navarra sopra il capitolo Cum contingat, 8, causa nullitatis [[M. Azpilcueta, Relectio in capitulum Cum contingat. De rescriptis, in Relectiones duae in capitulum Si quando et in capitulum Cum contingat. De rescriptis, Romae, 1585, p. 154].
Ma condonandogli tutti questi difetti, dove apparisce citazione o monizione sopra la legge del 1602? che dicono essere de' beni enfiteotici, e che veramente è più sopra beni censuali over locati per longo tempo, la qual nondimeno entra nel monitorio nel primo luogo, e viene annullata, senza che pur s'intenda qual sia il senso di quella, né con quali ragioni si difenda. Avessero almeno udito una volta parlarne, fussevi stato qualche discorso extraiudiciale sopra. Ma che sprovistamente sia prima dannata che intesa, è grande e scandalosa maraviglia.
Non sarebbe per aventura necessario estendersi in trattare sopra il merito di questa causa di enfiteusi, poiché così notabile difetto è stato comjmesso nell'ordine giudiciario.
Ma perché alcuno forse entrarà in desiderio di aver qualche summaria notizia delle ragioni della Republica sopra di ciò, non sarà alieno da questo proposito toccarne brevemente alcune, dalle quali si conosca manifesta la auttorità legitima nel senato per constituire la legge, la necessità che ve l'ha spinto e la equità nella cosa statuita, et incidentemente si scuopra qualche errore, o a studio o per caso incorso nella intelligenza delle parole e cause di questa legge.
Dice il pontefice nel monitorio che il doge e senato a' 23 di maggio 1602, presa occasione da una lite vertente fra il dottor Francesco Zabarella da una parte e li monachi di Pragia dall'altra, staturono non solo che li monachi allora, o per l'avvenire, non potessero pretendere azzione per sotto qual si voglia titolo di esser preferiti nelli beni enfiteotici posseduti da' laici, né ottenere la proprietà de' beni sudetti per ragione di prelazione, consolidazione o di estinzione di linea, o per qual si voglia altra causa, salvo il loro diretto, ma ancora, che ciò s'intendesse dichiarato, e fermamente deliberato quanto a tutte le altre persone ecclesiastiche e luoghi pii.
Da questo non appare se la Santità sua riprenda la ordinazione del senato in quanto estende a tutti li luoghi e persone ecclesiastiche quello che è deciso nella causa tra li monachi et il dottore, approvando però la decisione sudetta nella controversia particolare, overo se intenda riprendere e l'uno e l'altro insieme.
Che se, concesso che il senato avesse legittima potestà di por fine a quella lite, si nega potesse dichiarare, come per legge universale, che l'istesso fosse e s'intendesse deliberato in ogni altro simil caso, questo non si potrà capire in modo alcuno da qual si voglia mediocre ingegno, essendo chiarissima cosa che all'istessa potestà conviene il far legge in una materia et il giudicare le controversie particolari occorrenti in quella.
Aristotile ["Polit. 3"] dimostra che ilgiudicio sia una legge particolare, e la legge sia un giudicio universale, e che sarebbe a bastanza quando il giudice3 potesse comprendere tutti li casi particolari.
E nel codice giustiniano
["lib 3, tit. 5 ne quis in sua
] si vede che la giurisdizzione contiene dui capi, giudicare e ius dicere: questo appartiene a far lo statuto sopra il quale la sentenzia si fondi, e quello al pronunciarla .
E l'officio del pretore in Roma era fare gli editti generali, e deputar li giudici, i quali conforme a quelli rendessero ragioni nelle cause particolari. Se la legge fosse spirituale, et il giudice mondano, egli non l'intenderebbe, né potrebbe giudicar secondo quella. Scienzia spirituale et azzione mondana non convengono. La regola, dicono li filosofi, debbe essere omogenea col regolato; per il che li giurisconsulti ragionevolissimamente dicono: "Forum sortiri et statutis ligari paria sunt" ["Paulus castrensis, lex omnes populi, de iustitia et iure" - In primam Digesti veteris partem commentaria, I, 1; "Decius can. quae in Ecclesiarum e can. Ecclesia Sanctae Mariae se constitutione", in Decretales commentaria = "Alexander Consilia 201 lex 2"].
Pertanto chi consente che il senato legitimamente abbia giudicato la causa tra li monachi et il dottore debbe anco concederli potestà di decretare in universale quello che sia stato regola nel giudicio occorso, e debba essere in quelli che occorreranno.
Ma se s'intende di reprendere anco la cognizione e decisione fatta dal senato nella causa tra li monachi et il dottore, questo sì che mostra molto bene quanto era necessario non procedere tanto innanzi e formare un monitorio prima e principalmente sopra questo capo, senza vedere il processo formato nella lite o controversia nominata.
Atteso che non è vero che il dottore sia sato in quella causa l'attore, e li monachi rei come il monitorio suppone dicendo "inter doctorem etc. ex una, et monachos etc. ex altera partibus".
Ma avendo del 1598 Corsato de' Corsati comprato da Andrea Monaldo campi otto, che pagano canone al monasterio di Pragia, il dottore del 1602 a' 12 di febraro depositò il valore, per farne il retratto [riscatto] per ragione di confino, et alli 2 di marzo li monachi, pretendendo esser preferiti a lui come patroni del diretto di quei campi, comparvero innanzi al potestà di Padova, e contestarono lite, pretendendo prelazione; nella qual causa si processe anco innanzi a quel magistrato a molti atti, sin che secondo li ordini di questo Stato, la cognizione, per supplica del dottore e della communità di Padova, fu trasportata al senato. Non ha il dottore tirato il monasterio al giudicio laico, ma li ecclesiastici istessi hanno conosciuto che il giudicio di questa causa apparteneva al secolare, poiché hanno avuto ricorso a quello; il quale ricorso solo, quando ancora altro non vi fosse, avrebbe dato al podestà giurisdizzione, et al senato consequentemente in quella causa, come è in espressissimo termine dichiarato alla lex prima, Codex, De iurisdictione iudicum.
Ma oltre questo fondamento saldo e fermo, s'aggionge quest'altro validissimo et universale: che da immemorabil tempo, molto innanzi 200 anni prossimi, quando si è trattato de beni possessi da laici (dìasegli nome di emfiteotici o censuali o feudatari o locati per longo tempo, o qual si voglia altro titolo), mai in questo Stato giudice ecclesiastico ha esercitato giudicio, ma sempre, e senza contradizzione alcuna, la cognizione e giurisdizzione è stata del secolare.
Onde non solo si prova che giuridicamente dal senato è stata determinata la controversia tra li monachi e il dottore, ma ancora che è propria di lui la potestà di fare statuti, che dispongano e regolino li beni sopra nominati posseduti da' laici, ne' quali la Chiesa ha il diretto: imperò che a lui è appartenuto et appartiene il giudicare le controversie che sono nate e nascono intorno a quelli; e di sopra abbiamo mostrato convenire all'istessa potestà far li statuti et il giudicare.
Restano in tutte le cancellarie delle città registri delli giudicii seguiti innanzi al giudice secolare, dopoi che sono soggette a questo Stato, e non si potrà mostrarne uno trattato in foro ecclesiastico.
Né si può dire usurpazione, poiché gli ecclesiastici non sono tirati in giudicio rei, ma spontaneamente sono comparsi attori; e quello che stringe più la ragione è che in simil controversie tra chiesa e chiesa sono comparse esse stesse al foro secolare per giustizia contra l'altra chiesa.
Anzi è da credere fermamente che il principio di questa introduzione fosse molto canonico, poiché gli ecclesiastici di quei tempi erano essi ancora molto buoni e zelanti delle ragioni della Chiesa, et i pontefici similmente accuratissimi conservatori della giurisdizzione ecclesiastica; e così questi come quelli sapevano molto bene la natura delli fondi sopra quali comparivano in petitorio inmnanzi al secolare, e pur nissuno mai ha ripreso questa consuetudine di giudicare, anzi con vera sicurtà si può dire che essi l'hanno introdotta. E vi è constituzione di Giustiniano espressissima, che la sola consuetudine dà giurisdizzione altretanto quanto la legge ["Codex de emancipationibus liberorum lex ultima" = codice di giustiniano, lib. VIII, tit. XLIIX lex cum inspeximus ].
Ma poiché la Santità sua nel monitorio dice che la ordinazione del senato statuisce "in bonis ecclesiasticis emphyteoticis", è necessario o che li ministri suoi abbino altra scrittura che la vera, o che preoccupati dall'affetto abbino creduto di veder dentro quello che non vi si trova in modo alcuno né in parole né in senso, perché quel emphyteoticis non vi è né formalmente né in parole equivalenti: né si possono scusare, dicendo di aver creduto che il senso fosse tale quale l'hanno espresso, non essendo lecito riferire il detto altrui con altrui parole, e massime che restringano ad una sola specie quello che è detto in genere.
La legge dice che le chiese non possino appropriarsi beni posseduti da' laici, restando però salve le ragioni loro dirette.
Non è vero che vi sia distinzione di diretto et utile solamente nell'
enfiteusi, ma ambidua questi dominii si ritrovano nelli beni patrimoniali, de' quali si tratta in un titolo del libro XI del codice giustiniano [codice di giustiniano, lib. XI, tit. LXII], il diretto de'quali può essere nella chiesa se il prncipe gliel'avrà donato: e quantonque questa sorte di modo di possedere sia disusato in Italia sotto gl'imperatori franchi e successori, et in luogo di esso sia entrato il feudo, non è che non restino nelle chiese, massime nelle catedrali alcuni beni di questa sorte, i quali furono donati prima che gl'imperatori di Costantinopoli, fussero esclusi totalmente dall'imperio di queste regioni convicine.
nella locazione perpetua ancora sono il diretto e l'utile, dove però (sì come anco nelli fondi detti di sopra) non ha luogo né la prelazione né la consolidazione né la estinzione di linee, come Covarivias [variarum resolutionum libri quatuor, II, cap. XVI, 3, di Diego Covarrubias y Leyva (1512-1577) giurista spagnolo, vescovo, partecipante all'ultima sessione del concilio di Trento] e Valasco [Tractatus de iure emphiteutico, quaestio XXIX, 22-23 del giureconsulto Alvaro Valasco] allegati da molti dottori, provano efficacemente; se bene alcuni poco avvertiti tengono in contrario.
Gran parte delle ragioni dirette delle chiese in queste regioni basse attorno al mare, che erano altre volte paludi e valli, sono di questo genere. Imperò che, essendo li terreni tutti sotto acqua, né cavandosi di loro altro frutto che cannuccie, s'affittavano in perpetuo o a longhissimo tempo per leggierissima pensione rispondente alli frutti che producevano; se bene ora, per l'immensa spesa e fatica di secolari e publica e privata in sollevare il terreno, seccar paludi e derivar acque, sono ridotte allo stato presente. Laonde in questi non ha ragione la Chiesa né per giustizia scritta né per equità di pretenderci prelazione o devoluzione, o altra ragione per appropriarseli; e sopra questi versa in gran parte la legge del senato, sì come anco statuisce sopra un'altra sorte di beni come si dirà.
imperò che occorre che venga pagata alla Chiesa pensione per ragione di censo reservativo sopra alcuni stabili, o perché la Chiesa istessa nelle antiche vendite ne abbia stipulata la reservazione, o che, reservato da altri padroni venditori, fosse poi da loro donato a lei.
Nel qual caso il censo reservato senza dubio appartiene alla Chiesa in perpetuo; ma sopra lo stabile non le resta dominio di sorte alcuna in virtù del quale possa pretendere consolidazione o prelazione o ritratto o altre simili azzioni.
Il feudo è di questa natura, che in lui il diretto si distingue dall'utile: et io resto maravigliato perché, volendo aggiongere alla legge del senato o dichiararla in senso alieno dal suo vero con quella parola emphyteoticis, non abbino, per aggravarla tanto più, detto feudalibus. Ma forsi non sono passati tanto innanzi, perché non speravano si restasse senza avvertirla, essendo voce volgare e intesa pienamente da tutti.
Il vocabolo emphyteoticis ha un poco più del recondito, et è stato creduto più commodo per essere intromesso occultamente: per il che non debbo restar di replicare che nella legge del senato non è usata la parola emphyteotici, e che generalmente parla di tutti li contratti o modi di possedere, dove due dominii, utile e diretto, restano divisi: né è lecito ad alcuno volerla restringere o in altro modo dichiarare contro il suo vero senso, per voler indi trarne la conclusione seguente posta nel montorio, che in altro modo non si poteva dedurre: "Cum praemissa in aliquibus ecclesiarum iura, etiam ex contractibus initis ipsis ecclesiis competentia, auferant".
Non è cosa nuova che gli ecclesiastici
, per entrare nelli beni posseduti da secolari, abbiano tentato di dar nome di enfiteusi alle ragioni per le quali ricevono canone o pensione. Anzi da 200 anni in qua molte città d'Italia hanno per questa causa tumultuato contro di loro; et essi stessi sono alle volte stati sforzati a ritirarsi dalle sue pretensioni e contentarsi del canone che ricevevano.
Nell'istessa città di Padova già 150 anni passarono gran controversie tra la communità e li monaci di Santa Giustina e Pragia sopra di questo, le quali terminarono per transazzione, dove fu dichiarato tra le altre cose, in tutti li loro livelli non aver luogo la caducità [o nullità del contratto perché non son state adempiute certe condizioni prefissate], la prelazione, la consolidazione per linea finita, come costantemente affermava la città che da tempo immemorabile per innanzi era stato costume et uso ["extant authentica capitula transactionis"].
In Urbino ancora innanzi quel tempo gran controversia fu agitata tra il clero et il populo, la qual finì per transazzione perimente, con espressa dichiarazione che la consolidazione per linea finita non avesse mai luogo["Paulus Castrensis consilium 244, lib.2"].
Più innanzi ancora, in Ferrara furono sopra questo stesso gravi e pericolosi tumulti, i quali per sedare, papa Bonifacio IX, più tosto come prencipe supremo che come pontefice, non per grazia ma per giustizia, fu sforzato nelli feudi, emfiteusi et altri simili contratti del Ferrarese levare la caducità, la prelazione, la consolidazione per linea finita, e darci nuova forma conveniente alla giustizia et equità, che li riducessi più a natura di censi che d'altro contratto.
E li dottori ancora, avvertito il notabil danno che il laico riceve per la devoluzione o consolidazione a linea finita, per loro commune opinione l'hanno levata affatto, dicendo che in tal caso il prossimo parente può dimandar per giustizia d'essere investito, et essendoli negato può appellare; e molti vengono a questa specificazione, ancora che la Chiesa volesse lo stabile per sè; et altri aggiongono che non solo sia tenuta dare l'investitura, ma che non possa né anco crescere il canone ["Vide Clarus et Velascus, Ruinus, Consilia 12, liber I, Decius Consilium 131, Bero, Consilium 98 liber I, Abbas, cap. Bonae, de postulat. praelat et Consilium 113, Curtius Senior, cap. 47, Riminaldus, cap. 44": tra gli autori son da menzionare Carlo Ruini, Filippo Decio, Agostino Boero, Francesco Curzio Senior, Giovan Maria Riminaldo].
Non è nissuna maraviglia che per legge o per transazione nelli luoghi sopra citati [scrive il Sarpi in questa sua opera] sia levata la caducità per canone non pagato, e la prelazione in caso di vendita e la consolidazione per linea finita, atteso che nissuna di queste condizioni è necessaria et essenziale al contratto.
Ma tutto quello che si può fare per legge, si può fare per fatto, et ancora la consuetudine lo può introdurre; per il che in questo stato ha potuto la longa e prescritta consuetudine, la qual si vede era immemorabile già 150 anni, di levare ad alcuni pochi beni enfiteotici (e pur ve n'erano) la caducità, la prelazione e la consolidazione, et introdurre che, fuori del pagamento della pensione, fossero tenuti patrimoniali et allodiali: si vede il consilio LXXII di Panormitano [Niccolò de Tedeschi], dove a longo discorre che la consuetudine anco nell'emfiteusi ecclesiastiche ha potuto introdurre in Urbino che fosse levata la condizione della caducità.
La quale nondimeno è la più utile per la Chiesa, imperò che per questa la Chiesa acquistarebbe li miglioramenti senza pagarli, che per prelazione o consolidazione o linea finita non se li può appropriare, se non pagandoli a giusto prezzo: onde per l'argomento a simili, et anco a maiori, tanto più può la consuetudine levare la prelazione e consolidazione.
Aggiongesi che non è singolar in questo Stato che qualche bene emfiteotico sia fatto allodiale, ma in Francia tutte le emfiteusi sono fatte tali, come testifica Ioanni Rubeus, Authentica, Ingressi, de Sacrosanctis Ecclesiis [Codex, lib. I, cap. 2].
Le quali cose mostrano e la equità e la necessità di una tal legge; la quale se bene il senato veneto non ha constituito a quel tempo in forma di legge scritta publicata per tutto lo Stato suo in termini universali, l'ha nondimeno in uso e consuetudine e rescritti [risposte del sovrano in calce a una supplica] nelle cause occorrenti fatta, osservata et esseguita da quel tempo sino ad ora.
Vi sono molti decreti delli principi di questa Republica col suo collegio, che di tempo in tempo nelle controversie tra la Chiesa et il secolare, over tra chiesa e chiesa, hanno terminato e deciso di non admettere caducità o prelazione o consolidazione dell'utile col diretto; et alle volte sono passati a mettere nelli rescritti suoi clausole generali che comprendono tutti li casi, come in tempo del doge Vendramino [Andrea Vendramin, doge veneto dal 1476 al 1478], del 1476, in un rescritto al podestà di Monselice sopra una controversia particolare, aggionge queste parole: "Numquam pati volumus (etiam in bonis ecclesiasticis) quemquam, qui diu tenuerit agrum aliquem iure livelli, quem sumptibus et laboribus suis melioraverit, sic de facto expoliari, sed tantum quod solvat livellos non solutos".
Et in tempo del doge Moro [Cristoforo Moro, doge dal 1462 al 1471] in un rescritto alli rettori di Brescia, l'anno 1466, avendo escluso l'abbate di leno dal poter ritrarre alcuni beni livellarii suoi venduti ad altri, soggionge: "Et de hac nostra intentione date dicto abbati notitiam, et declarate ne contra eam dictos Christophorum et Cornelium inquietet, sed acquiescat huic voluntati nostrae, quia hoc idem in aliis terris te locis nostris servari volumus, et facimus in similibus".
Da che appare chiaramente che questa non è una legge nuova, ma è da antichissimo tempo stabilita in consuetudine, e confirmata non solo per giudicii particolari delli magistrati, ma del prencipe istesso, de' quali la legge dice: "Si caussam princeps inter partes cognoverit, et sententiam dixerit, sed lex in omnibus similibus" ["Codex de legibus, lex si imperialis"]; e secondo li giureconsulti hanno forza di legge, se ben fossero decisivi solo d'un particolare caso, sì come le leggi canoniche quasi tutte sono decisioni di casi particolari; ma tanto più quando hanno anco la significazione della volontà del prencipe nelli casi simili, con espressione in termini generali come li sopradetti ["Afflictus, Decisione, 313. Menochius vide consilium 676 num. 2, 487 num. 3, 973 num. 20"]. E queste cose sono state fatte dalla republica, vedendo ciò e sapendo e non reclamando, e perciò tacitamente approvando per giusto e necessario quello che si eseguiva, non solo gli ecclesiastici che ricevevano la ripulsa dalle loro dimande, ma li nunzi apostolici ancora, e per conseguente li pontefici stessi, sì che quello che dal senato è stato deliberato del 1602 è una dichiarazione et espressione in scritto della legge vecchia, che stava in consuetudine et in rescritti diretti a' particolari magistrati, sì come in essa stessa legge si esprime pur apertamente con quelle parole: " Ricerca il servizio delle cose nostre, per quiete e consolazione de' sudditi, che questa materia sia terminata in modo che non solo nella presente occasione del sudetto Zabarella, ma per sempre in ogni altra di simile natura, non abbia a succedere nell'avvenire diversamente dalla buona consuetudine e dalli giudicii in conformità di essa più volte seguiti". Non restarò di aggiongere che se vi fosse in tal legge minimo scrupolo, papa Clemente VIII, nel cui pontificato fu publicata, pontefice zelantissimo, e che in questa città teneva ministri vigilantissimi, non l'avrebbe dissimulata.
e se il tenore di questa ordinazione è stato letto, par pure che convenisse, udendo nominar consuetudine e giudicii, il vedere et intendere prima che consuetudine e giudicii sono quelli. Chi è di così mediocre spirito che non vegga che si è proceduto senza cognizione della causa, e che studiosamente sono stati tralasciati molti particolari da coloro che dovevano riferirli a sua Santità per verificazione del fatto, sapendo e conoscendo che tutte queste cose erano necessarie da vedersi prima di venire ad una tanta essecuzione? Par quasi che vi fosse tanto desiderio che si venisse alla fulminazione, che, per dubio di non incontrare in qualche cosa che potesse divertirla, s'abbia fuggito di far vedere tutto quello che potesse rimuovere l'animo di sua Santità da cotale deliberazione.
Se la proposta brevità del presente discorso permettesse, si mostrarebbe evidentemente quanto fuori di ogni convenienza nel monitorio si dica, avendo risguardo a questa legge, come appare: "Cumque praemissa in aliquibus ecclesiarum iura etiam ex contractibus initis ipsis ecclesiis competentia auferant". Et insieme si farebbe noto che per quella non viene levato alle chiese alcun ius quaesitum; anzi che, stando in vigore et osservanza, resta alle chiese prontissimo e facilissimo modo di ritenere "omnia iura quaesita sibi competentia". Non fu mai costume di questa republica di levare il ius quaesitum a qual si voglia persona, non che alle chiese: ma chi vuol giudicare le leggi altrui, e non errare, è necessario che prima le intenda e ne abbia intiera informazione, e non proceda al dannarle prima di vederne i fondamenti. Ho detto in questa materia più di quello che conveniva a questo discorso, e pur non è una minima parte in comparazione di quello che resta. E se occorrerà mostrare li fondamenti di questa legge, vederà ogni uno quanto sia fondata sopra la giustizia et equità, e quanto l'auttorità del senato sia legittima per poterla constituire.
Ora tornando a dire quello che resta sopra le altre materie di sopra discorse, se il pontefice, preoccupato dalla sua deliberazione, non ha voluto admettere ragioni tanto chiare quanto le sopra narrate, et avere le cause della Republica per giustificate, almeno vedendo che la Europa tutta ha leggi simili a queste da lui riprese, e che un tanto numero di approvatissimi dottori tenga opinione contraria alla sua, doveva avere la cuasa per dubia, e procedere con risguardo, ricordandosi che la scommunica è pena gravissima e materia odiosa,e, come li canonisti dicono, "strictissime interpretanda". Nè s'intende che alcuno v'incorra, quando le parole del canone sono ambigue o generali; le quali non è lecito tirare ad un altro caso per similitudine, né meno con argomento a minori. perché se bene chi dà uno schiaffo ad un sacerdote è scommunicato, però chi gli tira una archibugiata, anco in chiesa, per ammazzarlo, e non lo coglie, non è scommunicato, se ben questo secondo delitto è maggiore del centoplo del primo [il Sarpi non parla di cose rare all'epoca: basti citare in Liguria, nell'imperiese, l'assassinio di G. M. Striglioni, artista controverso e parroco del paese di Badalucco].
Concedasi che chi fa statuti contra la libertà ecclesiastica sia scommunicato, converebbe anco che fosse chiaro li statuti veneti esser contro la libertà ecclesiastica. Ma s'è mostrato che non sono tali, con validissime ragioni, le quali quando pur anco non valessero, sta pure in fatto, e non in discorso, che quelle leggi sono per tutta Europa. Si vede pure stampato che tanti scrittori le giustificano; adonque almeno non è chiaro che siano contro l'auttorità pontificia, come si presuppone. Al che si aggionge che, non essendo ancor deciso che cosa sia questa libertà ecclesiastica, come si è detto, né essendo in ciò concordi li dottori, non può meno esser chiaro appresso di loro che queste leggi et azzioni siano contro di quella. E con tutto ciò in una causa, dove appresso di alcuni par che vi sia qualche controversia, e che per tanti capi resta dubia, viene precipitata una scommunica et un interdetto, senza prevedere e considerare maturamente gl'inconvenienti che dice il capitolo Alma Mater ["De sententia excommunicationis in Sexto", cap. 24 in Sextus Decretalium, lib. V, tit. XI] seguire da tali censure: cioè che il popolo perde la devozione, pullulano le eresie, sorgono infiniti pericoli delle anime, e si levano alle chiese i debiti servizi senza loro colpa.
La pietà cristiana veramente ricercava che prima si essaminassero con ogni diligenza li meriti delle cause, né si presupponesse così facilmente animo meno che buono in una Republica tanto pia e devota. Ogni prelato è tenuto prima a capire in se stesso il merito delle cause, e poi farne capace altrui con mansuetudine cristiana,e, come S. Paolo insegna "in spiritu laenitatis" ["Gal. 6", 1]; il che, sì come osservato averebbe prodotto ottimo effetto, così tralasciato ha cagionato il male che ora si vede et i pericoli maggiori che soprastanno.
Dice il pontefice nel monitorio suo delli 17 di aprile che il doge e senato di Venezia hanno fatto nelli anni a dietro molti e diversi statuti, per li quali sono incorsi in censure; ma tra gli altri, tre specialmente nominati, sopra i quali descende alla fulminazione, se non sono in 24 giorni revocati. Potrebbe ogni buon cristiano desiderare qui di sapere, se essendo, come si dice, in danno dell'anima un numero grande di statuti vari e diversi fatti dalla republica, e se per ciascuno di essi è incorsa in censure ecclesiastiche, con obligo di cassarli et annullarli tutti, perché non è il senato avertito, salvo che di tre. Non si può né si deve credere che si vogliano lasciar li altri in dannazione dell'anima; e però perché al presente non si tratta di tutti? Quando alcuno conviene il suo debitore può dimandarli una parte del debito, sì come essendo patrone gli lo può rimettere et in parte et in tutto; ma il procuratore e fattore non può, se non secondo la commissione del principale. Se molti e diversi statuti fatti negli anni a dietro offendono Dio, la Republica è in obligo di rivocarli tutti, né per rivocar li tre sodisferebbe al suo debito. Dice S. Giacomo: "Quicunque totam legem servaverit, offendat autem in uno, factus est omnium reus"["Iac. 2", 10].
Commandò il Salvatore l'uso della scommunica per li peccati che sono in danno dell'anima, quando disse: "Si peccaverit in te frater tuus" ["Matth.17": in effetti 18,15]; ma S. Paulo espresse quali questi fossero, dicendo: "Si is qui frater nominatur est fornicator, aut avarus, aut idolis serviens, aut maledicus, aut ebriosus, aut rapax, cum huiusmodi nec cibum sumere" ["I Cor. 5". 11]. Per il che si può dire al tempo presente quello che il Figliuol di Dio disse:" Vae vobis, qui decimatis mentam et anetum et ciminum, et reliquistis quae graviora sunt legis, iudicium et misericordiam et fidem: haec oportuit facere, et illa non omittere" ["Matth. 23", 23]. Con che si risponde pienamente a quel che si dice nel monitorio: le leggi e giudicii della Republica essere "in perniciem animarum". Ma quando anco si aggionge che le azzioni della Republica sono "in scandalum plurimorum", è da avvertire che non si concluda il contrario di quello che si vuole. Si debbe veramente attendere ad estirpare le cose scandalose, e massime se rendono mala edificazione a molti: però mai s'è udito che alcuno si sia scandalizzato per vedere castigati e puniti li delitti che turbano la quiete publica, per vedere raffrenato il lusso o l'avarizia. Più tosto genera scandalo il vedere caminare per la città un scelerato, e che li suoi compagni nel delitto siano stati giustiziati; e così il veder salvato nella Chiesa uno, di cui ella più che ogni altro dovrebbe procurar il castigo. Né occorre allungarsi molto in manifestare quali cose siano scandalose, poiché ogni uno è consapevole in se stesso di qual cosa dà e riceve scandalo; e quelli ancora che difendono le cose di mala edificazione, non lo fanno senza rossore, e senza sentire per conscienzia che oppugnano la verità.
Certamente questo monitorio è fatto ad essempio di dieci pontefici che in quello sono nominati, e dell'aver cercato sua Santità d'imitarli sarà sempre commendata; ma non sono però degni di minor laude quelli c'hanno seguito cento santissimi suoi precessori, i quali mai hanno pur dato indizio di aver avuto pensiero di poter annullar le leggi delli prencipi fatte per publica utilità; anzi che le hanno e publicate et esseguite ancora; e quando hanno sentito qualche difficoltà della giustizia loro, hanno con molta desterità e carità cercato di rappresentar alli prencipi quale si sia la volontà divina. Così S. Damaso pubòicò et esseguì la legge di valentiniano; S. Gregorio una di Maurizio, dove era proibito al soldato di monacare.
L'avere ancora pronunciato sentenza di scommunica contro il senato, che non è singolar persona, è molto alieno dalla dottrina degli antichi e buoni teologi. Sant'Agostino ha per perniciosa e sacrilega, impia e superba (che queste sono le parole sue formali) la scommunica contra la moltitudine, se bene fosse in notorio e manifesto peccato ["Liber 3 contra epistulam Parmeniani, 23 q. 4 can. non potest"]; e consiglia li buoni pastori in casi simili di ricorrere a Dio con le orazioni e gemiti: luogo trattato da quel santo molto alla longa, e con tanto spirito, che, se fosse letto in luogo di Barbaccia [canonista autore di commentari Andrea Barbazza di Messina, XV secolo] o Zenzelino [Zenzelino de Cassanis canonista], produrrebbe spirito di gran carità in ogni animo cristiano; cosa che non può fare la lezzione di questi altri.
S. Tomaso propone il quesito se la università può essere scomunicata ["q. 22 a. 5 in add. et in 4 d. 18 q. 2 a.3, quol. 10.15" = Summa theol. Additiones, questio 22, art. 5 e In IV Sententiarum Commentaria, distinc. 18, quaestio 2, art. 3, quaestio 10, art. 15]: risponde di no, e ne porta le ragioni, concludendo che la Chiesa con molta providenza constituì che la communità non si potesse scommunicare. Gli altri teologi tutti concordi determinano l'istesso: e papa Innocenzio IV nel capitolo Romana così dice :"In universitatem vel collegium proferri sententiam excommunicationis penitus prohibere" ["de sent. excom. in 6"]; dove la glosa ricerca se sarebbe valida la sentenzia di scommunica pronunciata contro una communità, et allega quattro celebri dottori che dicono non valerebbe, et uno per la contraria parte; et in fine consente che non si debbe pronunciare; ma quando fosse pronunciata, ha per più sicuro il dire che valerebbe. In questo proposito tutti sono concordi che una tal scommunica non possa fulminarsi: molti dicono che fulminata è nulla e di niun valore; alcuni pochi che fulminata vale. Appartiene ad una mente religiosa e pia la sentenza de' più celebri, la più fondata, e quella che è stabilita per constituzione pontificia e che più favorisce la pietà, e non la dannata dall'universale de' dottori, poiché anco quelli pochi che l'hanno per vera non consigliano che si segua. Né può esserci opposto quello che si legge in tutti li libri de' canonisti: "papa non potest errare"; la qual proposizione fu intesa sanamente da chi prima la disse, e fu limitata in materia di fede solamente, e nel decretare e determinare, non nell'opinare; e ciò dovendo il papa sempre servare li debiti mezi dell'invocazione divina e consiglio umano. Sarà per esempio S. Pietro stesso, il quale, doppo che da Cristo gli fu detto: "Tibi dabo claves regno coelorum" ["Matth. 16", 19], immediate passò a riprendere esso Salvatore che volesse essere crucifisso; per che il Signore gli disse: "Vade post me, sathanas, scandalum es mihi, quia non sapis quae Dei sunt, sed quae hominum" ["Matth. 16", 23]. La negazione ancora a ciascuno è tanto nota, che non occorre raccontarla. E nell'Epistola a' Galati dice S. Paolo : " Cum venisset Cephas Antiochiam in faciem ei restiti, quia reprehensibilis erat" ["Gal. 2", 11]. Né l'essempio di Pietro è unico. Se non fosse ripreso Cam d'aver deriso la nudità di padre Noè [Gen, 9,20-27], si potrebbe portare qui 23 pontefici soggetti a qualche imperfezzione non nelli costumi suoi privati, ma nella dottrina e governo. E se alcuno leggerà le vite de' pontefici dopò l'anno 890 per 130 anni seguenti, senza cercare li altri sparsi, conoscerà esser verissimo quello che S. Paulo dice:" Omnis pontifex ex hominibus assumptus, pro hominibus constituitur in his quae sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia pro peccatis; qui condolere possit iis, qui ignorant et errant, quoniam et ipse circundatus est infirmitate [Gen.,9,20-27].
Di maniera che non senza ragione S. Bonifacio martire disse: " Si papa suae et fraternae salutis negligens deprehenditur inutilis et rempissus in operibus suis, et insuper a bono taciturnus, quod magis officit sibi et omnibus, nihilominus innumerabiles populos catervatim secum ducit, primo mancipio gehennae cum ipso plagis multis in aeternum vapulaturus. Huius culpas istic redarguere praesumit mortalium nullus, quia cunctos ipse iudicaturus, a nemine est iudicandus, nisi deprehendatur a fide devius" [capitolo 6 in Decretum Gratiani, distinctio XL].
Non debbe alcuno sentir con tanta maraviglia che un pontefice con le sue sentenze e censure possa aver offeso o fatto torto ad alcuno, né reputar pertanto male il dire che se li convenga anco emendare il errori commessi; imperò che non solo li pontefici di santità, ma quelli ancora che si sono governati più con mezzi umani hanno confessato di aver potuto fallare, et offertisi alla retrazzione. Innocenzio IV, trattando della controversia tra lui e federico II imperatore, dice queste parole: " Quod si ecclesia eum in aliquo contra debitum laeserat, quod non credebat, parata erat corrigere ac in statim debitum reformare, et si diceret ipse quod in nullo contra iustitiam laeserat ecclesiam, vel quod nos eum contra iustitiam laesissemus, parati eramus vocare reges, praelatos et principes tam ecclesiasticos quam saeculares ad aliquem tutum locum, ubi per se vel per solemnes nuncios convenirent, eratque parata ecclesia de consilio concilii sibi satisfacere, si eum laesisset in aliquo, ac revocare sententiam, si quam contra ipsum iniuste tulisse etc." [cap. Ad Apostolicae, in Sextus Decretalium, lib. II, tit. XIV].
Essendo adonque stata fulminata una sentenza di scommunica contra il doge e senato, et interdetto tutto il suo Dominio, perché non voglia lasciar defraudare la libertà della Republica, perché non consenta che si abbattino li fondamenti sopra i quali è fabricata, perché non si lasci privare di quella potestà nell'amministrazione della Republica, datagli da Dio, necessaria per mantenere la quiete e tranquillità del suo Dominio, perché difenda la vita, onore e robba delli populi raccomandati al suo governo, et in somma perché ha fatto quello che dalla maestà Divina li viene commandato; e con tutto ciò che sia pronunciata essa scommunica senza cognizione della causa, senza citazione né osservazione di termini essenziali al giudicio et ordinati da Dio per legge naturale, con diverso affetto da quello che la Maestà sua comanda, senza la debita maturità e contra la dottrina di santi padri, sacri teologi e le istesse pontificie constituzioni, resta da considerare, avendo per chiara non solo la ingiustizia, ma ancora per notoria la nullità, qual sarebbe il debito del prencipe, e come doverebbe portarsi inanzi a Dio et alla sua santa Chiesa.
Alcuno al primo aspetto direbbe che fosse bene seguire il consiglio di S. Gregorio: "Sententia pastoris, sive iusta sive iniusta, timenda" ["11 q., I c. sententia" = Decretum Gratiani, causa XI, quaestio III, cap. I], e raccomandare la causa sua a Dio, con certezza che il sopportare in pazienza le censure ingiuste risulta in gran merito appresso la Divina maestà. Conseglio per un innocente, il qual non potesse mostrare la giustizia della sua causa, sarebbe ottimo; ma ad un prencipe, che tiene così manifesta e chiara ragione, non può essere il più pernicioso per sé, per lo stato suo e per il servizio di Dio, al quale sopra tutte le cose convien aver riguardo: è più obligato il prencipe che il privato ad esser timoroso di Dio, zelator della santa fede, riverente alli prelati che tengono il luogo di Cristo; ma è anco più obligato fuggire la ipocrisia e la superstizione, a conservare la sua dignità, a mantenere lo stato suo nelli esercizi della religione, e star avertito che alli populi suoi non avvenga quello che agl'Ebrei, li quali, per la longa assenza di Moisé, parendo loro esser privati del vero Dio, se ne fecero uno d'oro; cosa che se fosse ben considerata, il mondo non sarebbe nei mali termini che si ritrova. Non è così generalmente vero quel detto: "Sententia pastoris, sive iusta sive iniusta, timenda", come viene interpretato da alcuni dottori, che hanno introdotto e vorrebbero conservare nella Chiesa di Dio una potestà che in nome si dicesse ecclesiastica, ma in fatti temporale.
Vi è un altro canone di papa Gelasio I, anteriore a Gregorio e non meno celebre in dottrina e santità, dove dice: "Si iniusta est sententia, tanto curare eam non debet, quando apud Deum et eius ecclesiam neminem gravare debet iniqua sententia. Ita ergo et ea se non absolvi desideret, quae se nullatenus perspicit obligatum" ["II q., I c. cui illata" = ma in vero = quaestio III, cap. 46 cui est illata, causa XI del Decretum Gratiani].
Non sono contrari questi duoi santi padri [Gregorio e Gelasio], come le parole mostrano, ma la dottrina teologica concorda molto bene questa apparente contradizzione. Sono alcune sentenze ingiuste, perché con mal animo e perversa intenzione prononciate, se bene per giusta e legittima causa: queste niuno metterà in dubbio che non debbino esser temute e che non oblighino appresso Dio ugualmente come le giuste, se bene il pastore per l'animo cattivo offende la Maestà sua Divina; e dui queste s'intende: Sententia pastoris, sive iusta sive iniusta, timenda est". Altre hanno la causa ingiusta in verità, ma in apparenza giusta, poiché nelle cose umane spesso la verità è così nascosta che non è possibile scoprirla; onde un innocente alle volte resterà condannato senza colpa alcune del giudice. Questa sorte di sentenza non obliga appresso Dio, né si debbe temere inanzi la Mestà sua Divina, e in coscienza se bene è obligato il condennato, per non scandalizare il prossimo il quale ha la sentenzia per giusta, mostrare di temerla, et inanzi Dio vivere secondo che la sua innocenza ricerca inanzi al mondo che lo stima colpevole (se non può mostrare la verità) vivere in pazienza e raccomandare la sua causa a Dio. Ma se la sentenza è ingiusta, prononciata senza legitima causa, né in verità né in apparenza, non solo non si deve temere, ma conviene opporsele con tutto il potere. Questa dottrina è stabilita in undici canoni nel Decreto ["cap. qui iustus, cap. cui illata, cap. secundum catholicam, cap. coepisti, cap. temerarium, cap. quid obest, cap. quomodo., cap. illud plane, cap. non debet, causa XI, quaestio 3; cap. manet, causa 24, quaestio I; cap. si quis, causa 24, quaestio 3] et è così commune di tutti li teologi e canonisti, che niuno discorda: sì come anco convengono che non possa esser scommunicato alcuno, salvo che per peccato mortale, nel quale voglia perseverare anche doppo che dalla Chiesa sarà avvertito. Chi leggerà li suddetti canoni tutti, resterà tanto pienamente istrutto, che non dubitarà punto le censure inique non legare, non offendere né dover esser stimate; ma tanto più conoscerà questa verità, se leggerà gli autori donde questi canoni sono cavati nelli fonti stessi, perché le parole inanzi e dopo gli mostraranno la cosa più chiara.
La sentenza ingiusta in verità, ma in apparenza giusta, e che per non dar scandalo si debbe temere, non può nascere se non per errore nel fatto; per che, dato il fatto secondo la verità, il giudice che falla in discernere il giusto, eziandio per ignoranza, sempre è in colpa: laonde qualonque sentenzia sia ingiusta per manifesto errore in iure, è nulla e di nissun valore, e non obliga appresso Dio né appresso il mondo. In quello, per che il pontefice romano fulmina la presente scommunica, non cade errore alcuno nel fatto, la verità è chiara, le leggi del senato sono in iscritto, i delinquenti accusati e carcerati: non vi può essere innocenza alcuna che apparisca colpa. La questione sta in iure : s'ha da vedere se nelle leggi fatte e nelle carcerazioni decretate sia commesso peccato alcuno. Ché se il prencipe e senato non hanno peccato, anzi hanno obedito alli comandamenti di Dio in procurar di conservar le vite, l'onore, li beni delli suoi soggetti, come a longo in tutti questi capi si è dimostrato, non resta luogo per dubitare della giustizia della causa del senato, et in consehuenza della nullità della sentenza pontificia: e massime che le ragioni per le quali ciò si fa manifesto non sono di quelle che ricercano molta sottilità di mente per essere capite, ma con leggiera considerazione si fanno manifeste a tutti. Per il che, attesa l'innocenza di esso senato inanzi a Dio, e la chiarezza ancora di quella col mondo, non restando chi possa ricever scandalo, non resta parimente che in alcun modo egli tema questa scommunica, né in conscienza né in foro esteriore, se non come si teme la manifesta violenza usata a sinistro fine, essendo che violenza manifesta sarà l'usar la potestà data da Cristo di scommunicare, contro l'instituzioni di lui medesimo; e verso chi ha la potestà, et ingiustamente l'usa, solo rimedio è il ricorso al superiore, quando si possa; ma se non vi è superiore a chi ricorrere, non ha dato Dio altro rimedio al prencipe che viene offeso, che il far resistenza, opponendosi alla forza con la propria forza. Poiché viene da Dio, et è a fine della sua gloria, l'esser civile di ciascuna republica o regno; per il che non si può senza peccato et offesa di Dio permettere che sia levata et usurpata la propria libertà, che è l'esser civile di ciascun prencipato; né si deve dubitare che non sia con offesa di Dio grave la negligenza in difenderla, e gravissima se volontariamente si lasciarà usurpare. Per obedire adonque al commandamento di Dio conviene opporsi a chiunque vuole levar la potestà che Dio ha dato di far leggi e di difendere con la giustizia li sudditi offesi nella vita, nell'onore e nella robba. E sì come l'innocente, per errore in facto ingiustamente scommunicato, per non dar scandalo è obligato soportar con pazienza, così quando l'error è in iure e si scuopre l'ingiustizia manifesta, è obligato il principe, per non dar scandalo, a resistere et opporsi all'ingiuria. Con ciò sia che non ha dubbio alcuno che andando a notizia negli altri regni, dove sono in osservanza le leggi simili alle veneziane, e dove sono conformemente giudicati i delinquenti, che la Republica avesse per timor di censure indebite e nulle ceduto alla violenza o lasciato di essequire et essercitare la sua potestà naturale, ne riverebbono grandissimo e gravissimo scandalo; e li soggetti parimenti, e che vedessero e considerassero una tanta vanità di timore, ne riceverebbono perversa edificazione. E pertanto anco per questo capo è stato giusto e necessario che il prencipe facesse la debita resistenza.
Di modo che, essendo stata ingiusta e nulla la fulminazione del pontefice, segue in conseguenza che a necessaria difesa l'impedimento, che la Republica ha posto alla publicazione et essecuzione, sia stato giusto e legitimo.
Et i sudditi fedeli della Republica, e più di ogni altro gli ecclesiastici, doveranno quietare l'animo e le conscienze loro, attendendo al servizio divino, sotto la protezzione del prencipe, e creder fermamente che lo Spirito Santo è stato promesso e dato a tutti li fedeli, tra' quali lo stesso cristo è presente, quando sono congregati in nome suo; e che niuno può essere escluso dalla santa Chiesa catolica se prima non sarà ecluso per suoi demeriti dalla grazia divina; e che l'obedienza, la qual Dio commanda che si presti alli superiori ecclesiastici, non è una soggezione stolida o insensata, né la potestà de' prelati è un arbitrario giudicio, ma l'una e l'altra sono regolate dalla legge di Dio, il quale nel Deutoronomio ordinò l'obbedienza al sacerdote, non assoluta, ma prescritta secondo la legge divina: "Facies quecumque dixerint qui praesunt loco quem eligerit Dominus, et docuerint te iuxta legem eius" ["Deut. 17", 10 = nella Vulgata compare quodqcumque in luogo di quecumque]. Solo Dio è regola infallibile, a lui solo è lecito prefessar obedienza senza eccezione; chi la professa totale verso altri, non eccettuati li commandamenti di Dio, pecca; e chi si propone una volontà umana per unfallibile, commette gran bestemmia, dando a creatura le proprietà divine. A Dio si rende assoluta obbedienza; alli prelati ina limitata tra li termini della legge divina: e così usavano nella Chiesa antica. Abbiamo esempio negli Atti apostolici scritto da S. Luca, che li fideli sentivano il contrario di S. Pietro, e contrastavano con lui intorno alla vocazione delle genti; né furono però con fulmini di scommuniche atterriti e minacciati da lui e fatti tacere, ma sì bene con ragione et auttorità delle revelazioni divine e delle parole del Salvatore insegnati e persuasi ["Act. 11"]. La carità cristiana, dice S. Paolo, "patiens est, benigna est, non inflatur, non est ambitiosa" ["I Cor. 13", 4], non minaccia, non ruina, tratta tutti come fratelli. Non hanno da dominare li prelati, né da commandare con imperio, ma con essempi e correzioni di pietà e di carità. Udiamo S. Pietro:"Pascite qui in vobis est gregem Dei, providentes non coacte, sed spontanee secundum Deum, neque turpis lucri gratia, sed voluntarie, neque ut dominantes in cleris, sed forma facti gregis ex animo" ["I Petr. 5" , 2]. E S. Paulo: "Non quia dominamur fidei vestrae, sed adiutores sumus gaudii vestri" ["2 Cor. I", 23] E debbe la carità del prelato esser così pronta all'insegnare, come all'imparar da altri. Imperò che quando S. Pietro fallò in Antiochia, non ebbe rispetto S. Paulo di riprenderlo gravemente in presenza di tutti ["Gal 2"]. Né sia alcuno qui che dica: chi è come S. Paulo, che possa prender tanto ardire? Quasi che Paulo per la eccellenza sua avesse ardire di opporsia chi non fosse lecito resistere: anzi bisogna al contrario dire, e fermamente: chi è come Paulo, che se gli possi comparare in umiltà e cognizione di se stesso, e della riverenza debita al sommo pontefice? Dobbiamo ben credere certamente che S. Paulo, sì come in tutte le virtù ha ecceduto quanto sapessimo far noi, così nella riverenza debita al capo della Chiesa abbia servato quella che ogni minimo di noi è obligato servare. La Scrittura Divina dice: "Quaecunque scripta sunt, ad nostram doctrinam scripta sunt" ["Rom. 15",4]. Non averebbe lo Spirito Santo scritta questa istoria, se non fosse a nostro essempio, acciò fosse imitato da noi; e si vede che tutti li dottori, trattando come ciascuno debba opporsi al papa quando fa errore e indebitamente governa, ricorrono a questo essempio, e ci insegnano di fare come fece san Paolo verso san Pietro.
Non si spaventi adonque alcuno, attendendo la sola auttorità del prelato. Ricordisi che a Pietro non una chiave sola, ma due sono date ["Matth. 16", 19], e che se ambe non sono usate insieme, non segue l'effetto del ligare e del sciogliere, l'una della potestà, l'altra della scienzia e discrezione. Non ha dato Cristo una potestà da esser usata senza la debita cognizione e circonspezzione, ma sì bene con molto giudicio, il quale se manca, la potestà sola non sortisce effetto. Dicono li canonisti che la potestà di ligare e sciogliere s'intende chiave non errante, e lo dice espressamente S. Leone papa in un canone, parlando di questo privilegio dato a S. Pietro, derivato da lui nelli successori: "Manet ergo Petri privilegium, ubicunque ex ipsius fertur aequitate iudicium, nec nimia est, vel severitas, vel remissio, ubi nihil erat ligatum, vel solutum solutum, nisi quod beatus Petrus solverit, aut ligaverit" ["24 quaestio I cap. Manet" in decretum Gratiani: nel testo di Graziano al posto dell'ultimo vel leggesi nihil].
































"Una tradizione consolidata fa risalire all’anno 1233 l’origine dell’ORDINE DEI SERVI DI MARIA (SERVITI).
A dare importanza a quella data all’interno dell’Ordine contribuì il fatto che uno dei suoi massimi santi Filippo Benizi (+1285) era nato a Firenze proprio nel 1233.
Il più antico e autorevole documento narrativo sull’origine dell’Ordine, scritto probabilmente dal priore generale fra Pietro da Todi intorno al 1317-1318, ha per titolo Legenda de origine Ordinis fratrum Servorum Virginis Mariae (= Legenda sull’origine dell’Ordine dei Servi della Vergine Maria).
Da notare che il termine Legenda significa "testo da leggersi".
Al momento dell’origine dei Servi di Maria la presenza di movimenti religiosi a Firenze era intensa.
La vita cittadina, tuttavia, era contraddistinta da inquietudine sociale.
Un gruppo di sette laici (Bonfiglio, del quale si può ammirare una grande statua nella basilica vaticana) abbandonano famiglia, attività e professione per ritirarsi a vita comune in penitenza, povertà a preghiera.
Nella città divisa da lotte fratricide, essi intendono dare una testimonianza visibile di comunione fraterna.
Luogo del loro ritiro fu Cafaggio, dove attualmente sorge a Firenze la basilica della SS.ma Annunziata.
Successivamente, in cerca di maggiore solitudine, si ritirano nell’asperità del Monte Senario , a 800 metri s.l.m e distante da Firenze 18 chilometri.
Ben presto, tuttavia, lasciano il Monte e, grazie al crescente numero di persone che si uniscono a loro, fondano nuove comunità.
Sono infatti anteriori al 1256 i conventi di Siena, di Città di Castello e di Borgo Sansepolcro, oltre che di Firenze e di Monte Senario.
Per una disposizione già approvata dal Concilio Lateranense IV (1215), ma poi resa severamente operativa dal Concilio II di Lione (1274), l’Ordine rischia, insieme a molti altri nuovi Ordini religiosi mendicanti, la soppressione.
Lo salva Filippo Benizi, priore generale dal 1267 fino alla morte (1285), entrato nelle grazie del Papa anche per l’efficace azione di pace condotta nella città di Forlì, dove un giovane che inizialmente lo aveva combattuto, decise poi di seguirlo e di farsi Servo di Maria.
Fu Pellegrino Laziosi , o da Forlì, il santo dell’Ordine oggi maggiormente conosciuto e venerato.
Papa Benedetto XI, domenicano, l’11 febbraio 1304, con la bolla Dum levamus approvò la Regola e le Costituzioni del Servi di Maria.
A quella data, l’Ordine contava non meno di 250 frati, distribuiti in 27 conventi in Italia e in quattro conventi in Germania.
Ricorre quest’anno il settimo centenario (1304-2004) dell’approvazione pontificia dell’Ordine.
L’evento è stato ricordato con una importante Lettera a tutta la Famiglia dei Servi del priore generale fra Ángel M. Ruiz Garnica.
Il TRECENTO, nella vita dell’Ordine, fu contrassegnato dalla presenza di figure esemplari di frati, la cui vita è stata tramandata da importanti documenti storici.
Si possono ricordare: il beato Gioacchino da Siena (1306), il beato Bonaventura da Pistoia (1306), il beato Iacopo da Città della Pieve, martire nel 1310, per la giustizia; lo stesso anno morì l’ultimo dei sette Fondatori Alessio Falconieri; sono da ricordare ancora i beati Andrea da Sansepolcro, Ubaldo da Sansepolcro, il beato Francesco Patrizi (1328) e il beato Tommaso da Orvieto (1343).
Muoiono nel Trecento anche santa Giuliana Falconieri (1341) e san Pellegrino Laziosi (1345).
Tra i frati del Trecento da ricordare sono inoltre fra Pietro da Todi che fu priore generale dal 1314 al 1344 e figura controversa all’interno dell’Ordine, poi fra Andrea da Faenza, priore generale per 22 anni e insigne architetto al quale si deve la basilica di S. Maria dei Servi di Bologna.
Il QUATTROCENTO si apre nell’Ordine dei Servi di Maria con il capitolo generale di Ferrara (1404) che decide la ripresa morale e spirituale di Monte Senario.
Alla rinascita di Monte Senario si lega il sorgere nell’Ordine, nel 1430, della cosiddetta Congregazione dell’Osservanza che, senza separarsi giuridicamente dall’Ordine, ne rappresentò un movimento interno riformatore; fenomeno che si verificò anche in molti altri Ordini religiosi, nei quali portò alla separazione; non così per i Servi di Maria.
L’esperienza della Congregazione dell’Osservanza, infatti, per i Servi di Maria si concluse nel 1570.
Da ricordare, comunque, che nel 1493, i conventi cosiddetti dell’Osservanza erano 26 e, prima del 1570, erano una sessantina.
Nel 1424, con la bolla Apostolicae Sedis providentia, Martino V ratifica l’esistenza e l’organizzazione del Terz’Ordine, oggi chiamato Ordine secolare dei Servi di Maria.
Nel Quattrocento assumono importanza nell’Ordine come centri di studio i conventi della SS.ma Annunziata di Firenze e di S. Maria dei Servi di Bologna.
Figure insigni di Servi di Maria nel Quattrocento furono il priore generale Antonio Alabanti che, il 27 maggio 1487, ottenne da Innocenzo VIII il cosiddetto Mare magnum, cioè la bolla Apostolicae Sedis intuitus che conteneva tutti i privilegi pontifici concessi sino ad allora all’Ordine.
L’annalista dell’Ordine Arcangelo Giani attribuisce all’Alabanti l’idea che anche i Servi di Maria partecipassero all’evangelizzazione del Nuovo Mondo, appena scoperto da Cristoforo Colombo.
Tra le figure di santi frati del Quattrocento si ricordano i beati Benincasa da Montepulciano (1426), Girolamo da Sant’Angelo in Vado (1468), la beata Elisabetta Picenardi (1468), il beato Giacomo Filippo Bertoni (1483) e il beato Bonaventura da Forlì (1491).
Alla fine del Quattrocento, viene fondato un convento a Las Cuevas (Aragona), in Spagna; a quell’epoca i conventi dei Servi erano circa 170 e i frati 1200.
Il CINQUECENTO per i Servi di Maria è un secolo complesso e tormentato in quanto l’Ordine risente degli eventi che in questo secolo segnano la vita della Chiesa (lo scoppio della riforma luterana, 1517; il Concilio di Trento, 1545-1563; la Controriforma o riforma cattolica ecc.).
Quanto all’Ordine, mentre nel Quattrocento esso era stato retto da sei priori generali, nel periodo compreso tra la morte dell’Alabanti (1495) e quella di Angelo Maria Montorsoli (1600), ebbe ben venti priori generali, oltre la metà dei quali eletti dal papa.
Inoltre, ai primi del Cinquecento la Congregazione dell’Osservanza conobbe un serio declino.
Rientrerà pienamente nell’Ordine nel 1570.
Nel 1505 muore a Milano il beato Giovannangelo Porro, considerato tra i primi che iniziarono il catechismo ai fanciulli.
Trascorsi pochi anni dall’inizio della riforma luterana, cominciano ad essere soppressi i conventi dell’Ordine in Germania.
Nel 1533, il priore generale Girolamo Amidei da Lucca lancia un accorato appello a tutto l’Ordine per la ricostruzione di Monte Senario.
L’Ordine è presente al Concilio di Trento con i Servi di Maria Agostino Bonucci, priore generale dal 1542 al 1553 e Lorenzo Mazzocchio, priore generale dal 1554 al 1557.
Contestualmente al Concilio si procede alla revisione delle Costituzioni dell’Ordine: prima nel 1548 (capitolo generale di Budrio), poi nel 1556, nel 1569 e, infine, nel 1580, sotto il generalato di Giacomo Tavanti.
Sulla fine del secolo guidano l’Ordine due eminenti figure, fra Lelio Baglioni e fra Angelo Maria Montorsoli - da non confondere con lo zio, il Servo di Maria e grande scultore Giovannangelo Montorsoli (1507-1563).
A fra Lelio Baglioni, priore generale dal 1590 al 1597, si deve una riforma dell’Ordine attuata con una serie di disposizioni concrete e con l’avvio, nel 1593, della Congregazione eremitica di Monte Senario.
La celebre Lettera spirituale, scritta da fra Angelo Maria Montorsoli mentre viveva da eremita in una cella del convento della SS.ma Annunziata di Firenze, colpì tanto vivamente papa Clemente VIII che obbligò il Montorsoli a uscire dal suo reclusorio e lo impose all’Ordine come priore generale nel 1597.
Come ricordato, nel 1570 viene riunificata all’Ordine la Congregazione dell’Osservanza.
Alla fine del Cinquecento, i conventi dei Servi di Maria erano 240 e i frati oltre 1800.
Il SEICENTO è il secolo particolarmente ricordato nell’Ordine per la vicenda di fra Paolo Sarpi (1552-1623), il più celebre in assoluto dei frati Servi di Maria.
Frate esemplare, fu fortemente osteggiato dalla Curia romana prima come teologo della Serenissima repubblica di Venezia poi, per lungo tempo anche dopo la sua morte, per la sua Istoria del Concilio tridentino.
Nel 1613 ha inizio da Innsbruck, poi da tutti i conventi dell’Austria, la cosiddetta Osservanza Germanica, sostenuta da Anna Caterina Gonzaga e inizialmente guidata da tre eremiti venuti da Monte Senario.
L’Osservanza Germanica, come espressione particolare della vita dei frati Servi di Maria, cesserà nel 1908.
Con la costituzione Instaurandae regularis disciplinae del 1652, papa Innocenzo X, dopo aver condotto un rigoroso censimento degli Ordini religiosi, impone una loro ristrutturazione forzata.
Per i Servi di Maria ciò comporta la soppressione di 102 conventi su 261.
In realtà ne saranno soppressi 84.
Gli Annales dell’Ordine considerano questo evento una sciagura, ma non fu così.
In questo secolo si allarga la Famiglia dei Servi (monache e Terz’Ordine); si hanno i primi tentativi di espansione degli Eremiti di Monte Senario (1614-1623).
Ha inizio, nel 1618, la pubblicazione degli Annales dell’Ordine; rinascono gli studi e, a Roma, nel 1666, prende vita il Collegio Gandavense con la facoltà di conferire i gradi accademici in teologia.
Erede diretta del Collegio Gandavense sarà la Pontificia Facoltà Teologica Marianum.
Nel 1671 ha luogo la canonizzazione di Filippo Benizi celebrata nell’Ordine con particolare solennità; l’influsso di Monte Senario nella vita dell’Ordine continua anche negli diciotto anni di governo del venerabile fra Giulio Arrighetti (1622-1705), che fu priore generale dal 1682 al 1700.
Figure illustri dell’Ordine e della Famiglia dei Servi nel Seicento furono gli annalisti Arcangelo Giani (m.1623), Luigi M. Garbi (m.1722) e Placido Bonfrizieri (+1732); fra Cherubino Ranzani di Reggio Emilia (1675), autore di un “orologio eterno” programmato fino all’anno 2000; gli artisti Giovanni Angelo Lottini, Arsenio Mascagni, autore di affreschi nel castello e nel duomo di Salisburgo, il miniatore e pittore Giovanni Battista Stefaneschi; il “portinaio santo”, già colonnello nell’esercito francese, Pierre Paul Perrier Dupré.
Da ricordare anche le claustrali Maria Benedetta (Elisabetta) Rossi (+1648), fondatrice del monastero di S. Maria delle Grazie di Burano (Venezia) e Arcangela Biondini, fondatrice del monastero di Arco.
Il SETTECENTO, per la vita dell’Ordine, ha aspetti contrastanti.
Nella prima metà del secolo i Servi raggiungono il più elevato incremento numerico sfiorando le 3.000 unità.
Alla fine del secolo, però e nella prima decade dell’Ottocento, per le soppressioni imposte, l’Ordine assisterà alla chiusura di gran parte dei suoi conventi ed al disperdersi del maggior numero dei suoi frati.
La prima metà del Settecento è caratterizzata dal fitto succedersi di disposizioni e decreti a sostegno degli studi; conosce grande sviluppo il culto dei santi e beati dell’Ordine grazie anche alla canonizzazione, il 27 dicembre 1726, di San Pellegrino Laziosi e, nel 1737, di santa Giuliana Falconieri.
Nel 1769 esce il Methodus studii philosophici et theologici di fra Francesco Raimondo Adami.
Questo programma di studi consente di parlare di una vera e propria Ratio studiorum nell’Ordine.
Purtroppo dall’ultimo trentennio del Settecento fino all’indomani della presa di Roma (1870), l’Ordine conosce una serie di soppressioni di conventi che portano alla decimazione della sua presenza in Europa.
Cronologicamente si ebbero prima le soppressioni nei territori dell’impero austro-ungarico, quindi quelle di Napoleone Bonaparte e, infine, quelle operate nel Regno di Sardegna e da parte dello Stato unitario italiano.
Furono queste ultime a vanificare i tentativi di ripresa dell’Ordine compiuti dopo il 1815 (Congresso di Vienna).
Si aggiunga poi che, nel 1778-79, per disposizione del papa, fu soppressa la Congregazione eremitica di Monte Senario.
Figure notevoli del Settecento furono i frati Domenico M. Fabris e Sostegno M. Viani che parteciparono, a partire dal 1719, alla legazione in Cina guidata da Ambrogio Mezzabarba per la soluzione della questione dei riti cinesi.
Del Viani sono di grande interesse le Memorie della seconda Legazione apostolica spedita alla Cina dalla Santità di N.° Signore Papa Clemente XI l’anno di nostra salute 1719.
Figure singolari nel Settecento furono anche; il Servo di Maria brasiliano fra Uguccione (Antonio) M. Dias Quaresma che ottenne da Clemente XII speciali Costituzioni per un Terz’Ordine regolare dei Servi di Maria da fondare in Brasile; fra Filippo M. Serrati che tentò, tra il 1738 e il 1744, di fondare l’Ordine in Cina; Carlo Francesco M. Caselli, priore generale, consulente teologico nelle trattative concordatarie tra Napoleone e la Santa Sede, poi cardinale; fra Amadio M. Bertoncelli, rinomato predicatore, poi accusato di spionaggio e fatto fucilare da Napoleone nel 1809.
Da ricordare anche le claustrali Maria Luisa Masturzi, legata alla fondazione del monastero di Roma, oggi di Colle Fanella, e Maria Maddalena di Gesù (Piazza), fondatrice del monastero di Montecchio Emilia.
L’OTTOCENTO.
Per chi guardi a questo secolo nella storia dei Servi un primo dato appare chiaro: il 1815 segna l’avvio di una ripresa che, tuttavia, si conferma precaria.
La fine del secolo e i primi del Novecento registrano invece una rinascita concreta e duratura - anche se inizialmente lenta - protrattasi senza soluzione di continuità fino agli anni Sessanta del Novecento.
Al centro di questo ampio arco di tempo (1815-1964) si colloca la canonizzazione dei sette Santi Fondatori (1888).
Per un Ordine di scarse dimensioni come quello dei Servi, già duramente provato dalle soppressioni giuseppiniste e napoleoniche e presente per la maggior parte in Italia, le leggi di soppressione del Regno di Sardegna e del governo unitario italiano tra il 1848 e il 1867 rischiarono di essergli fatali.
Una lettera del priore generale fra Bonfiglio M. Mura a tutti i priori provinciali italiani, scritta nel 1863, nel richiamarsi all’urgenza di prendere qualche iniziativa, parla di “questione di vita e di morte”.
Peraltro, è proprio il Mura ad inviare in Inghilterra nel 1864 i frati Filippo M. Bosio e Agostino M. Morini per fondarvi l’Ordine.
Sarà lo stesso fra Agostino Morini, nel 1874, a fondare l’Ordine negli Stati Uniti d’America.
Nel frattempo sono riprese nell’Ordine le iniziative per arrivare alla canonizzazione dei sette Santi Fondatori.
Leone XIII, con decisione propria, nel 1884 stabilisce che i sette Fondatori possono essere canonizzati alla maniera di uno solo, per cui sono da considerarsi sufficienti quattro miracoli.
La canonizzazione ha luogo a Roma il 15 gennaio 1888.
È presente al rito anche fra Antonio M. Pucci, che morirà quattro anni più tardi e che nel 1962 sarà canonizzato.
L’evento della canonizzazione - che cadeva in un periodo in cui le leggi vessatorie nei confronti degli istituti religiosi in Italia conoscevano un graduale attenuarsi - costituisce per tutto l’Ordine una autentica iniezione di fiducia.
Se l’evento conclusivo della canonizzazione è legato al nome del priore generale Pier Francesco M. Testa (1882-1888), la strada verso di esso era stata preparata dai priori generali fra Giovanni Angelo Mondani (1868-1882) e, forse, dallo stesso fra Bonfiglio M. Mura, legato da salda e personale amicizia con Leone XIII.
Nell’Ottocento sorgono numerose Congregazioni religiose di suore Serve di Maria che chiedono di essere aggregate all’Ordine.
Mentre il Settecento fu il secolo del massimo incremento numerico dell’Ordine, il NOVECENTO è il secolo della sua massima dislocazione geografica che attiene a tutti e cinque i continenti.
Di questa internazionalizzazione dell’Ordine è conferma il seguente dato: dalle origini fino al 1913 i Servi di Maria ebbero un solo priore generale non italiano (fra Alboino M. Patscheider).
Dal 1913 ad oggi, di undici priori generali, sette sono non italiani: il francese Alexis Henri M. Lépicier (1913-1920), l’inglese Augustine M. Moore (1926-1932), gli statunitensi Joseph M Loftus (1965-1971) e Peregrine M. Graffius (1971-1977), il canadese Michel M. Sincerny (1977-1989), il belga Hubert M. Moons (1989-2001), il messicano Ángel M. Ruiz Garnica (2001-...).
Per i Servi di Maria il Novecento è il secolo dell’assunzione di un crescente impegno missionario e di quello di nuove fondazioni.
Per quanto attiene alle Missioni dei Servi, furono assunti dall’Ordine come territori missionari, nel 1913 lo Swaziland (Sud Africa); nel 1919 l’Acre (Brasile); nel 1937 l’Aysén (Cile) e nel 1938 lo Zululand (Sud Africa).
Per quanto attiene alle Fondazioni, nel 1912 si ebbe la prima fondazione dell’Ordine in Canada; nel 1921 in Argentina, nel 1935 nel Transvaal; nel 1939 in Uruguay; nel 1943 in Spagna; nel 1946 in Bolivia; nel 1947 in Irlanda; nel 1948 in Messico; nel 1951 in Australia; nel 1952 in Venezuela; nel 1963 in Colombia; nel 1964 in Germania; nel 1974 in India; nel 1984 in Mozambico; nel 1985 nelle Filippine; nel 19…in Uganda; nel 1993 in Albania; senza dire delle rifondazioni in Ungheria (Eger) e nella Repubblica Ceca.
Nel 1943 viene aperta a Londra da Joan Bartlett la Servite House che diverrà l’Istituto secolare Servitano, mentre nel 1959 nasce l’istituto secolare Regnum Mariae Nel 1987, per iniziativa del priore generale Michel M. Sincerny, nasce l’Unione Internazionale della Famiglia Servitana (UN.I.FA.S).
Dopo il Concilio ecumenico Vaticano II, l’Ordine procede alla revisione delle proprie Costituzioni: revisione iniziata con il Capitolo generale straordinario del 1968 (Majadahonda, Madrid) e conclusa con l’approvazione della Santa Sede avvenuta nel 1987.
Nel 1964 l’Ordine registra il maggior incremento numerico dopo la prima metà del Settecento, arrivando a sfiorare le 1700 unità.
Altri eventi di rilievo del Novecento sono la nascita della Pontificia Facoltà Teologica Marianum (1950), la beatificazione (1952) e la canonizzazione (1962) di fra Antonio M. Pucci; la creazione nel 1959 dell’Istituto Storico dell’Ordine; la nascita, dopo il Concilio Vaticano II, della Commissione internazionale permanente per la Liturgia (CLIOS); l’affermarsi delle riviste scientifiche Studi storici dell’Ordine dei Servi di Maria, fondata nel 1931 e Marianum, fondata nel 1939.
Da ricordare inoltre la canonizzazione di Clelia Barbieri (m.1870), fondatrice delle Minime dell’Addolorata, la beatificazione di Ferdinando Maria Baccilieri dell’Ordine secolare dei Servi di Maria (1997) e di sr. Maria Guadalupe Ricart Olmos (2001), claustrale spagnola, martire durante la guerra civile di Spagna.
Figure di rilievo del Novecento dei Servi furono fra Henri Alexis M. Lépicier (1863-1936), priore generale e cardinale; Gabriele M. Roschini (1900-1977), insigne mariologo; Gioachino M. Rossetto (1880-1935), primo missionario dei Servi in Africa; James M. Keane (1901-1975) per l’avvio dell’Ordine in Irlanda e in Australia, e i giovani fra Venanzio M. Quadri (1916-1937) e fra Gioacchino M. Stevan (1921-1949), dei quali è in corso la causa di beatificazione.
Una menzione particolare meritano i frati Giovanni M. Vannucci (+1984), mistico e autore di importanti scritti è il poeta fra David M. Turoldo (+ 1992)" [DAL SITO ON LINE DELL'ORDINE].