cultura barocca

"I SARACENI", TARDA ESPRESSIONE DELL'INVASIONE DEGLI ARABI DI VII-VIII SEC.
(I SACCHEGGI, MAIOLO ABATE DI CLUNY E LA "CROCIATA CRISTIANA" CONTRO IL FRASSINETO IN PROVENZA): VINTA LA GUERRA UN VESCOVO DI VENTIMIGLIA RICONSACRA IL TRAGITTO VENTIMIGLIA-AGRO DI SUSA
***I TERMINI SACRALI DI QUESTA RICONSACRAZIONE SEGNATI DALL'ABBAZIA DI S. PIETRO DI NOVALESA E DAL CENOBIO DI SANTA MARIA DELLA MOTA (MUTA) IN DOLCEACQUA***

Nell'889, eludendo le ultime resistenze dell'Impero romano d'Oriente cioè di Bisanzio, si formò nel FRASSINETO (antico "Golfo Sambracitano", nell'ampia insenatura oggi detta "Golfo di S.Tropez") un nucleo di pirati musulmani (detti SARACENI dal latino tardo SARACINUS a sua volta derivato dal greco SARAKENOS da collegarsi secondo l'opinione dominante all'arabo SARQIYIN plurale di SARQI = "ORIENTALE".
Per altri i SARAKENOI sarebbero stati una popolazione stanziata nel golfo di Aqaba nel Sinai meridionale.
La variante SARACINO è spiegabile con l'esito regolare siciliano i da e lunga ma può riflettere anche la pronuncia bizantina di eta ).
I SARACENI [per la cui storia -invero ancora abbastanza oscura (al pari, integriamo qui, della storia tutta dei rapporti tra Arabi e Cristiani nell'età intermedia) come scrive il Settia- resta comunque basilare per quanto un pò datato del Luppi] costituivano le ultime frange degli invasori ARABI di un oltre un secolo prima che, sulla scorta di una prosecuzione non da tutti condivisa dello JIHAD ("GUERRA SANTA SULLA VIA DI ALLAH") costituirono, intorno ad un munito castello, un piccolo ma forte dominio, rifornito per via mare, donde si diedero a pesanti scorrerie nella Provenza, in Liguria, nell'area pedemontana saccheggiarono zone anche molto lontane.
La leggenda parla di un saccheggio di Ventimiglia all'alba del X sec.: aree di Sanremo, Civezza e Bussana comprese (G.B.ALLEGRI, L'estrema sentinella, in "Il Lavoro" del 20-VI-1929).

La ricerca ipotizza uno sfondamento saraceno per le Alpi Marittime, sino a Sospello e poi per le valli del Roia, Bevera e Nervia (dopo una sosta a Tenda) una penetrazione sin a Ventimiglia. Ma si son supposte anche devastazioni dopo il 942: anche per via di mare (argomento su cui si nutrono però molti ragionevoli dubbi). Da tempo comunque esisteva per le coste liguri il pericolo dei predatori degli Stati arabo-berberi di Spagna ed Africa: del pericolo era ben consapevole Carlo Magno (EKKERARDO, Vita Karoli, p.17) e spesso come Missi Dominici, i vescovi furono preposti alla guida di milizie ad exubias sulle riviere del Mediterraneo: il Vescovo di Torino Claudio, nell'820, sarebbe intervenuto presso Ventimiglia contra Agarenos et Mauros (MIGNE, Patrologie: series latina, Paris, 1864, CVI, 837). Sussistono altresì dubbi se i Saraceni intervenissero con forti contingenti od operassero per bande limitate (tesi oggi prevalente del Poupardin): vedi B. LUPPI, I Saraceni in Provenza, in Liguria e nelle Alpi occidentali, Bordighera, 1973 (rist. anast. dell'edizione originale del 1952). Per quanto concerne l'agro intemelio, e le vie d'accesso al Piemonte, non si può comunque ignorare quanto scrissero gli antichi cronachisti e in particolare l'estensore della CRONACA di Novalesa anche per l'importanza dei dati ricavabili, fra molte fantasie, sugli spostamenti dei Saraceni per le vie del Roia e del Nervia e dei vari insediamenti (religiosi e non) connessi a questi siti e tragitti e tra cui ebbe un ruolo di eminenza il sito strategico del Convento di Dolceacqua.

Nel frammento 20,1 del IV libro della CRONACA DI NOVALESA si legge "Venne da Frassineto l'alluvione dei SARACENI, che abitavano su un monte circondato da selve estesissime, in inestricabili cunicoli sotterranei: devastarono la provincia di Arles, della Borgogna e della CIMMELLA (Cimiez) e sommersero nel sangue e nel fuoco anche tutta la Gallia Subalpina.
I monaci fuggirono dal cenobio novaliciense e portarono a Torino, nel tempio di S.Andrea, tutte le loro cose più preziose: fra queste furono trasferiti seimila libri".
Gian Carlo Alessio interpretò CIMMELLA come errore od allusione alla regione delle Cevennes (Cronaca di Novalesa a cura di G. C. ALESSIO, Torino, 1982, p. 237): si alludeva invece a CIMIEZ l'antica Cemenelum detta anche Cimmella (verso IX-X secc centro ancora importante qual nodo viario).

I Saraceni nei primi decenni del X sec. avevano razziato Marsiglia e Tolone ricche di campi coltivati a vigneti, ficheti ed oliveti: è improbabile che non abbiano intercettato Cemenelum saccheggiando la Provenza (fr. 19 del libro IV della Cronaca) poco prima di investire l'agro di Albintimilium.

Nei capi 17-19 del V lib. della Cronaca della Novalesa si allude, con molta confusione storica in verità, alla SCONFITTA SARACENA e si leggono due fondamentali allusioni: Il racconto della conquista del covo saraceno di La Garde-Freinet ed il riferimento all'impresa di Arduino il Glabro che, fra 940 e 945, riconquistò la valle di Susa sono i segnali della FORMIDABILE RIPRESA CRISTIANA cui, accanto ai grandi feudatari, partecipò in modo attivo la nobiltà intemelia.
Come scritto storia e mito si intrecciano facilmente nella narrazione di questa impresa cui, non del tutto propriamente, fu conferito il titolo di "crociata".
La spedizione avrebbe preso il via dal 972 sotto il comando di Guglielmo di Arles, fiancheggiato da altri feudatari tra cui Arduino Glabrione di Torino, Corrado di Ventimiglia, Mirone di Nizza, Arnolfo di Féjus, Raimondo di Grasse, Gibellino Grimaldi ed altri feudatari ancora: come puntualmente, con vasta bibliografia, annota Gianni De Moro nel suo saggio I Tebei in riviera: una dimensione cultuale nel ripopolamento del Ponente ligure postsaracenico? in "Rivista Ingauna Intemelia", N.S., 1969 - 1970 [edito 1995], p. 126 e note.
Dal racconto della Cronaca di Novalesa si evince però che per la non facile impresa contro gli Arabi un incentivo particolare fu conferito dalla cattura, ad opera di pirati musulamani, di MAIOLO potente Abate di Cluny, consigliere della casa imperiale degli Ottoni: è assodato che il Santo venne aggredito nel 983 e che la vittoria dei Cristiani si concluse nel 984-85.
Il Capo 18 del lib. IV confonde spesso vero e mitico: Arduino Glabrione, cosa forse non vera a detta di studi discordanti da quelli del De Moro, avrebbe partecipato all'impresa contro Frassineto ed un arabo Aimone, traditore dei suoi perchè privato del "bottino" di una donna latina, avrebbe guidato i Cristiani contro quel castello moresco di cui egli avrebbe conosciuti i segreti.
Aimone avrebbe quindi pronunciata la delazione a un Robaldo "conte di Provenza" che sarebbe riuscito a spronare verso l' impresa un esercito cristiano ormai stanco, con queste parole "O fratelli, combattete per le anime vostre poiché siete sulla terra dei Saraceni".
La VITTORIA avrebbe poi arriso ai suoi uomini ed egli sarebbe riuscito a gustare il sapore del trionfo.

Carlo Cipolla (I, 261, n.3) e l'Alessio (p. 279, n.2), contro G. Rossi che ricostruì da Guido Guerra (954) le genealogie dei feudatari intemeli, ravvisano in Robaldo il figlio di Guglielmo, conte di Ventimiglia vivente nel 954: le fantasie del cronista rivelano quanto i patrizi intemeli, di cui Robaldo fu simbolo, sian stati legati alle imprese contro i Saraceni.

Nel cap. 46 del V lib. della CRONACA redatta da un anonimo cronista benedettino del grande monastero susino di NOVALESA è scritto: "è noto a tutti che il monastero della Novalesa fu distrutto dai pagani e le sue mura furono rase al suolo. Ai tempi nostri i monaci che vi abitavano, dolendosi di quel danno, fanno venire il VESCOVO DI VENTIMIGLIA perché consacrasse le chiese distrutte, cioè di San Michele, della Santa Genitrice di Dio Maria, di San Salvatore e di Sant' Eldrado".

E' difficile dire chi fosse il prelato intemelio: l'Alessio rimanda al Savio che citò un Vescovo Tommaso (1060-1092) officiante in val Susa (Antichi Vescovi di Torino, Torino, 1888, 136) e del Cipolla che propendeva per il predecessore , l'Episcopo Bartolomeo (990-1026= Gams, Series,826).
Si potrebbe anche menzionare Brunengo, Vescovo citato in un Martirologio ventimigliese dell'XI sec.; il Brunengo secondo G.Rossi e G.B.Spotorno sarebbe da collegare a S.Maiolo per il ruolo, suo e dei CLUNIACENSI di cui era abate contro i Saraceni: la materia induce alla cautela ma i tempi, le figure di Santo e misconosciuto episcopo suggeriscono relazioni fra la lotta antimoresca, il ruolo dell'Ecclesia locale e la RICONSACRAZIONE CONTRO LA DESERTIFICAZIONE (sostanzialmente contro le PROFANAZIONI MUSULMANE ma in vero, seppur meno scopertamente, contro ogni presunta INTERFERENZA DIABOLICA E FUORVIANTE DALL'ORTODOSSIA CATTOLICA portata avanti da crescenti movimenti di NEOMANICHEI, CATARI, PRAVI HOMINES) di un tragitto interregionale (che rappresentò uno delle prime e più importanti espressioni di DIRETTRICE STORICA DEI PELLEGRINAGGI DI FEDE) svolto da un porporato ligure.
Non é casuale che, "sorpreso" dai Saraceni nel passar d'Italia alle Gallie, Maiolo di Cluny sia divenuto emblema d'una riscossa: per feudatari e clero la sua liberazione avrebbe simboleggiato la liberazione dei percorsi.

Novalesa e Ventimiglia non eran solo gangli viari; restando a lungo insicuri i tragitti provenzali per le bande di Mori sopravvissuti alla disfatta (o rifugiatisi in sicuri approdi insulari), la strada "nervina" fra Novalesa-Susa e Ventimiglia-Ponente ligustico fu la I ad esser praticabile per fornire del sale di Lerino il territorio pedemontano.
La sua riconsacrazione (e contestualmente la pubblica sanzione della sua fruibilità) annunziò alla Cristianità la speranza d'uscire dai tempi oscuri dando fiducia a borghesi ed imprenditori di trafficare fra Liguria e Cisalpina: soprattutto permise che il grande fenomeno dei PELLEGRINI DELLA FEDE potesse rivitalizzare contrade riarse dai saccheggi, un pellegrinaggio che peraltro aveva i suoi caposaldi nell'OSPEDALE DEL MONCENISIO a settentrione (per cui dall'Italia si poteva accedere verso il Nord-ovest d'Europa) e negli OSPEDALI DELL'ESTREMO PONENTE LIGURE punti di partenza ideali per viaggi, di terra e mare, verso ROMA come anche verso i nuovoi confini che il risveglio della cristianità avrebbe conquistato.
Il Vescovo per risalire a Susa aveva seguito il tragitto di val Nervia; forse per la stessa via il Vescovo torinese Claudio , nell'820, era intervenuto in area intemelia contra agarenos et Mauros, i predoni che anticiparono i Saraceni (Migne, Patrologie: series latina, Paris, 1864,CVI, 837).
Alludeva pure a tal via il capitolare con cui Lotario I (829) aveva stabilito che gli studenti di Ventimiglia (di Albenga, Vado ed Alba) si recassero nello Studio di Torino: per questa strada, resa sicura dai soldati di Claudio, i giovani del Ponente ligustico non avrebbero dovuto compiere giri viziosi onde raggiungere, dal nizzardo o dal genovesato, le Cattedre piemontesi (nella "Storia di Ventimiglia" a pp. 30-1, G. Rossi collegò, seguendo i Rerum Italicarum Scriptores del Muratori e la Bibliothecae mediae et infimae latinitatis del Fabricius, il Capitolare di Lotario I ad una Bolla di Eugenio II sull'istruzione in Diocesi e Pievi oltre che all'attività nella Cisalpina di un "Poeta Latino" di Ventimiglia).

In tal contesto acquistano rilievo gli ultimi spostamenti dei Saraceni che non si muovevano per mare, ma risalivano i fondovalle onde sparpagliarsi in gruppi e aggredire, più che le città difese, contadi e viandanti: suppose il Luppi (I Saraceni in Provenza...cit.) che fossero giunti nel ventimigliese per le valli del Roia e del Nervia, dopo esser risaliti nella Cispadana.
In base ai relitti toponomastici moreschi che corrono da Pedona , ove distrussero il cenobio benedettino, si può affermare che questi predoni abbiano seguito il tragitto monte-mare dall'oltregiogo: nella bassa val Nervia si incontrano reperti linguistici quali Cima Moro, monte Altomoro e, sulle alture tra Camporosso e Ventimiglia , il luogo Maure/ Maule, che han fatto pensare alla resistenza di caposaldi saraceni.




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Uno dei temi sommersi della storiografia ligure e pedemontana, talora intuito, ma in fondo non mai compiutamente svelto, se non procedendo a settori e compartimenti (come invero è difetto strutturale della ricerca nel Ponente italiano) è dato dal tema della DESERTIFICAZIONE, fisica e morale, di siffatte regioni dopo gli eventi drammatici di X e IX secolo.
La storiografia tradizionale ha sempre privilegiato l'analisi della crisi socio-economica di queste contrade e, senza sbagliare, l'ha connessa prioritariamente agli sfondamenti dei Saraceni cui, senza dubbio, era da addebitare un ruolo di primo piano nel degrado ambientale ed economico oltre che nella catastrofica interruzione dei rinati processi di comunicazione su antichi tragitti interregionali.
La Chiesa si trovò comunque nella necessità di affrontare un problema in qualche modo connesso al disordine morale e ideologico genericamente insorto e per certi aspetti consequenziale, per logia e cronologia, al disordine istituzionale ed ambientale attribuibile all'alluvione del Frassineto" come allora si soleva ribadire.
Le masse popolari [che peraltro erano state faticosamente consegnate e talora anche restituite, contro ritorni idolatrici e certe devianze ereticali, all'ortodossia cattolica] erano rimaste sconcertate difronte all'impotenza della Cristianità nei riguardi dell'espanzionismo arabo.
Alle sconfitte militari, e quindi alle profanazioni religiose, era così seguita (tra X e XI secolo) una crescente delusione nei confronti di tutto l'apparato, temporale e spirituale, su cui l'intero complesso del medioevo feudale reggeva il suo stesso esistere.

Per primo (diventando quasi una fonte cui attingere perpetuamente ma comunque riprendendo un'intuizione del Luppi) in tempi recenti L. Oliveri ha redatto un contributo che se non può essere esaustivo sull'argomento, risulta emblematico per le linee guida che suggerisce a tutti i ricercatori che si accostano a questo periodo storico ed ai suoi complessissimi problemi.
Semplicisticamente la sua dissertazione riguarda lo sviluppo in Piemonte (e consequenzialmente in Liguria) dei pravi homines: gli "uomini malvagi" (logicamente sotto l'interpretazione cattolico-cristiana) che, a fronte del momentaneo fallimento della cristianità e di rimpetto alle ampie terre effettivamente lasciate deserte dai Saraceni, avevano cercato salvezza, fisica e morale, in un complesso, variegato e spesso anche rozzo, di esperienze eterodosse, ereticali e in definitiva costantemente anticattoliche.
A seconda delle postazioni ideologiche la valutazione di questi movimenti sono state diverse: già escludendo i testi di taglio eminentemente storico-religioso, alcuni storici come il Formentini hanno parlato di vere e proprie esperienze rivoluzionarie, altri quali il Settia si sono soffermati maggiormente sull'aspetto collettivo di lotta contro la Chiesa ufficiale, altri ancora -con qualche cedimento alla parzialità filoromana- hanno marcatamente parlato di "apostasia" o di "empietà" come Riberi e Ristorto o come l'Oliveri.
La documentazione su queste forme di associazionismo anticattolico nella Cispadana ed in Liguria sono davvero scarne: tuttavia qualche cenno alla diffusione e alla importanza crescente (e proccupante per la Chiesa ufficiale) ci proviene recentemente da quanto scrive A. Vauchez nel suo lavoro Movimenti religiosi fuori dell'ortodossia in Storia dell'Italia religiosa, Baria, 1993, vol. I, pp. 311 - 313.
Un utilissimo contributo, appartenente ancora a questa ultima collana citata, è quello di P. Golinelli laddove redige l'utilissimo saggio intitolato Strutture organizzative e vita religiosa (p. 186 in particolare).
Dall'analisi di questi lavori e dallo studio di una spedizione armata del 1034, contro i manichei di Monforte Langhe e dell'Appennino, capeggiata da Olderico Manfredi e del fratelo Alrico, vescovo di Asti si evincono alcune interessanti osservazioni.
Gli sconfitti manichei che non vollero prestare alcuna abiura in Milano, dove furono tradotti, vennero condannati al rogo: in definitiva costoro (contro cui si sentì l'esigenza di un intervento tanto pesante nel contesto della ricristianizzazione di queste vaste terre) a fronte dell'istituzione, laica e religiosa, avevano la colpa principale di voler minare alle fondamenta la struttura feudale e teocratica nel nome di un palesato indebolimento dei concetti di proprietà e autorità.
Se come scrive il De Moro i pravi homines avevano in comune tale postazione ideologia con i manichei catari di Monforte (che esercitavano la comunione dei beni e rigettavano lo schematismo dogmatico della Chiesa ufficiale) una loro violenta persecuzione rientra nel plausibile come atteggiamento istituzionale per il reinserimento delle collettività nell'ecumene cristiana ortodossa.

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CLUNIACENSI

LA CITTA', LA FIORITURA DELL'ORDINE, IL SUO RUOLO GUIDA NELLA CRISTIANITA', L'INSORGERE DI CONTRASTI INTESTINI E LO "SCONTRO SPIRITUALE" TRA CLUNIACENSI E CISTERCENSI, L'INIZIO DELLA CRISI DI CLUNY, LA GRAVE DECADENZA
DATI ARCHITETTONICI: L'ABBAZIA IERI ED OGGI: LA STORIA DELLE 3 GRANDI CHIESE

CLUNY> Città della Francia centro-orientale, nella Borgogna nel dipartimento di Saone-et-Loire, presso Macon, con 4734 ab. (1982). Antico insediamento gallo-romano (Villa Cluniacus), nell'Alto Medioevo si connotò come sede di mercato del bestiame. Possesso della chiesa di Macon e poi dei duchi di Borgogna, alla fine del sec. IX passò al duca di Aquitania Guglielmo III, che attorno al 910 la donà all'abate di Baume Bernone, perché vi fondasse un monastero benedettino.
Attorno all'abbazia crebbe a poco a poco il villaggio, seguendone le vicende e le fortune fino alla sua distruzione agli inizi del sec. XIX.
Buona parte delle mura e delle torri medievali soprawivono tuttora, così come diversi edifici e abitazioni del tempo.

. La fondazione dell' ABBAZIA DI CLUNY rappresentò un momento decisivo nella storia del monachesimo di regola benedettina.
Riaffermando con forza l'autonomia dei monasteri da ogni autorità esterna (ecclesiastica e laica) e il legame di ciascuno di essi solo con il pontefice romano, gli abati di Cluny (dopo Bernone, 910-927, soprattutto Oddone 927-942; Maiolo, 948-994; Odilone, 994-1049) sostennero con sempre maggiore coerenza e consapevolezza la necessità di una svolta che sottraesse il monachesimo alla crescente ingerenza del potere politico, comitale e vescovile.
Essi ebbero perciò un ruolo di primo piano nel movimento di riforma ecclesiastica del sec. XI.
Inoltre essi delinearono, per la prima volta in modo organico, l'ipotesi di un collegamento funzionale delle singole cellule monastiche - che la regola di Benedetto voleva autonome ed autosufficienti - attorno ad un centro di coordinamento individuato nell'abbazia di Cluny.

Senza negare l'autonomia dei singoli centri, Cluny venne a rappresentare per molti un punto di riferimento ideale ed organizzativo; si costituì in tal modo l'ordo cluniacensis, orientato prevalentemente verso un'accentuazione del lavoro liturgico dei monaci, individuati dalla cultura del tempo come specialisti della preghiera (oratores, complementari ai laboratores e ai milites, che assicuravano la produzione di cibo e la difesa armata).
La tendenza alla centralizzazione dell'ordo si precisò ancora sotto l'abbaziato di Ugo (l049-1109) che segnò il culmine del prestigio cluniacense in Europa.
I monaci formatisi a Cluny diffusero il nuovo modello monastico, introducendolo in altre abbazie e collegandole alla casa madre; a cominciare dalle cosiddette cinque figlie (i più antichi monasteri affiliati ed evidenziati dal quadrangolo attivo della carta: Saint-Martin, La Charite, Souvigny, Sauxillanges, Leves), il modello cluniacense si allargò fino a comprendere, agli inizi del sec. XII, ca. 1400 abbazie, per oltre 10.000 monaci.

Dal sec. XI, tuttavia, il pesante ritualismo liturgico cluniacense fu fatto oggetto di critiche in seno al mondo benedettino: alcuni monasteri recuperarono istanze più strettamente ascetiche e persino eremitiche (p. es. Camaldoli o Vallombrosa); altri proposero un ritorno allo spirito della Regola per quanto concerneva il lavoro: fu questa la proposta nata soprattutto dall'ordine cistercense che dal sec. XII contese a C. la supremazia ideale sul mondo benedettino, contrapponendo la propria operosità ad un liturgismo che si proclamava sterile.

Le polemiche fra i due ordines, segno di una crisi di identità che affiorava nel monachesimo benedettino (non a caso, gli stessi secoli vedono sorgere ordini monastici come i francescani e i domenicani, espressione di esigenze nuove della società) sono il prodromo della decadenza di Cluny come polo di riferimento e di coordinamento del monachesimo europeo.

Già al tempo di Pietro il Venerabile [Pietro di Cluny] [abate di Cluny dal 1122 al 1156 i cui Scritti costituirono in qualche modo un contributo nuovo per le Crociate e la lotta all'Islam] la grandiosità degli apparati architettonici cluniacensi non riesce a celare una crisi via via più acuta.
Fra il sec. XIV e il XV si diffonderà l'uso di attribuire in commenda la carica di abate a personaggi estranei al monastero, che se ne serviranno come puro strumento di potere e di rendita (sperimentata già nel 1258 con la concessione di Cluny in commenda al re di Francia, tale prassi diventò in seguito normale).

Le guerre di religione del sec. XVI aggravarono la decadenza di Cluny; nel 1562 la biblioteca fu saccheggiata.
Nel 1621, l'ordo cluniacense si spezzò in due tronconi contrapposti: quello di stretta osservanza e quello di antica osservanza.
Nel 1790, la rivoluzione decretò la soppressione dell'ordo e dell'abbazia, a Cluny, commendata allora al cardinale Domenico de la Rochefoucauld, viveva in quella data appena una quarantina di monaci.
Fra il 1801 e 1811 gran parte degli edifici abbaziali furono distrutti.

L'ABBAZIA E LE CHIESE> Una prima chiesa, a unica navata e di dimensioni ridotte, fu fatta costruire dall'abate Bernone agli inizi del sec. X.
Al tempo dell'abate Maiolo si costruì un secondo edificio, iniziato verso il 955-960 e consacrato nel 981. Lungo 55 m, largo 7 e alto 14, esso contemplava sette grandi arcate fra la navata maggiore e le laterali; nei decenni successivi fu completato con una volta, un nartece, due torri quadrate.
A tali edifici erano collegati i locali di abitazione dei monaci e dei loro uomini e le strutture di servizio, dapprima semplici, poi sempre più estese e complesse.
Sotto l'abate Ugo (1088) si iniziò una ristrutturazione generale del complesso abbaziale, con la costruzione di una terza basilica, terminata nel 1135, concepita in termini di monumentale grandiosità: oltre 187 m di lunghezza e 35 di larghezza, cinque navate, due transetti, un deambulatorio, un coro, un'abside con cinque cappelle e sei torri campanarie; un'altezza di 30 m nella navata maggiore, 32 m nei transetti; la chiesa più grande della cristianità del tempo, simbolo del prestigio e del potere dell'ordo.
Squadre di artisti e di artigiani vi lavorarono per decenni, a dipingere muri, scolpire capitelli, tagliare vetri. La loro produzione è andata per la maggior parte perduta, ma non quella di molte altre chiese, in Francia e fuori, che trassero ispirazione da Cluny come modello artistico e costruttivo.
Delle prime due chiese (dette C. I e C. II) non rimane pressochè nulla; della terza (C. III) sono giunti fino a noi un braccio del transetto maggiore, il campanile ottagonale che lo sovrasta, una torre quadrata, due absidi minori.
Diversi capitelli del nartece sono conservati nel palazzo abbaziale assieme al timpano del portale maggiore e a 4000 volumi della biblioteca, per il resto dispersa in varie parti del mondo.
Altri capitelli sono nel Museo lapidario, sistemato nel granaio del sec. XIII.
Tutto il resto sono rifacimenti o aggiunte posteriori.







Nonostante la caduta del Fraxinetum i Saraceni continuarono a rappresentare un pericolo soprattutto per le zone costiere e marittime ma anche per il retroterra, dove non mancavano di spingersi: e tutto ciò su un ampio piano territoriale.
Il Gioffredo (coll.328-329; coll.369-370; coll. 379-380) contiua ad essere la fonte più ampia.
In particolare la Liguria continuò, seppur saltuariamente, a costituire un bersaglio privilegiato dagli Arabi di Spagna e dalla superstiti bande saracene: patì ulteriori scorrerie fino al 1015-1016 (anche in funzione di una superiorità navale cui Genova dovrà porre riparo con una certa sollecitudine).
L'Abbazia di Lerino, data anche la sua esposizione, fu un obbiettivo ripetutamente colpito dai mori: 1041-1042, 1047, giorno di Pentecoste del 1109.
Per disperdere queste bande organizzate si tentarono spedizioni, per qunato non particolarmente efficaci: sappiamo di quella guidata da Raimondo Berengario di Provenza, unitosi a foze della Repubblica marinara di Pisa, che si spinse sino all'isola di Maiorca nel 113-115 per colpire nel loro stesso covo le forze superstiti dei Saraceni.
L' impresa non dovette comunque produrre gli effetti sperati visto che il pontefice Onorio II emanò una sua Bolla (la Saracenorum tyrannide) in cui esortava l'erezione di una torre a difesa del complesso abbaziale di Lerino.
Queste considerazioni evidenziano come sia perdurato, dopo la rovina del Frassineto, il pericolo sui percorsi per le Spagne (e comunque lungo tutti i tragitti occidentali): soprattutto per questa ragione molti pellegrini e viandanti non disdegnava una qualche scorta armata.









Il termine (maschile) arabo JIHAD significa alla lettera "sforzo" [si tratta di un concetto sacrale ed antichissimo da non confondersi assolutamente, come talora avviene nel Mondo occidentale, con qualche aspetto particolare dell'INTIFADH o "INTIFADA" termine arabo, equivalente di "SOLLEVAZIONE", applicato nei casi in cui una COMUNITA' ISLAMICA ritenga di doversi SOLLEVARE contro qualche oppressore di altra religione o di altra conformazione politica, come attualmente capita (è scoppiata nel dicembre del 1987) nel caso dei PALESTINESI nei territori occupati dagli israeliani in Cisgiorania e nella striscia di Gaza].
Il JIHAD FI-SABILI-LLAH rappresenta in linea semantica "lo sforzo sulla via di Allah".
Per una atavica diffidenza interpretativa verso le scritture coraniche Nonostante il Mondo Occidentale ha prodotto un'interpretazione ampiamente riduttiva del concetto di jihad che non ha affatto valenza monolitica come si crede ma racchiude in sé una poliedricità di significati.
Quello universalmente noto (ed erroneamente ritenuto unico in Occidente) è che la jihad sia lo "sforzo militare", cui sono chiamati i credenti per difendere la loro Comunità.
Suonano nel Corano le parole di Allah : "Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete (II,216).
Quando la Comunità dei musuImani viene assalita, minacciata, oppressa o perseguitata, i credenti hanno il dovere di combattere esercitando il loro diritto-dovere alla legittima difesa. E' scritto ancora nel Corano: "coloro che si difendono quando sono vittime dell'ingiustizia" (XLII,39).
La guerra peraltro deve seguire precetti ben enunciati dal Libro di Allah e dalla Sunna dell'lnviato.
Allah sancisce: " Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, che Allah non ama coloro che eccedono". (II,190).
E'evidente quindi che la guerra ha, nell'essenza stessa del Corano, valenza solo difensiva e che deve essere condotta senza lasciarsi mai cedere a vergognosi eccessi e alla barbarie.
Per sua parte Maometto disse secondo il Corano: " Non uccidete i vecchi, i bambini, i neonati e le donne", ed ancora affermò: "I credenti sono i più umani anche negli scontri estremamente crudeli": inoltre egli proibì di utilizzare il fuoco (forse come retaggio morale contro il devastante uso bizantino del fuoco greco, allora giudicata "arma totale") quale strumento di annientamento contro le genti, inibì pure il taglio degli alberi e l'inquinamento delle acque.
E' inoltre da precisare che a differenza di quanto frequentemente accadeva nel Mondo Occidentale e feudale il raffinato diritto islamico già precisava le norme della dichiarazione di guerra, dell'ingiunzione della resa, del trattamento dei prigionieri e del loro eventuale riscatto.
La belligeranza , alle origini semantiche della jihad, risulta quindi interpretata quale condizione estrema da cassare il più presto possibile.
Dopo i versetti che intimano la "guerra contro oppressori e persecutori" nel Santo Corano dice Allah: "Combattete finché non vi sia più persecuzione e il cuIto sia [reso solo] a Allah. Se desistono non vi sia ostilità, a parte contro coloro che prevaricano." (II,193).
Quando la guerra termina con la conquista ad opera dei musuImani di un territorio abitato da genti appartenenti a una delle religioni del Libro ( cristiana o israelita), la condizione dei cittadini non musuImani in uno Stato retto dalla legge islamica è quello di dhimmy vale a dire di "protetti".
Costoro sono sottoposti al pagamento della jizya (od "imposta di protezione") ma hanno diritto di vivere indisturbati partecipando alla vita sociale e amministrativa dello stato.
La loro incolumità risulta garantita da un hadith dell' "lnviato di Allah" che disse: " Nel Giorno della Resurrezione, io stesso sarò nemico di chi ha dato fastidio ad un protetto".
La guerra tuttavia può risultare di due tipi, può essere parziale o generale.
Nel primo caso basterà che una parte dei credenti vi partecipi per assolvere l'obbligo di tutta la comunità.
Se invece si tratta di una guerra totale, tutti i credenti sono tenuti a parteciparvi, ognuno secondo le proprie condizioni e possibilità.
Quelli che partecipano alla lotta "sulla via di Allah" sono chiamati mujahidin, godono della massima considerazione della loro comunità nella vita terrena e, in quella ultraterrena, faranno parte di coloro che risulteranno poter stare più vicini al loro Signore.
Se Allah concede loro la vittoria, li colma di onore e bottino, se perdono la vita nella lotta, Egli perdonerà i loro peccati e li apcogLierà presso di Sè.
Allah afferma nel Corano: " Non considerare morti quelli che sono stati uccisi sul sentiero di Allah. Sono vivi invece e ben provvisti dal loro Signore, lieti di quello che Allah, per Sua grazia, concede." (III,169-170).
A sua volta Maometto così si espresse su tale argomento: "Chi combatte per la causa di Allah, e Allah bene conosce colui che lo fa solo per Lui, è paragonabile a chi digiuna e prega in continuazione. Allah garantisce il Paradiso al mujahid che incontra la morte. Se ritorna dal jihad sano e salvo, gli concede bottino e ricompensa.
Sulla base dell'interpretazione coranica quindi il jihad costituisce una lotta per il bene, per il trionfo della "Parola di Allah", per la sua diffusione tra i popoli del mondo.
E siffatta lotta può anche essere condotta in maniera non violenta.
Anzi, questa forma di "sforzo" per la causa di Allah è di sicuro quello che più risulta adeguato ai credenti.
La parola, gli scritti, gli esempi dati dai musulmani sono del resto altrettante sfide alla miscredenza all'ingiustizia.
Ogni comportamento che travalichi barbaramente quanto risulta obbligatorio e prescritto, nella pratica rituale, nell'attività lavorativa, nello studio, nell'impegno sociale, può venire considerato jihad ogni qualvolta lo sforzo prodotto tende al compiacimento di Allah.
Il jihad è quindi soprattutto una forma di avvicinamento ad Allah, può definirsi il segno dell'amore dellla creatura per il Creatore; non a caso affermò Maometto il Profeta: "Tutti coloro che moriranno senza aver partecipato al jihad o senza aver nutrito in cuor loro la speranza di parteciparvi, lasceranno la vita con una punta di ipocrisia".