cultura barocca
Informatizzazione a cura di B. Durante

Ludovico Antonio Muratori nacque a Vignola nel 1672.
Di famiglia modesta, si laureò in filosofia e diritto canonico.
Sotto la guida di B.
Bacchini, studiò la storia ecclesiastica venendo a contatto con la tradizione bollandista e maurina.
Nel 1695 si trasferì a Milano come prefetto della Biblioteca Ambrosiana; nello stesso anno fu ordinato sacerdote.
Nel 1700 tornò a Modena (dove morirà, nel 1750), nominato da Rinaldo I Este bibliotecaro e archivista di corte.
Nel 1708-1720 intervenne più volte in difesa degli Estensi in contrasto con la Santa Sede a proposito di Comacchio ("Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio", 1712; "Ragioni della Serenissima Casa d'Est"e, 1714).
Fu allora che cominciò a approfondire i suoi interessi di storico ("Delle antichità estensi", I parte 1717, II parte 1740).
Erudito di straordinaria capacità e tenacia, volse i suoi studi al medioevo che era stato fino a quel momento poco studiato e ritenuto indegno di attenzione.
Ricercò e adunò da solo le fonti della storia d'Italia a partire dal 500 fino al 1500, e le pubblicò nella monumentale raccolta "Scrittori di cose italiche" ("Rerum italicarum scriptores", 1723-1751) in 25 volumi.
A commento di questo materiale redasse le sue maggiori opere storiche: "Antichità italiche del medioevo" ("Antiquitates italicae medii aevi", 1743) sulle istituzioni e i costumi di quell'epoca, "Nuovo tesoro di antiche iscrizioni" ("Novus thasaurus veterum inscripstionum", 1738-1742), e in italiano gli "Annali d'Italia" (1744-1749) in 12 volumi, in cui ordinò e espose annalisticamente, con amore per la chiarezza e passione per la verità, la materia storica degli "Scrittori".


























Ludovico Antonio Muratori
"Antichità italiane
Dissertazioni"

Dei Servi e Liberti antichi"

"Ciò che fossero i Servi antichi, usati una volta dagli Ebrei, Greci e Romani, anzi da tutte ancora le barbare nazioni, ben lo sanno gli Eruditi, ma non già chi nulla studia i costumi de’ vecchi secoli. Resta tuttavia fra noi il nome di Servo e Servitore; ma gran divario passa fra i servi d’allora e quei d’oggidì. Un servo degli Antichi significava persona sottoposta al comando e dominio d’un padrone presso a poco come sono i cavalli e buoi; e in fatti si vendevano i servi in que’ tempi, come si usava anche de’ giumenti. E questo vuol dire che col nome di Servo s’intendeva allora chi da noi viene ora appellato Schiavo; se non che gli schiavi de’ tempi nostri, che si truovano in alcune piazze, marittime, portano catena: dal qual peso erano esenti i servi, o vogliam dire gli schiavi degli antichi tempi. Quando e come s’introducesse in Europa il nome di Schiavo in vece di Servo è tuttavia ignoto. Motivo abbiam di credere che gran copia di Schiavoni, appellati anticamente Sclavi, o perché fatta prigioniera di guerra perdesse, o perché spinta da qualche disgrazia fuori del suo paese vendesse la sua libertà, di modo che lo stesso divenne il dire schiavo, che servo. Sanno i Legisti e l’altra gente dotta che i servi nulla possedeano di proprio, nulla guadagnavano per sé: tutto era de’ lor padroni, che solamente permettevano loro qualche ritaglio de’ guadagni e de’ frutti della loro industria, chiamato Peculio. Che non poteano far testamento; che i lor figli e discendenti restavano anch’essi involti nella servitù, e suggetti come il padre al medesimo signore; che non erano, per la lor viltà e per altri riguardi, ammessi alla milizia; e simili altre notizie ch’io tralascio. Ora da che l’Italia si trovò trinciata nel secolo spezialmente suddetto in tante città libere, principi e signoretti, che l’uno non dipendeva dall’altro, troppa facilità provavano i servi per sottrarsi colla fuga ai padroni; troppo difficile era a questi il ricuperarli. Si aggiunse ancora il bisogno di gente per le tante guerre di que' tempi; e chi era ascritto alla milizia conseguiva la libertà. Finalmente s’ha contezza che ne’ tempi di Roma libera e sotto gl’Imperadori si contavano padroni, ciascun de’ quali avea in suo dominio non dirò più centinaia, ma più migliaia di servi. Chi più ne possedeva si riputava più ricco, come chi oggidì ha maggior copia di cavalli, di pecore e buoi. Fruttava tutta quella povera gente al suo signore.
Ma quali erano le arti e gli ufizj de’ servi? "[si chiede ancora Ludovico Antonio Muratori in questa sua Dissertazione]" Lorenzo Pignoria, uomo di gran grido fra i Letterati " [fu soprattutto rinomato antiquario ed archeologo di cui si può qui vedere un ritratto da una sua celebre opera (il quale tra i suoi reperti avrebbe raccolto opere poi disperse di autori come "Molossus", Foschi, Vallense, "Gratianus") ma che soprattutto compose un apprezzato repertorio sulle antiche divinità pagane]", ne compose un Trattato "[posseduto e spesso citato, con altri ancora (uno sulla "Tabula Aenea" ed uno sulla "Gran Madre degli Dei") anche da Angelico Aprosio] apposta col titolo "De Servis, et eorum apud veteres ministeriis" [col solito rigore scientifico ma senza pomposa acredine il Muratori tende a segnalare alcune inesattezze commesse dal Pignoria in merito alla distinzione nella classicità tra servi e liberti]".
Quivi ci fa egli vedere un lungo ed erudito catalogo di quanti impieghi una volta fossero capaci i servi, cominciando dai più bassi, salendo a tant’altri, che noi oggidì riputiamo molto cospicui. Chi non dimeno attentamente leggerà quel libro, avrà occasione di maravigliarsi come quel dotto uomo sì stranamente confondesse le cose. Sapeva egli (e chi nol sa dei Letterati?) la differenza che passa fra i Servi e i Liberti; e pure in essa sua opera non badò ad attribuire ai servi non pochi ufizj ch’erano proprj de’ liberti; e dopo aver mostrata compassionevole la condizion dei servi, li solleva poscia ad una invidiabile, per la qualità degli onorevoli lor ministeri. Ora qui convien osservare un uso degli antichi Romani ben diverso da quei de’ nostri tempi. Sono i servi o servitori d’oggidì gente libera che spontaneamente presta servigio ad altrui; che può ritirarsene, e può essere cacciata, godendo tutti i popoli d’Italia e le minime persone al pari de’ grandi il privilegio della libertà. Ma Roma antica si divideva in due popolazioni l’una di servi, o vogliam dire schiavi, privi della libertà, il numero de’ quali era prodigioso in quella regina delle città; e l’altra di gente libera, divisa in molte tribù; che comprendeva immensa copia di artisti, mercatanti, ed altri anche poveri, anche rustici uomini, ai quali tutti competeva il nome di cittadini Romani, ed aveano anch’essi una volta la lor parte nel governo della repubblica. Sommamente si stimava anche dai poveri la libertà e cittadinanza Romana per li privilegj ed utili che seco portava. E non è già che fosse disdetto ad essa povera gente il passare al servigio de’ benestanti e de’ grandi; ma volendo ciò fare, perdeva la libertà, e cessava d’essere cittadino Romano, perché erano incompatibili colla servitù que’ due pregi: di modo che propriamente i ricchi non erano serviti da gente ingenua e libera, ma solamente da servj, e, siccome diremo, anche dai liberti, i quali erano una specie di persone fra i servi e gl’ingenui nati da padre libero.
Notissima cosa è che i servi colla manomissione acquistavano la libertà, o comperandola con cedere il lor peculio ai padroni, o conseguendola pel merito d’aver ben servito per un tempo discreto, o per le raccomandazioni degli amici, o pel testamento de’ lor padroni, o per altre cagioni ed occorrenze. Allora prendevano il nome di Liberti, diventavano gente libera e cittadini Romani, poteano far testamento, essere aggregati alle tribù, e godevano altri vantaggi. Chi prima li teneva in suo dominio, e si chiamava Dominus, o pure Herus, da lì innanzi in riguardo a quei liberti veniva appellato Patronus, voce da noi mutata in Padrone, divenendo egli come padre, e non più signore del liberto. Riteneva perciò il padrone sopra quel liberto il giuspatronato, cioè non dominio, ma diritto di succedergli ab intestato, se mancavano figli; e se il liberto avesse peccato d’ingratitudine verso chi gli aveva compartita la libertà, tornava per gastigo ad essere servo come prima, per tacere altre cose. mente altro costume fu de’ Romani, che bene spesso i liberti continuavano a servire nelle case de’ loro patroni, o perché tornava loro il conto, o perché non conseguivano un’intera libertà, e si obbligavano per patto a qualche impiego nella famiglia d’esso patrono. E questi impieghi non erano più bassi e vili de’ servi, ma bensì decorosi, quali convenivano a chi godeva il pregio della cittadinanza Romana: di maniera che siccome oggidì la famiglia de’ gran signori si divide in servitù bassa, come palafrenieri, cuochi, carrozzieri, cantinieri e simili; e negli uomini di cappa nera, come braccieri, segretarj, coppieri ed altri: così gli ufizj bassi anticamente appartenevano ai servi, e gli onorevoli ai liberti. E tanto più questo si praticava, perché i liberti in certa maniera entravano nella famiglia propria de’ lor patroni. Imponevasi dal signore un solo nome al servo. Qualora poi costui veniva manomesso, acquistava il prenome e nome del medesimo signore, come sarebbe il dire a’ nostri tempi, che gli era conferito il nome e cognome di chi prima il signoreggiava. Bella iscrizione si legge nella mia Raccolta, pag. MDXXXVI, num. 6, posta ad un fanciullo appellato Festo, che caduto in un pozzo perdè la vita, QVI SI VIXISSET, DOMINI IAM NOMINA FERRET. Se il signore fosse stato, per esempio, Marco Labirio Ferace, il fanciullo manomesso si sarebbe da lì innanzi nominato Marco Labirio, liberto di Marco, Festo, ritenendo il nome del tempo servile, cioè Festo, nell’ultimo luogo. Talmente era considerabile questo essere aggregato alla famiglia, che patroni assaissimi solevano far comune il proprio sepolcro ai loro liberti e liberte, come consta dai marmi antichi: privilegio di cui non erano partecipi i servi. Molta industria perciò usavano allora essi miseri servi per abilitarsi in qualche professione a misura del loro talento. I servi stessi faceano imparar lettere ai lor figli, e di questo si prendeano cura anche i lor padroni. Con ciò si meritavano essi di uscire dalla vile lor greggia e condizione, per servire come liberti in ufizj di onore e di lucro.
Noi non sappiamo se con patti e con quai patti una volta si manomettessero que’ servi che poi continuavano come liberti a servire in casa de’ loro patroni, con essere alzati a più onorati impieghi. Sappiamo bensì dal tit. de operis Libertorum, dall’altro de bonis Libertorum ne’ Digesti, che moltissimi acquistavano la libertà con obbligarsi di fare ai patroni dei regali, o delle fatture se erano artefici, Operas, vel Donum. Questo si praticava verisimilmente dai soli mercatanti, ed altri signori dati all’interesse, ma non già dalle nobili case. Per conto di queste, le antiche iscrizioni ci fanno vedere che moltissimi furono coloro che anche dopo la conseguita libertà seguitavano a convivere e servire in quelle medesime case non più come servi, ma come liberti, perché probabilmente tornava il conto agli uni e agli altri. I patroni si servivano di persone loro confidenti e già innestate nella propria famiglia; e i liberti cresciuti di onore e di guadagno poteano accumulare roba per sé e per li figli. Non ho io potuto scoprire se i Romani tenessero servi mercenarj come oggidì: o di veri servi, o di liberti allora si servivano. Ciò posto, maraviglia è che il Pignoria, in trattando degli ufizj de’ servi antichi, imbrogliasse tanto le carte, senza distinguere i servi dai liberti, e con attribuir molti impieghi ai primi, che pure erano riserbati agli ultimi. E più da stupire è, citarsi da lui marmi che parlano di liberti, e pure sono presi da esso, come se parlassero di servi. Sulle prime viene egli abbassando la nobil professione de’ Medici alla vil condizione de’ servi. E con quale autorità? Colle parole di Paolo Orosio, che nel lib. VII, cap. 3 così scrive: Adeo dira Romanos fames sequuta est, ut Caesar Lanistarum familias, omnesque peregrinos, servorum quoque maximas copias, exceptis Medicis et Praeceptoribus, trudi urbe praeceperit. Ma questa eccezione si dee riferire all’omnes peregrinos, a tutti i forestieri, e non già ai servi, de’ quali tuttavia dovette restare gran copia nelle case de’ nobili. Aggiugne il Pignoria la seguente iscrizione:
CHRESTAE CONSERVAE ET CONIVGI
CELADVS ANTINOVS DRVSI
MEDICVS CHIRVRG.
Non Antinous, ma bensì Antoniae, cioè della moglie del principe Druso, s’ha ivi da scrivere. Ora questo Celado fu liberto e non servo della Casa Augusta, come apparisce da Giuseppe Ebreo, libro XXIII, cap. 14, e da un’iscrizione rapportata dal Boissardo, e dal Grutero pag. MXXXIV, I, che fu posta
OCTAVIAE P. F. CATVLLIAE
CELADI DIVI AVGVSTI L.
VXORI
Riferisce il medesimo Pignoria un’altra iscrizione di TI. LYRIVS (probabilmente il marmo avrà TI. IVLIVS) TI. AVG. L. SER. CELADIANVS. Costui era stato prima servo di Celado, e gli fu data la libertà da Tiberio Augusto. Ancor questo fa conoscere Celado liberto, perché i servi non poteano aver dei servi. Né dia fastidio che Celado e Chresta sua moglie portano un solo nome, come usavano i servi; perché troppi esempli si truovano di liberti che ne’ tempi de’ primi Cesari si servivano del solo lor nome servile, con cui comunemente erano chiamati nelle pubbliche iscrizioni, come consta dalla Classe XII e XXI della mia Raccolta. Quel sì che può parere strano, si è che Chresta moglie di Celado medico vien detta conserva, il che ci fa vedere non men lui, che la moglie servi. Ma è da osservare che ne’ tempi d’essi primi imperadori, que’ liberti che servivano nella casa e famiglia Augusta, erano anche appellati servi, o ciò facessero per adulazione, o pure perché servendo a chi era signore di tutti, rispetto a sì fatti padroni, tenevano sé stessi per servi. Comunque ciò fosse, certo è che que’ medesimi portanti il nome di servo non lasciavano d’aver già conseguita la libertà, e d’essere liberti. Per tralasciar altri esempi, nella mia Raccolta alla pagina DCCCXCII si legge:
DAPHNVS CAESARIS N.
SER. DISP. FISCI
CASTRENSIS
VERNIS SVIS F.
Se questo Dafno avea de’ servi (Verna significa servo nato in casa del signore), adunque era liberto di condizione; e contuttociò viene appellato servo del nostro Cesare. Dovea anche avere il prenome e nome della famiglia dell’Imperadore che l’avea manomesso, benché non usi che il solo nome a lui dato nella servitù. Sicché per conto de’ Medici non sussiste che i medesimi fossero della feccia del popolo, cioè servi; e l’onorata lor condizione si può ricavare da varie altre memorie dell’antichità. A me solo basterà dire, avere l’antico giurisconsulto Juliano nella l. Patronus, ff. de operis Libertorum scritto così: Plerumque Medici servos ejusdem artis libertos producunt, quorum operis perpetuo uti non aliter possunt, quam ut eas locent, ec. Se i Medici tenevano dei servi, adunque tali non erano essi. E se insegnavano ai proprj servi l’arte loro, conveniva poi conceder ad essi la libertà, affinché la potessero esercitare
. Andando innanzi, noi troviamo che il Pignoria attribuisce ai servi i più onorati e principali impieghi della Casa e famiglia Augusta, quando è assai noto che questi non si concedevano se non ai liberti, i quali, come consta dalla vita di alcuni de’ primi Imperadori, o corti di mente o depravati dai vizj, divenivano gli arbitri della corte, ed erano riveriti e temuti quasi al pari del principe dal popolo e dalla nobiltà Romana. Pallante, Narciso, Epaphrodito sono celebri per questo nella Storia Romana. Quali dunque oggidì sono tanti onorati cortigiani che servono alla lor camera, anticamera, mensa, e ad altre funzioni di confidenza presso i principi e le principesse, tali erano allora i liberti. Sapeva pur anche leggere il Pignoria, e intendere le antiche iscrizioni, anzi le recava in pruova delle sue osservazioni; ma quelle stesse parlano di liberti, e non già di servi. Era nella corte Imperatoria l’ufizio di chi invitava i Senatori, ed altri nobili ai conviti del principe. Ecco l’iscrizione riferita da lui stesso:
AGATHOPVS
AVGG. LIB.
INVITATOR
Costui è chiamato liberto degli Augusti, ed era a lui appoggiato quel onorevole impiego. Godevano anche varj cortigiani un ufizio di somma confidenza, cioè quello di far il saggio alla mensa degli Augusti, ed aveano un Procuratore sopra di loro. Di costoro parla il seguente marmo rapportato dal medesimo Pignoria:
TI. CLAVDIO. AVG. LIB.
ZOSIMO PROCVRAT
PRAEGVSTATORVM
Ognun vede che ancor qui ci comparisce davanti un liberto. V’era chi avea cura de’ vasi d’oro che servivano per la mensa degli Augusti, siccome fa vedere esso Pignoria con quest’altra iscrizione:
GAMVS AVG. L. PRAEP. AVRI
ESCARI. FECIT SIBI ET.
FLAVIAE TYCHE CONIVGI
Chi non vede che tale incumbenza nella corte dell’Imperadore apparteneva ad un liberto, e non già ad un vile servo? Ed ancorché fosse stato manomesso, pure, siccome fu di sopra avvertito, usa il solo nome servile: il che ripeto, affinché trovandosi simili nomi soli nelle antiche memorie de’ primi Augusti, non si corra tosto a spacciarli per servi. E che questo Gamo non fosse servo, ma liberto, si può anche raccogliere dalla moglie, che è Flavia Nice. Costei dovea essere stata dianzi serva di Vespasiano Augusto, o di uno de’ suoi figliuoli. Nel ricevere il dono della libertà, fu inserita nella famiglia Flavia propria di essi Augusti. E notisi che a distinguere i liberti dai servi giova l’osservare le mogli; perciocché era vietato ai servi lo sposar donne libere, nel ruolo delle quali erano parimente comprese le liberte. Se vogliam credere al Pignoria, nella corte Imperiale vi era un maestro de’ servi, e lo pruova colla seguente iscrizione:
TI. CLAVDIO. AVG. LIB.
HERMETI
M. PVERORVM DOM. AVGVST.
Ne aggiugne un’altra:
FLAVI STEPHANI
PAEDAG. PVEROR.
IMP. TITI
CAESARIS
Ma questi maestri o governatori non erano già servi, ma bensì liberti, come chiaramente ivi si legge. Oltre di che parlandosi de’ fanciulli della corte Imperatoria, s’ha con tal nome ad intendere i paggi del principe. Nella mia Raccolta, pag. DCCCLXXXIV, 4, si truova un Publio Aelio Epaphrodito liberto di Augusto: Magister Jatrolipta puerorum eminentium Caesaris nostri. Certamente un pedagogo che conducesse a spasso gl’innumerabili servi della corte Augusta, non è da immaginare. E que’ paggi, siccome adoperati al servigio immediato degli Augusti, si dee credere che fossero liberti e non servi. Secondo il Pignoria entravano anche nel ruolo de’ servi i Bibliotecarj della corte Augusta. Si truovano, dic’egli, ne’ marmi antichi C. IVLIVS C. L. PHRONIMUS A. BIBLIOTHECA GRAECA. C. IVLIVS. FALYX. A. BIBLIOTHECA GRAECA. PALAT. TI. CLAVDIVS. AVG. L. HYMENAEVS. MEDICVS. A. BIBLIOTHECIS. L. VIBIVS. AVG. SER. PAMPHILVS. SCRIBA. LIB. ET. A. BIBLIOTHECA. LATINA. APOLLINIS. Ma i prenomi e nomi di questi Bibliotecarj, cioè l’essere ascritti alla famiglia Giulia e Claudia, li fa conoscere per liberti, e non mai per semplici e vili servi. Quello stesso Lucio Vibio Panfilo, benché appellato servo di Augusto, non lasciava d’essere liberto, come ne fan fede i suoi nomi.
Di questo passo va il Pignoria proseguendo il catalogo degli ufizj e ministerj degli antichi servi, confondendo insieme quei ch’erano proprj d’essi con gli altri che competevano ai soli liberti. Ma i liberti, e massimamente quei della corte Imperiale, calcavano posti di grande onore, non solamente in essa corte, ma anche nelle provincie, come apparisce da tutti i raccoglitori degli antichi marmi. E sebbene alcuni di essi si truovano chiamati servi degli Augusti, abbastanza si conosce che per qualche ragione particolare portavano questo nome, e non già perché fossero della vil condizione de’ servi volgari. Forse anche pochi erano i liberti appellati servi, all’osservare che per la maggior parte gli altri si nominano solamente liberti degli Augusti, e non già servi. E se il Pignoria desiderava che ci fosse alcuno che prendesse poi a trattare de’ ministerj de’ liberti, com’egli avea fatto di quei de’ servi, dovea procedere con esattezza maggiore, e non entrare nella giurisdizion de’ liberti stessi. Ma non più de’ tempi Romani.
Vegniamo ai secoli barbarici dell’Italia. Siccome già accennai, l’uso de’ servi era familiare antichissimamente tanto in Occidente che in Oriente. Gli stessi popoli settentrionali conquistatori dell’Italia non ebbero bisogno d’impararlo qui: lo praticavano molto prima anch’essi; e però qua venuti continuarono lo stesso costume. Erano i servi o persone prese in guerra, forzate a servire il popolo vincitore, e di questi tali principalmente si formava la gran turba d’essi al tempo de’ Romani. Altri per qualche delitto o a cagion de’ debiti incorrevano nella schiavitù, ed altri infine per cagione della povertà vendevano la loro libertà, e quella ancora de’ figli. Veramente Diocleziano e Massimiano Augusti vietarono il far dei servi solamente a cagion de’ debiti contratti, come consta dalla l. ob aes alienum. Cod. Justin. ut actiones. Ma sotto i Re Longobardi e Franchi né più né meno furono soggetti i debitori impotenti a pagare i debiti colla perdita della libertà. Fra le formole antiche, da me date alla luce per illustrare la legge I di Lottario I Augusto, si legge: Pro Martino meo servo, qui mihi fuit traditus per crimen, vel per debitum. E nella legge LXXXVII del medesimo Lottario sono mentovati liberi homines qui propter aliquod crimen, aut debitum, in servitio alterius se subdunt. Quanto ai misfatti, ho prodotto io un diploma di Guaimario I principe di Salerno, con cui egli nell’anno 889 dona alla chiesa di San Massimo servum Sacri nostri Palatii Lupum filium Ragimperti cum uxore sua et filiis, filiabus, nugris ac nepotibus suis, cum omnibus rebus substantiae illorum, ec. Il delitto da lui contratto era questo: Pro quo ipse Lupus cum Saracenis ambulavit, et pactuetes fuit, quando ipse storus (cioè l’armata navale d’essi Infedeli) super hanc ipsam civitatem resedit. Aveano i suddetti imperadori Diocleziano e Massimiano proibito il vendere i figliuoli colla l. Liberos, Cod. Justin. de Patribus qui filios, ec. Ma Costantino Magno con altra legge rimise in uso questo crudele mercato, e sembra ch’esso durasse fino al buono imperadore Lodovico, che lo levò colla legge V fra le sue. Ut chartulae, dic’egli, obligationis de singulis hominibus factae, qui se aut uxores eorum, aut filios, vel filias in servitio tradiderint, ubi inventae fuerint, frangantur; et sint liberi, sicut primitus fuerint. Lottario I suo successore nella legge I non confermò affatto quell’editto, perciocché dice: Liber homo se ipsum ad servitium implicare pro aliquibus causis sinitur; ma per conto della moglie e de’ figli proibisce ed annulla la vendita d’essi. Tuttavia tempi calamitosi talvolta avvenivano, e massimamente occorrendo carestie, che la povera gente, per non potere di meno, si vendeva ai ricchi. Gaufrido Alalaterra nel libro I, cap. 27 della Storia Normanica, descrivendo la lagrimevol fame che nell’anno 1058 afflisse la Calabria, scrive che i padri suos liberos ex ingenuitate procreatos fili pretio in servitutem venumdabant.
Allorché i Romani ed altri popoli della terra giacevano nelle tenebre della Gentilità, tale autorità e balia godevano sopra i loro servi, che non solamente era permesso di batterli, ma impunemente poteano anche levar loro la vita secondo il lor capriccio. Ho veduto un Giurisconsulto che si sforza di giustificare sì barbaro costume, contrario ai dettami della stessa natura. Tenevano coloro come bestie i loro schiavi; e tuttoché gli stimassero più de’ buoi e delle pecore, perché ne ricavavano maggior servigio, pure un egual diritto di vita e di morte era loro conceduto sopra essi servi, che sopra il bue e il cavallo. Mise poi freno Antonino Pio Augusto a questo eccessivo poter de’ padroni, come s’ha da Caio nella l. I, ff. de his qui sui vel alieni juris sunt, dove son queste parole: Hoc tempore nullis hominibus, qui sub Imperio Romano sunt, licet supra modum et sine caussa legibus cognita in servos suos saevire. Nam ex Constitutione Divi Antonini, qui sine caussa servum suum occiderit, non minus puniri jubetur, quam qui alienum servum occiderit. Più efficacemente ancora a questa crudeltà rimediò il primo Imperadore Cristiano, cioè Costantino M., il quale in una legge riferita nel lib. IX, tit. 12 del Codice Teodosiano dichiarò reo di omicidio chiunque volontariamente uccidesse un suo servo. Fra le leggi degli Ateniesi rapportate da Samuele Petit nel suo Commentario, v’ha questa: Servis jus esto dominos iniquos adigere, ut se vendant humanioribus. Anche nelle leggi Romane del Codice di Giustiniano, e spezialmente alla l. Si dominus, ff. de his qui sui, ec., il padron crudele viene obbligato a vendere il servo. Contuttociò si sa che i Greci più che i Romani esercitavano maggiore umanità verso i loro schiavi: il che non è di molto onore ai Romani antichi. Succederono ad essi nel dominio d’Italia le nazioni mosse dal più freddo Settentrione. Erano gente barbara, non si può negare; pure per quel che riguarda i servi, erano essi trattati con più umanità dai padroni. Verberare servum, ac vinculis et opere (forse compede) coercere, rarum. Occidere solent, non disciplina et severitate, sed impetu et ira, ut inimicum, nisi quod impune. Così scriveva Tacito de’ Germani del suo tempo. Ma da che la Religion Cristiana venne ad ammansar gli uomini, e a predicare la divina legge della carità, più mansuetudine si cominciò ad esercitar verso i servi. In più Concilj si truova decretato, excommunicationi, vel poenitentiae biennii esse subjiciendum, qui servum proprium sine conscientia Judicis occiderit. Né era permesso, se un servo si rifugiava nella chiesa, l’estraerlo subito per forza, come ordinò il re Liutprando nel lib. VI, legge XC. In tal caso o i preti o i ministri della giustizia s’interponevano per ottener perdono e pace al misero presso il padrone. E se uno schiavo o sia servo se ne fuggisse, et eum Dominus sequutus invitasset in pace, ut redderetur in gratia, et postea dominus pro ipsa culpa in eum vindictam dedisset; era condennato alla pena di venti soldi d’oro.
Per altro come al tempo de’ Romani, così a quello de’ barbari si vendevano i servi e le serve a guisa de’ buoi e de’ cavalli; e nella stessa guisa che il venditore del cavallo lo mantiene non difettoso per certi mali, altrettanto facevano i venditori degli uomini: cioè diceano di consegnargli quel servo non fugitivum, non ladivum (cioè non soggetto al mal caduco) nec ullum vitium in se habentem, sive mente et corpore sanum. Secondo la legge XVI e LXXII di Carlo M. fu prescritto ne mancipia venderentur, nisi in praesentia Episcopi, vel Comitis, aut Archidiaconi et Centenarii, aut Vicecomitis, ec., aut ante bene nota testimonia. Saggio editto, primieramente affinché non si vendessero servi a persone straniere, per ché v’era divieto il condurli fuori del regno; secondariamente acciocché niuno potesse vendere il servo proprio, reo di qualche misfatto, per non pagare la pena a cui erano tenuti i padroni per li servi; e finalmente per impedire che alcuno vendesse il servo altrui. Negli antichi tempi de’ Greci e Romani, allorché si vendeva un servo o serva, con pubblico strumento il compratore se ne assicurava l’acquisto. Altrettanto si praticò sotto i Longobardi e Franchi dominanti in Italia. Ho io pubblicato uno di sì fatti rogiti, scritto più di mille anni sono, cioè nell’anno 736, XXIV del Regno di Liutprando. Ivi mancipio nomine Scholastica, et ipso mancipio Ursio sibi conjuge, sono venduti auri solidos numero duos et semisse; e il venditore cede il mundio, cioè il potere a lui competente sopra que’ servi. Che se gli Ecclesiastici aveano da far qualche permuta, vendita o compra di servi, conveniva adoperar le medesime cautele che si usavano per gli stabili, affinché apparisse che maggiore utilità proveniva alla chiesa da quel contratto. Da uno strumento Lucchese dell’anno 975 apparisce che volendo Adalongo vescovo di Lucca fare un cambio di servi con Ansualdo prete, inviò i suoi messi a ben esaminare quella faccenda; e questi rapportarono, qualiter meliorata commutatione dedi ad pars suprascriptae ecclesiae. Notissimo è poi, che non fu vietato ai servi il prendere moglie di egual condizione. Similmente si sa che i padroni poteano sposare una serva; ma si richiedeva che innanzi la dichiarassero libera. Rotari nella legge CCXXIII concede tal facoltà alla persona libera, con dir poscia: tamen debeat eam liberam thingare (cioè manometterla) et legitimam facere per garinthix. Tunc intelligatur esse libera et legitima uxor; et filii, qui ex ea nati fuerint, legitime heredes patri efficiuntur. Altrettanto veniva prescritto dalle Leggi Romane. Volendo poi prender per moglie una serva altrui, dovea comperarla dal padrone d’essa. Era all’incontro proposta la pena della vita ad un servo che avesse ardito di sposare una donna libera; e per conto della femmina, era permesso a’ suoi parenti di ucciderla, o di venderla fuori della provincia; e nol facendo essi, quella restava serva del Fisco, cioè del Re. Crudele probabilmente parrà si fatta legge a taluno. Ma si dee osservare che vilissima era la condizion de’ servi; e stando eglino al servigio nelle case delle donne nobili, o d’altre persone libere, ciascuna delle quali per questo titolo participava alquanto della nobiltà; se non avesse il terrore e la pena delle leggi tenuto in dovere l’uno e l’altro sesso, facilmente sarebbe avvenuto che le pazze donne si lasciassero condurre a maritarsi co’ servi: il che sarebbe ridondato in sommo disonore delle nobili famiglie. E i Longobardi forse più dell’altre nazioni faceano gran capitale dell’onore e della nobiltà. Benché, a dir vero, anche i Romani con pene severissime vietarono somiglianti maritaggi, come si può vedere nel lib. IV, tit. 9 Cod. Theod. ad Senatusconsultum Claudianum, e nel lib. IX, tit. 9 de Mulieribus. E Paolo giurisconsulto nel lib. II, sent. 21 scrive che tal donna maritata ad un servo perdeva la sua libertà, e diveniva serva anch’essa del padrone del servo. Abbiamo lo stesso da Tacito, lib. XII Annal. Dissi lecito ad un padrone il prendere in moglie una sua serva, con manometterla prima. Aggiungo ora che matrimoni tali fatti da uomini nobili eran allora, come anche oggidì, malveduti e biasimati non poco dai Romani, e dagli stessi Barbari, per la premura di ognuno, ne insignium familiarum clara nobilitas indigni consortii foeditate vilescerent, come dice Antemio Augusto nella Novella I. Tuttavia abbiam troppi esempli di tali nozze nelle iscrizioni Romane, dove s’incontrano donne chiamate liberte e insieme mogli de’ loro padroni. Di rado ancora dovea succedere che i parenti uccidessero le loro donne libere che si accasassero con servi; perciocché si veggono molte d’esse che divenivano serve del Palazzo, ed erano poi donate ai Monisteri. Grimoaldo principe di Benevento, come scrive Leone Ostiense nel lib. I, cap. 18, praecepto suo firmavit omnes feminas liberas, quae servis hujus Monasterii fuerant copulatae. E in un diploma di Landolfo e Atenolfo principi di Benevento presso l’Ughelli, tomo VIII dell’Italia Sacra, ne’ Vescovi di Benevento, sono donate al Monistero di San Salvatore due femmine libere che s’erano maritate con due servi. Alle volte ancora i padroni per motivo di carità cristiana permettevano che i figli di tali matrimonj restassero liberi: del che si faceva carta pubblica, che si può vedere presso Marcolfo, lib. II, cap. 9. Né si dee tacere, avere scritto Andrea Dandolo nella sua Cronica, che sollecitato Carlo M. dal patriarca di Gerusalemme di liberar dai Saraceni la santa città, pubblicò un editto, ordinando che tutti prendessero l’armi in Italia; et qui eum non sequeretur, cum quatuor libris nummorum fieret servus. Aggiugne che si formò un potente esercito, con cui Carlo tolse Gerusalemme agl’Infedeli. Tutte favole: niuna spedizione fu fatta allora per andare in Palestina. Non colla forza, ma con amichevol trattato ottenne quel Monarca i Luoghi santi.
Parimente è palese che i figli nati dai servi, al pari del padre, restavano anch’essi privi della libertà, e sotto il dominio del signore, non differenti anche per questo conto dai cavalli e dalle vacche. Perciò anche ne’ secoli barbarici fra le ricchezze si contava l’abbondare di servi, come di mercatanzia che fruttava, essendo che i padroni si valevano di essi per coltivar le campagne, e per altre arti e servigi. Quanta gran copia ne avesse il Monistero di Farfa, si può leggere nella Cronica di quel sacro luogo da me data alla luce; e similmente nella Cronica del Monistero di Volturno si truova il catalogo di que’ servi, siccome ancora un placito dell’anno 872, in cui dopo aver conteso alcuni d’essere persone libere, finalmente si danno vinti con queste parole: Vere de nostra libertate minime probare possumus, quia patres nostri et matres nostrae servi et ancillae fuerunt de praefato Monasterio. Talvolta in fatti succedeva che si metteva in disputa davanti ai giudici, se le persone fossero di condizion servile o libera. Anche nel 1080, in un placito tenuto da Costantino vescovo di Arezzo, un certo Giovanni, proferens se liberum hominem esse nulloque jugo servitutis innexum, mancando poscia nelle pruove, e convinto dai testimonj in contrario, professus est se famulum esse jam dicti Monasterii, ac insuper junctis manibus se ipsum in manus jam dicti Guidonis Abbatis ad famulatum tradidit. Presso i Monaci Benedettini della stessa città di Arezzo in alcune pergamene vidi una curiosa fatica de’ vecchi secoli, cioè la genealogia di molti servi di quel Monistero, dove erano annoverati i lor padri, avoli, bisavoli, ec.; i loro figli, discendenti e collaterali; il loro avere, le fughe, le traslazioni, con istudio non minore di quel che adoperino i nobili per tessere le loro genealogie. E ciò fatto perché intervenendo talvolta le liti suddette, necessaria cosa era il provare che i maggiori erano servi: il che provato, si conchiudeva che anche i figli erano sottoposti a quel giogo, qualora concludentemente non provassero di avere conseguita la libertà. Veggansi le Croniche di Monte Casino, Farfa e Volturno, e si troverà che se a que’ Monisteri erano donate corti e poderi, regolarmente si esprimeva che quel dono comprendeva anche i servi. E Leone Ostiense nel lib. I, cap. 19 della Cronica Casinense scrive che da un Daniele Tarentino furono dati in dono alcuni servi circa l’anno 817, i discendenti de’ quali tuttavia erano servi del Monistero di Monte Casino, circa l’anno 1100. Unde (così egli scrive) nonnulli nostrum nunc usquequaque putant, de praedictis ejusdem Daniel servis eos, quos hodieque habemus, famulos propagatos.
In quali arti ed impieghi si esercitassero i servi al tempo de’ Romani, l’abbiamo già avvertito di sopra. Sotto i Longobardi e Franchi gran copia eziandio v’era di servi, ma non apparisce che gli adoperassero in tanti mestieri. I padroni ne tenevano in casa gli occorrenti al loro servigio appellati Servi ministeriales, e regolarmente impiegavano gli altri alla coltura de’ loro poderi. Siccome fu osservato di sopra, eranvi anche degli uomini liberi che si guadagnavano il pane colle rusticali fatiche; tuttavia maggiore senza paragone fu il numero de’ servi, e questi applicati all’agricoltura, con quelle leggi che piacevano ai padroni; giacché tutto quanto guadagnava quella povera gente, era d’essi padroni, detratto il necessario alimento. Anche regnando i Romani, non mancavano contadini persone libere che coltivavano i terreni, come si raccoglie da Columella; forse anche allora più furono i servi agricoltori. Ma niuna delle nazioni trattò sì aspramente i suoi servi, che non lasciasse loro qualche ritaglio del guadagno da essi fatto nell’arti, nella mercatura e in lavorar le campagne. Questa porzione si chiamava da’ Romani Peculium, ed anche Peculiare, voce poi usata da’ Longobardi e Franchi, e probabilmente originata dall’avere il padrone cominciato a permettere che i servi rustici tenessero qualche pecora per conto e guadagno loro; e poi stesa a significare altri guadagni. Ciò si usava per incitar quella gente a divenire industriosa. Godevano i servi l’uso ed usufrutto del loro peculio, ma non già un pieno dominio; imperciocché non poteano venderlo né lasciarlo ad altri senza licenza del padrone: il che viene ordinato da alcune leggi de’ Codici Teodosiano e Giustinianeo. Né avendo i servi facoltà di far testamento, per conseguente il padrone ereditava quanto essi aveano adunato: il qual rigore nondimeno non si soleva esercitare, ogni qual volta mancava il servo di vita con lasciare de’ figli, perché a questi si permetteva di goder la roba del padre. Si sa che molti di costoro, anche a’ tempi de’ Romani, cotanto s’industriavano col proprio peculio, che divenivano facoltosi, in maniera da potere col pagamento redimere la propria libertà. Bene peculiati et peculiosi furono dimandati costoro; e lo stesso si praticò a’ tempi de’ Longobardi, Franchi e Tedeschi in Italia. Vedesi una donazione fatta nell’anno 1095 da Alberto servo di Alberto Conte a Pacifico Abbate di S. Prospero di Reggio di una pezza di terra, ipso namque domino meo mihi consentiente, et hic suptus confirmante.
Per tanto chiunque metteva i servi a lavorare qualche sua corte, massa o podere, poteva riscuoterne tutte le rendite, con provveder solamente quegli uomini di vitto e vestito, e lasciar loro il peculio. Solevano altri padroni più indulgenti tassare quanto di grano e d’altri frutti dovea pagarsi a lui dal servo agricoltore. Se ve n’era di più, tornava in utile e vantaggio d’esso servo; e buon per chi aveva più industria, perché in tal guisa accresceva il suo capitale. Somiglianti patti anche oggidì si praticano secondo i diversi paesi d’Italia; se non che ora tutti i contadini Italiani son gente libera. Né pure ne’ secoli di mezzo era permesso di aggravare più di quel che portavano i patti e la consuetudine i servi lavoratori delle terre. Nella legge X di Lodovico Pio sono rammentati Servi beneficiarii. Più sovente ancora s’incontrano Casati, creduti dal Du-Cange, qui intra casam, hoc est in ruralibus possessionibus serviebant. Ma che vi fossero de’ casati liberi si può pruovare. Parimente s’incontrano Servi Massarii destinati alla coltura di qualche Massa, come significante l’unione di molti poderi. Che nondimeno vi fossero Massari liberi, non mancano documenti che lo pruovano. Nelle Leggi Longobardiche abbiamo Servum rusticanum, qui sub Massario est. Questo Massaro, come anche oggidì, presedeva alla cura di qualche massa, e comandava ai servi, ma egli sembra essere stato persona libera. Truovansi ancora Fiscales, o Fiscalini, che servivano al Fisco, cioè al Re. Nella Storia della traslazione di San Germano vescovo di Parigi circa l’anno 790 si legge: In hoc Pago Parisiaco ipsi Fiscalini vestri ob fortitudinem Celsitudinis vestrae valde sunt insolentes et temerarii, et multa mala contra hunc locum perpetrant. Pensò il Padre Mabillone disegnati con questo nome Procuratores Fiscorum. A me sembra più probabile che fossero servi, o più tosto Aldii del Re, de’ quali si parlerà alla Dissertazione seguente. Vengono anche menzionati Servi Ecclesiastici cioè coloro che appartenevano alle chiese.
Siccome accennammo, in vigore delle leggi del re Rotari non era lecito ad alcun servo sine permissu domini sui neque terram, neque quamcumque rem vendere. Contuttociò servus massarius licentiam habebat de peculio suo, idest bovem, vaccam, caballum, ec., in socio dare. Noi tuttavia dimandiamo dare a socida, cioè consegnare pecore, vacche e buoi ad altri con titolo di società, per partirne poscia con lui il frutto e guadagno. In una piacevol canzone, attribuita da alcuni al Petrarca, si legge:
Ma dar le capre a socio è pur il meglio.
Il Sillingardi nel Catalogo de’ Vescovi di Modena rapporta un diploma di Lodovico Pio Augusto, dato a Deusdedit vescovo, e copiato poi dall’Ughelli, in cui è confermata la donazione quam Cunibertus Rex fecit ad Ecclesiam Sancti Geminiani de villa Purcili (nell’originale v’è Puziolo) sive tributum, subsidiales, atque angarias, quas servi ejusdem Sancti Geminiani ad ipsum casalem laborandum et excolendum habuerunt. Di qua prese il Du-Cange ed innestò nel suo Glossario la voce Subsidiales. Ma nell’originale è scritto succidiales, parola bene scura, non sapendo io dire se mai significasse le rendite degli armenti dati a socida; o pure se tratta fosse da succidendo, o sia dal roncare le selve, cioè dal coltivare terreni primi incolti; o s’abbia altro senso. Dissi che si davano a lavorar le terre ai servi con varj patti. Nell’anno 905, nata quistione se moltissimi uomini della corte Lemonta presso il lago di Como fossero servi del Monistero di Santo Ambrosio di Milano, Andrea arcivescovo di Milano tenne nella villa di Bellano, come Missus Domni Imperatoris (il che è segno, siccome dirò appresso, che tuttavia regnava in Italia Lodovico III Augusto) un placito. Quivi protestano quegli uomini, quia nos veraciter de nostris personis servi simus ejusdem curtis Lemontas, et Monasterii Sancti Ambrosii, eo quod genitores et genitrices nostri, ec., servi fuerunt, et nos sumus, ec. Poscia aggiungono gli oneri loro imposti, cioè colligere debemus olivas de olivetas Curtis ipsius, et premere, et exinde oleum, et traere illuc Monasterium Sancti Ambrosii. Atque ei reddere debemus annue a parte ejusdem Monasteriis argentum denarios bonos solidos septuaginta. Et per lacum Comensem Abbatem ejusdem Monasterii, vel sui Missi, navigare debemus; atque ei pro omni anno reddere debemus ferrum libras centum, et pullos triginta, atque ovas trescentum. Se poi avveniva che il padrone ne volesse col tempo e contro i patti accrescere gli aggravj ai servi, costoro reclamavano ai giudici. Truovasi un altro placito, tenuto nell’anno 906 seguente dallo stesso Arcivescovo di Milano, dove non so se i servi suddetti si lamentano, quod ex parte Gadulfi, qui jam dicto Monasterio praeerat, maximam paterentur superimpositam. In che consistesse questa giunta di aggravj, lo spiegano, dicendo: Supra id quod debet, censum a nobis, atque navigium exquirit. Animalia nostra Prepositus ejus Pedelbertus injuste aufert; et olivas contra consuetudinem colligere et premere sive calcarium facere precipit; ad Clepiatis quoque volentes nolentesque ire, et vites illic amputare contra consuetudinem jubet. Et quod pejus est, multotiens nos grana flagellare, et capillos nostros aufert: sicut in presenti cernitis, precipit. E perciocché l’Abbate insisteva che costoro dagl’Imperadori erano stati donati al Monistero per servi, e poter egli perciò comandar loro ciò che voleva; rispondevano essi che sotto gl’Imperadori altra obbligazione non aveano i loro padri ed essi, se non la seguente: Nos annue soliti fuimus solvere, nisi tantum denariarum libras III cum solidos X, frumentum sextaria XII, caseum libras XXX, pullos pares XXX, ovas CCC: insuper olivas eiusdem Curtis Lemonte cum Regali dispendio colligere et premere. Esaminati i testimonj, fu data la sentenza in favore de’ servi; e qui si dee osservare, essere stati di due sorte i servi, i primi erano forzati, cioè presi in guerra, o condennati come rei, o venduti, ec. A costoro potea il padrone comandare a suo capriccio. Gli altri erano spontanei, cioè si facevano servi per coltivare i campi, ma con certi patti, a’ quali dovea stare anche il padrone. Però la vinsero i servi di quella corte.
Dicemmo che correndo l’anno 905, vien fatta nel primo placito menzione dell’Imperadore, e per conseguente di Lodovico III imperadore, il quale vien anche espressamente nominato nelle note cronologiche. Ora tal notizia si oppone a quanto hanno scritto il Sigonio, il Pagi, il Leibnizio ed altri Storici, secondo i quali esso Lodovico Augusto nell’anno 902 fu sorpreso ed acciecato da Berengario re, ed obbligato a ritornarsene in Provenza. Ho io in fatti veduto diplomi dati in Pavia dallo stesso Imperadore ne’ primi mesi dell’anno 902, e ne ho prodotto uno di Berengario dato nella medesima città in quell’anno XVI Kal. Augusti: segno che Lodovico avea ceduto il campo. In molte tenebre veramente si truova la Storia di que’ tempi, e noi non abbiamo se non Liutprando che tratti di que’ fatti, e senza assegnare gli anni. Tuttavia sembra a me assai probabile che Lodovico III Augusto nel 902 fosse cacciato fuor d’Italia per la prima volta, e che ritornato a ripigliarne il dominio coll’abbattere Berengario, ne stesse in possesso fino all’anno 905, in cui poscia perdè gli occhi e il Regno. Accenna il Rossi nella Storia di Ravenna uno strumento stipulato in quella città: Sergii Pontificis anno secundo, Hludovici Caesaris quarto, indictione octava, idibus julii. Appartiene tal documento all’anno 905, e si dee scrivere anno quincto di Lodovico. Né serve il dirsi dal Pagi che nell’Esarcato tuttavia era onorato il nome di quell’Imperadore, benché atterrato; perciocché quella provincia dipendeva allora dal Re d’Italia, e si truovano diplomi dati in Ravenna dal re Berengario. Aggiungasi, rapportato dal Campi, uno strumento dell’elezione di Guido vescovo di Piacenza, scritto anno ab Incarn. Dom. nostri Jesu Christi DCCCCIIII, indict. octava, imperante Domno Hludovico Sereniss. Imperatore. Non v’ha il mese. Forse ivi fu scritto anno DCCCCIIIII. Ho io prodotto in oltre un diploma di donazione fatta da esso Lodovico Augusto alle Monache della Pusterla di Pavia, le cui note son queste: Datum pridie nonas junias, anno Incarnationis Dominicae DCCCCV, Indict. VIII. Anno V. Imperante Domno Hludovico gloriosissimo Imperatore in Italia. Actum Ticinensis. Un altro simile, cioè colle stesse note, si conserva nell’archivio delle suddette Religiose, parimente da me dato alla luce. Tali notizie ci conducono a credere che solamente nell’anno 905 restasse privo degli occhi e del regno. Aggiungasi che la disgrazia d’esso Lodovico vien riferita dall’Annalista Sassone, pubblicato dall’Eccardo, all’anno stesso 905. Reginone nella Cronica ne parla all’anno 904; ma si può credere che ne’ suoi buoni testi sia scritto 905, perché l’Annalista suddetto copiò Reginone, ed anche la Cronica Reicherspergense mette quel fatto all’anno 905. Tralascio altre memorie ed osservazioni intorno a que’ tempi di tanti imbrogli per la Lombardia.
Passiamo ora a cercare, che s’abbia ad intendere colla voce Condumae o Condomae, la quale non rade volte s’incontra nelle antiche carte. Il Du-Cange nel Glossario Latino alla voce Condamina, fu di parere ch’essa significasse un’unione o massa di poderi. Vien da lui citato il gramatico Papia, che scrive: Conduma, Domus cum Curia et ceteris necessariis. La Cerda (in Advers. Sac. cap. 42, num. 10) lasciò scritto: Conduma locus est laxationi corporis assignatus, dictus a dumetis. E i fratelli Magri nell’Hierolex. giudicarono essere praedium dumis repletum. Ve’ quanti sogni! Non altro fu una Condoma, se non una famiglia o sia casata di servi abitanti nella medesima casa, e coltivatori di una possessione. Citano quegli Eruditi San Gregorio Magno, il quale così scrive nell’epistola XX, lib. XI (dianzi lib. IX, epist. XIV): Experientiae tuae nos praecipisse recolimus, ut quia Reverendissimus frater et Coepiscopus noster Calumniosus necessitatem se de solatiis asseruit sustinere, unam illi de jure Ecclesiae deputare Condumam debuisses. I Padri Benedettini nelle Annotazioni scrivono: Conduma est Massa seu praedium Ecclesiae. In dote Oratorii seu Ecclesiae Monasterii ponitur Conduma supra Lib. X, Epist, XVIII infra Lib. XII, Epist. XI. Condumam Ecclesiae Remensis, cui nomen Tudiniacus, memorat Hincmarus in Vita Beati Remigii. Né pur essi colpirono nel segno. Seguita il Pontefice a dire: Sed quia Conduma ipsa vineolam parvam juris ejusdem Ecclesiae nostrae tenere dicitur, et ipsam sibi pariter vineolam petit debere locari, ec. Quel tenere vuol dir qui lavorare, e si parla di una famiglia servile, e non già che la massa abbracci una vignola. Lo stesso San Gregorio nell’epistola XI, lib. XII mette per dote di un oratorio fundos campulos cum Conduma una, boves domitos parium unum. Ecco ch’egli distingue le terre della Conduma, e vuol dire un podere con famiglia di servi lavoratori. Ma quello che mette in chiaro ciò che fossero le Condome, si è la Cronica del Monistero del Volturno da me posta in luce. Ivi all’anno 778 Arichis duca di Benevento dona a quel sacro luogo Condomas, idest Barciolus cum germanos suos, simul et nepotes, cum uxores, noras, filios et filias. Nec non et Condomas nomine Ronciolus tam simul cum suos germanos, ec. E Liutprando duca anch’egli di Benevento nell’anno 747 fa menzione di un Condoma nomine Dodone cum uxore, filios et filias suos, ec., et Condoma nomine Candolus, ec. Altre testimonianze simili esistono in essa Cronica, che non occorre riferire. E poteano avvedersi di questa verità i PP. Benedettini leggendo il testamento di Berticranno vescovo del Maine, riferito dal P. Mabillone negli Analetti, e dal P. Papebrochio al dì 6 di giugno. Leggesi quivi: Ut singulos Condomas (nota che Condoma era di genere mascolino) de unaquaque villa, qui nitidiores esse noscuntur, et nos vel Basilicae Sanctae fideliter deserviunt, volumus, ec., ut integro relaxentur a servitio, ec. Et ingenuitas status illorum sub defensione ipsius Abbatis debeat perpetualiter perdurare. Qui si tratta di manomettere le Condome, con liberarle dalla servitù. Probabilmente con questo nome erano di segnati i Servi casati, de’ quali è fatta menzione ne’ Capitolari di Carlo Magno.
Si vuol ora osservare che un bel comodo e guadagno era una volta l’uso de’ servi o sia degli schiavi. I famigli de’ nostri tempi, che sogliamo nominar servi per essere gente libera, tutto quel che guadagnano, lo fan suo, e lo trasmettono ai loro figli; e se ne viene lor talento, abbandonano un padrone, e passano al servigio di un altro. Se i padroni vogliono trattarli colle brusche, eglino ne cercano uno più paziente e discreto; e strapazzano talvolta il servigio, appunto perché godono la libertà. Non così era ne’ vecchi tempi. Tutto quello che acquistava un servo, siccome di sopra accennammo, era del padrone. Se metteva al mondo de’ figli, non ne poteva egli disporre, perché il padrone era anche d’essi signore. Non veniva a lui permesso, se era deputato a qualche mestiere, l’abbandonarlo; se assegnato a qualche podere per coltivarlo, il dipartirsene per servire ad altro padrone. Se era difettoso, si potea vendere. Mancando al suo ufizio, o commettendo qualche cattiva azione, e fuggendo, poteva il padrone gastigarlo. Perciò ordinariamente col maggior possibile studio procuravano i servi di rendere un buon servigio a chi ne era signore, e massimamente per la speranza di esser ricompensati col dono della libertà. Tutti riflessi che potrebbero far desiderare oggidì che si rinovasse l’uso degli antichi servi. Ma non andava esente da molte pensioni e fastidj il costume d’allora. Imperciocché bisognava comperare i servi, e a caro prezzo, e questo si perdeva, mancando essi di vita, o contraendo mala sanità, o fuggendo. Se commettevano qualche capital delitto, toccava al padrone di farne la penitenza, cioè di pagar la pena imposta a quel misfatto. Allorché costoro fuggivano, gran briga era il cercarli, e ridurli, ed occorrevano molte spese e liti. Talvolta ancora bisognava litigare davanti ai giudici, se coloro negavano d’essere servi. Oltre a ciò seguivano matrimonj fra i servi di diversi padroni: il che era uno non lieve imbroglio, perché non si potevano sciogliere, e conveniva ciò non ostante che seguitassero a servire i loro padroni. Questi, ed altri incomodi ch’io tralascio, quei furono in fine che fecero decadere l’uso de’ servi. Principalmente nondimeno contribuirono a ciò le mutazioni seguite in Italia dopo il 1100, per essersi tante città erette in Repubbliche, e per le tante guerre suscitate fra loro. Allorché fiorì l’Imperio Romano, e il Regno Longobardico e Franco, se un servo fuggiva da una in altra città, non riusciva tanto difficile il ricuperarlo, perché v’erano più leggi ordinanti che niuno ricoverasse, occultasse o traghettasse i servi fuggitivi. Ma da che l’Italia si partì in tanti dominj, e guerra bene spesso bolliva, più non fu facile il tenere in freno i servi, e se fuggivano il ricuperarli. Si aggiunse il bisogno della guerra. Sotto i Romani furono esclusi dalla milizia i servi, sì perché riguardati come gente vilissima, e sì ancora per timore che avvezzati all’armi non facessero sedizioni, e si rivoltassero contro i padroni e contro la stessa Repubblica. Solamente a’ tempi di Annibale pel gran bisogno si arrolarono i servi, ma con dichiararli prima persone libere. Altrettanto si praticò sotto i Longobardi e Franchi. Ma essendo divenute sì frequenti le guerre in Italia fra le stesse città nel secolo XII, troppo si sarebbe scarseggiato di soldati, ove non si fosse permesso ai servi di militare. Però andò in disuso l’antico rigore, e fu loro conceduta la libertà, affinché prendessero l’armi per la patria e per difendere i confini. Avea Giustiniano nell’Autent. Quicquid, Novella LXXXI, Codic. de Emancip., ordinato, ut si quis servus, sciente Domino, mereatur militiam, repente in ipsam rapiatur ingenuitatem. Nella Storia Miscella di Bologna da me pubblicata nel tomo XVIII Rer. Ital. si legge all’anno 1256: Furono liberati i Rustici del Contado di Bologna, ch’erano fedeli (cioè probabilmente servi di masnada, come dirò appresso) di cento uomini della città, e furono comperati per danari dal popolo di Bologna, e fu statuito e bandito alla pena del capo, che niuno ardisca di riputarsi per fedele. Così il Comune di Bologna comperò ogni servo e ogni serva del Contado, e diedero della persona da quattordici anni in su lire dieci e da quattordici anni in giù lire otto. Cominciò dunque in Italia nel secolo XII e XIII a diventare rara la condizion de’ servi, e svanì affatto nel XIV. Sul fine di questo secolo visse il Vergerio, di cui sono le seguenti parole nella Vita di Ubertino da Carrara: Longettus erat hereditarius servus, et semper una nutritus; nam usque ad ea tempora propagandorum servorum mos in Italia manserat, qui nunc prorsus abolevit.
Ho riservato fin qui di parlare di que’ servi che dopo il secolo X i nostri maggiori furono soliti di chiamare Homines de Masnada. In una investitura data dai Canonici di Pisa l’anno 1135 si legge: Et similiter juravit, quod homines et mulieres de Masnada de praedicto Scanello non habent vendere, nec donare, neque alienare, neque aliquo modo dirigere ad damnitate praedictae Ecclesiae. A prima vista parrà che qui si tratti di veri servi, al vedere vietato il venderli, donarli ed alienarli: il che si suppone si potrebbe fare senza quel divieto, e conviene ai veri servi. In oltre nel testamento di Tancredi marchese, da me riferito nella P. I, cap. 33 delle Antichità Estensi, leggiamo: Universa Masnata mea libera sit; jure patronatus penitus remisso, peculiis uniuscujusque sibi concessis. Segno di servi è la menzione del peculio. Ma non s’ha qui da precipitar la sentenza, e massimamente considerando quel jure patronatus penitus remisso, perché questo non s’accorda colla condizione de’ veri servi. Noi sappiamo che anche a’ tempi de’ Romani vi furono de’ coloni in gran copia affatto servi; altri erano liberi ed altri liberti, ma suggetti per alcuni patti ai loro patroni: intorno a che è da vedere Jacopo Gotifredo al libro V, tit. 9 del Cod. Teodos. de fugitivis Colonis. E qui si ponga mente ad uno strumento Lucchese dell’anno 768, dove due uomini protestano, quia nos, et parentes nostri bone memorie Walperto Duci, et filiis ejus, seu vias fecere solemus, et servitium per conditionem, traendo cum nave tam granum quam et salem. Poscia soggiungono: Nunc vero tradimus et confirmamus omnes res nostras in Domo Sancte Lucensis Ecclesie; et ab hac die omni in tempore tam mobilia quam immobilia, omnes res nostras tam de jure parentorum nostrorum, quamque et de adquisiti nostro in integrum confirmamus in potestate Ecclesie Sancti Martini, et nullum tempore ex re a nobis possessa abeamus licentiam subtraendi de dominio ipsius Ecclesie. Promettono in fine a Perideo vescovo di far tutto quanto faceano in servigio di Walperto duca; sic tamen salva justitia nostra, quia sic fuit antea consuetudo. Ecco persone che paiono per un conto servi, e per un altro no, stante l’aver essi de’ mobili e stabili di lor ragione, e il sottoporre bensì i loro beni alla Chiesa, ma non già le loro persone. Sicché la lor condizione viene ad essere un misto di servitù e libertà, e sembra simile a questa degli Uomini di Masnada. Monsignor Fontanini in una sua operetta delle Masnade credette originata la voce Masnata da Mas significante Mansum, o sia un podere, e da Nata, sicché volesse dire gente nata nei Mansi. Il Du-Cange all’incontro crede formata la voce Masnada da Mansata, per additar persone obbligate a qualche Manso, o sia a coltivar qualche podere. Recava in pruova di ciò le parole di Guglielmo Durando appellato lo Speculatore, lib. IV, particul. 3 de Feudis. Mansata est, quando Dominus dat alicui Mansum cum diversis possessionibus, et propter hoc ille facit se hominem Domini, et ad certum servitium tenetur. Et talis homo dicitur de Mansata, quia est homo ratione possessionum. Persona tamen ejus libera est secundum consuetudinem Regni Franciae, si dimissa Mansata alio se transferat. At Itali secundum quosdam vocant homines de Mansata quasi de familia, et illi quasi pro servis habentur. Fu di parere il Fontanini che passasse gran differenza fra gli uomini di Masnada descritti dallo Speculatore, e quei, che furono in uso nel Friuli; perché questi ultimi secondo lui erano di condizione veramente servile. In prova di che egli produce uno strumento del 1369, o pure 1368, io cui Nobilis vir Antonius Gallus de civitate Austria manumisit Dominam Sophiam filiam Tisanti de Premanaco, ejus ancillam propriam, sive mulierem de Masnata, cum omnibus filiis, peculio, bonis, ec. Certamente il chiamare ancilla quella donna, l’aver ella peculio e l’essere manomessa, son tutti indizj di vera servitù. E pure che tali assolutamente non fossero, ma bensì quasi servi, come dice lo Speculatore, assai lo dimostra il titolo di Domina, che in que’ tempi lontani dall’adulazione de’ nostri significava una persona non della vil condizione de’ servi, ma bensì o nobile, o molto civile. Lo stesso Fontanini rapporta un altro strumento, dove Ricciardo conte di Prata mette in libertà sapientem virum Dominum Marinum Jurisconsultum.
Nel rivedere io le antiche pergamene dell’archivio Estense, ho avuto sotto gli occhi gran copia di strumenti, da’ quali apparisce che non solamente nel Friuli, ma anche nel Ferrarese e Polesine di Rovigo erano familiari le Masnade, e che moltissimi venivano chiamati homines de Maxinata, o pure de Mazinata. Questi tali si riconoscono come vassalli della Casa d’Este, ricevendo feudi, cioè terreni, da essa ad usum Regni, e giurando fedeltà al pari degli altri nobili vassalli. Possederono costoro gran copia di beni non solo feudali, ma anche allodiali, e venivano distinti col titolo di Domini e Dominae. Eccone un esempio. Nell’anno 1286 Ferrarino Notaio, come procuratore di Pietro figlio Dominae Veneziae, confessò, dictum Petrum esse Vassallum, et hominem de Maxinata Domini Obizonis Marchionis Estensis, et habere ab eo in feudum ad usum Regni res infrascriptas, ec.; e qui annovera molti stabili. Nell’anno medesimo Dominus Sicherius de Frata, et Dominus Zeoesius, ec., fuerunt confessi, se esse Vassallos et Homines de Maxinata dicti Domini Marchionis, et habere ab eo in feudum res infrascriptas. Una gran copia di beni vien quivi registrata, intitolati Jurisdictiones, Segnoriae et Vescontariae, ec., in quibus terris habent jurisdictionem cognoscendi et determinandi quaestiones civiles et criminales, et jus colligendi dacium ad catenam Fratae, et jus portus Litigae, et Domus Salvaticae; et jurisdictionem super homines Arquoadae, Corneti et Gregnani, quia faciebant homines dictarum villarum ire cum eis ad pluvigum (cioè alle funzioni pubbliche) et in exercitum quociens opus erat, maxime de mandato Domini Marchionis. Si noti quell’andare in exercitum, che è la principale obbligazione di questi vassalli, che pure vengono appellati homines de Maxinata. Vedesi poi in uno strumento del 1252 che Bonifazio padre de’ due suddetti vassalli presta il giuramento di fedeltà col principale obbligo di prendere l’armi ad ogni cenno del Marchese, giurando contra omnem hominem, eccettuando anteriores homines, si quos habet. Ecco dunque che costoro erano nobili vassalli, né qui si truova alcun vestigio di vile servil condizione. E pure in un altro strumento del 1262 Pietro figlio del medesimo Bonifazio, comparendo alla corte, dove Dominus Azo, Dei et Apostolica gratia, Estensis et Anconitanus Marchio fecerat congregari omnes Vassallos et Maxinatas civitatis Ferrariae, si protesta suum hominem de Maxinata, ed è investito de suo justo et recto feudo, ec. Et dictus Petrus homo de Maxinata, sicut servus Domino, juravit fidelitatem dicto Domino Marchioni, cujus homo de Maxinata est . Si soggiugne dipoi: Hoc intellecto expresse, quod vivente ipso Domino, dictus Dominus Marchio habeat et habere debeat merum et plenum dominium dicti sui hominis, ita quod ipse possit facere et disponere de dicto suo homine ad suae beneplacitum voluntatis.
Ora noi troviamo una strana disparità fra gli antichi servi e i servi di masnada. Vilissima era la condizion de’ primi; nulla possedevano, che non fosse del loro signore; né erano ammessi alla milizia. Ma i secondi erano annoverati fra i vassalli; godevano feudi ad usum Regni, prestavano il giuramento come i più nobili vassalli; poteano militare, anzi erano a ciò tenuti ad ogni ordine del loro signore. E che persone nobili e potenti si contassero fra loro, l’abbiamo osservato. Questa mutazion di costumi non altronde credo io nata, se non perché dopo il mille cangiò non poco di faccia l’Italia. Sorsero innumerabili signori e signorotti, sì ecclesiastici che secolari, ciascun de’ quali era indipendente, e solamente riconosceva per suo Sovrano l’Imperadore. Anche sotto i Longobardi furono in uso le nemicizie e guerre private, appellate Faidae. Ma crebbero queste a dismisura dopo il mille fra tanti signori l’uno all’altro confinanti. Lo stesso avvenne in Francia: del che una bella Dissertazione lasciò il Du-Cange nella Storia del re San Lodovico. Pertanto i gran signori di allora, o per voglia di far guerra, o per necessità di difesa, e tanto ecclesiastici che secolari, si studiarono di farsi de’ vassalli, con dar loro castella o poderi in feudo, ufizio ed obbligo de’ quali era di prendere l’armi, e farle prendere a’ loro uomini in servigio del diretto padrone. Stesero anche questa liberalità alla gente bassa, concedendole qualche terreno da godere: il che cagione era che niuno fuggisse per non perdere quel bene; ed obbligo d’ognuno era di accorrere coll’armi, ovunque il signore comandasse. Chiamasi Masnada questa unione di persone dipendenti da esso signore, e prendevano perciò il titolo di servi. Di qua venne il nome di masnadieri, perché formando esercito sapevano far anche il mestiere di saccheggiare al pari degli altri soldati. Tale era il legame con cui si obbligavano e sottomettevano al volere del signore, che in certa maniera uguagliava quello dei servi antichi, tuttoché fossero riputati per nobili e civili persone, e certamente non contraessero macchia alcuna per quella servitù, come non la contraggono i vassalli con obbligarsi al servigio de’ padroni. E in fatti se volevano ricuperare la libertà, ci voleva un atto simile alla manomessione: del che s’è recato di sopra esempio. Nelle Giunte alla Cronica de’ Cortusi, lib. IX, cap. V, della città di Trivigi, è scritto: Quae post excidium illorum de Romano, omnes illorum Masnatas et servos emancipavit, et libertati et ingenuitati condonavit. Vedi qui distinte le masnade dai servi, quantunque si usasse la manomessione tanto per quelle che per questi. Abbiamo osservato una tal balía del signore sopra gli uomini di masnada, che potea disporne come a lui piaceva, e sembrava questo un diritto di dominio, come sopra i veri servi. E pure abbiamo osservato che Tancredi marchese ordinò che universa Masnata mea libera sit jure patronatus penitus remisso. - Dominus si appellava chi tenea al suo servigio servi. Se questi conseguivano la libertà, lui poscia appellavano Patrono, come osservammo di sopra. Dal che conviene inferire che gli uomini di masnada fossero simili ai liberti.
Né solamente nel Friuli e Ferrarese furono in uso le masnade, ma n’ebbero anche vari principi e signori sì ecclesiastici che secolari. Il Cardinale Baronio rapporta all’anno 1188 un diploma del Senato Romano, dove si legge: Res eis ablatas per Masnadam Romani Pontificis et Forifactores, cioè malandrini. Vedemmo di sopra nel Pisano Homines de Masnada, che aveano servito alla contessa Matilda. E nel Registro antico della Repubblica di Modena abbiamo il giuramento prestato alla città da alcuni Nobili del Frignano, dove son queste parole: Et hoc de Boatia (era un tributo per ogni paio di buoi) observabo, nisi fuero castellanus, vel rochexanus, vel miles, aut homo de Macinata. Odasi anche Rolandino nel lib. 1, cap. 2, che scrive di Cecilia moglie di Eccelino il monaco: Per Paduanum districtum magnas Masnadas, vassallos multos et amplas possessiones habebat. E in una Bolla di Gregorio IX papa del 1231 presso l’Ughelli ne’ Vescovi d’Anagni abbiamo: Si contigerit eos exercitum, vel Masnadam lacere ultra urbem: dove è distinto il fare esercito, cioè allorché tutti i cittadini davano di piglio all’armi, e il fare masnada, perché vi concorrevano i soli uomini di masnada. Presso Giovanni Villani la milizia a cavallo è chiamata cavalleria, e i pedoni la masnada. Fin dopo l’anno 1300 si truova memoria delle masnade. S’incontrano poi negli antichi documenti Manentes, Tributarii, Mansionarii, Alloderii, Adscriptitii, Servi glebae. Non è facile il ben distinguere tutte le qualità e differenze di tali persone; cioè se fossero liberi, o servi o liberti, e con quali obbligazioni essi servissero. Ne ho parlato per qualche poco nelle Antichità Italiane. Qui non occorre dirne di più. Finirò colla menzione della formola con cui un certo Leone nell’anno 1018 si dà per servo a Giorgio suddiacono Ferrarese. Presencialiter dic’egli, atque corporaliter meam personam trado tibi, ad serviendum tibi omnibus diebus vitae meae, tantum pro precio denariorum solidos treginta, ec.: propterea placet mihi a presenti die et hora bona et sincera mea voluntate deservire et obsequiare, sive supplicare tibi jam dicto Georgio omnibus diebus vite mee, cum vera fide et humilitate, ec., ad qualemcumque laborem vel obsequium nocturnum rei licite, vel diurnum mihi imperaveris, ec. Mihi facere debeas omnibus diebus vite mee vestire et calciare, nutrire et pascere et gubernare; et per singulos annos finitos duodecim denarios debeas mihi, ec. Nec fugam me arripere presumo per ullam occasionem vel ingenium. Quod si forte latenter et furtive cum vestris rebus furatis de vestro servicio exire nisus fuero, aut fugam in quamlibet terra... partes arripere presumpsero: liceat tibi Georgio subdiacono, domino, benifactori meo, vel per tuum missum me inquirere et persecuitare, et me ubicumque inveneritis fugitivu latronem apprehendere et disciplinare, et me in vestrum servicium revocare ad serviendum tibi omnibus diebus vite mee, ec."