testo a cura di Bartolomeo Durante

Aprosio ha lasciato parecchie interessanti tracce del suo gusto per comunicare messaggi diversi sia in forma scrittografica, sia per crittografia sia tramite l'uso di figurazioni ed immagini volutamente elaborate oltre che, secondo l'uso del tempo, decodificabili in virtù dell'accesso a precise chiavi di interpretazione.
Fra tanti segnali, benché come si vedrà la lettura critica comporta alcuni problemi, trovo significativo che entro un libro di Antonio Muscettola ("Prose di D.A.M. dedicate all'Em. e Rev. Sign. Carlo Decio Azzolini, in Piacenza, per il Bazachi, 1665 in 12°" dove non a caso da p.186 si legge un "Discorso degli eccessi della vera amicizia" dedicato all'Aprosio) nella pagina finale bianca qualcuno abbia disegnato a mano, ma con una certa accuratezza, lo schizzo di un progetto molto prudente per un'icona della Biblioteca intemelia (immagine che ho recentemente individuato grazie alla collaborazione dell'attuale reggente di biblioteca Ruggero Marro e che qui sopra viene riproposta).
L'immagine, sopra proposta nella sua genuinità, finisce per costituire, come si leggerà, la più credibile alternativa rispetto al celebre quadro di Carlo Ridolfi (vedi qui nell'elenco delle "foto" l'immagine numero 1) che campeggia in una delle sale del fondo antico della biblioteca intemelia, forse lo schizzo del volto dell'Aprosio è l'ultima e più verosimile immagine che di lui ci resta: ma oltre a ciò, per quanto si vedrà di seguito, è presumibile che la vignetta, invero più complessa di quanto appaia ad una prima analisi, sia stata progettata con una sua quasi enigmatica finalità, quella cioè di essere (cosa poi non finalizzata) la vera e sostanziale IMPRESA della "Libraria" istituita dall'Aprosio nella natia Ventimiglia.
La realizzazione di siffatta icona od impresa della "Libraria Aprosiana" sembrerebbe peraltro, in qualche modo di cui sfuggono però i contorni esatti, la trasposizione grafica di un altro progetto iconico di ordine linguistico incredibilmente criptico, comunque fondato su principi alfanumerici di lettura secondaria oltre che sull'infrazione delle norme tipografiche, che venne abilmente celato da Pier Francesco Minozzi entro un canzoniere encomiastico d'Aprosio e del suo mecenate Giovanni Nicolò Cavana in chiusa del Catalogo a stampa del 1673 (M. DE APOLLONIA - B. DURANTE, "L'icona della Biblioteca Aprosiana in un canzoniere del Seicento", in "Riviera dei Fiori" 1980, n. 1-2 ma anche in estratto).
In un primo momento, della "vignetta", che indubbiamente rimanda ad un emblema o ad un'icona della Biblioteca, si può soltanto dire che fu composta in qualsiasi periodo dopo il 1665, anno di stampa del volume in cui si trova ed a priori neppure si potrebbe escludere che il suo sconosciuto autore sia vanamente da cercare lungo gli oltre tre secoli di storia della grande Biblioteca intemelia: del resto l'analisi dell'inchiostro usato non chiarisce granché le idee, atteso che siffatta qualità di materiale scrittorio venne utilizzata comunemente dal tardo XVII secolo sin a tutto l'Ottocento.
E' invece piuttosto utile la tipologia della progettazione scrittografica, propriamente tardo barocca e preaccademica, che può aiutare a ridurre l'indagine ad un campo cronologico alquanto più ristretto, che corre dagli ultimi anni dell'Aprosio (1665-1681) alla gestione del successore Domenico Antonio Gandolfo (fine Seicento - primi Settecento): in astratto non sarebbe nemmeno da escludere il periodo di reggenza del terzo bibliotecario dell'Aprosiana, il De Lorenzi (primi decenni del XVIII secolo) ma né a questi ed in vero neanche al Gandolfo, per quanto ho potuto trovare, sono ascrivibili interessi iconografici di questo genere (B.DURANTE, "Vita ed opere di Domenico Antonio Gandolfo: l' "Epigono" : per un riconoscimento del secondo bibliotecario dell'Aprosiana", in "Quaderno dell'Aprosiana", nuova serie, II, 1984, pp. 63 - 90).
Dall'analisi sulla realizzazione pratica della "vignetta" si comprende altresì che l'anonimo bozzettista operò tenendo aperto davanti a sé il libro del Muscettola e, a seconda delle necessità, facendolo ruotare su se stesso in modo sì da poter disegnare al meglio ma, come solitamente accade, in maniera anche da mostrare subito a qualcuno che gli stesse accanto, senza farlo scomodare, i frutti del suo lavoro.
Secondo la larghezza del foglio son stati delineati due volti dell'Aprosio, uno accanto all'altro: i ripensamenti, fra i lineamenti giovanili della prima figurazione e quelli senz'altro più curati e definiti della seconda, che parrebbe esser stata soluzione ultima e condivisa, rimandano inevitabilmente ad una quasi istintiva intenzione di conciliare la fisionomia definita nel dipinto del Ridolfi coi risultati d'altri ritratti aprosiani tanto inferiori qualitativamente quanto ben più noti per esser stati ampiamente divulgati fra i dotti entro i medaglioni encomiastici delle svariate raccolte o " Gallerie" d'"uomini illustri " in cui l'agostiniano era riuscito a trovar posto, come per esempio "Le glorie de gl'Incogniti o vero gli huomini illustri de' Signori Incogniti di Venezia" (Venezia, appresso Francesco Valvasense, 1647, p. 39) e gli "Elogii d'huomini letterati" (Venezia, La Noù, 1666, v. II, p. 238) dove la fisionomia del frate, ormai quasi sessantenne, è altresì depressa dalla sottolineatura di quel lieve strabismo che si riconosce nelle sue ultime effigi: non è forse eccesso di giudizio critico ipotizzare che il "bozzetto" da me scoperto abbia costituito, tra tante altre cose, una possibile alternativa iconografica, da pubblicare quanto prima, all'immagine del frate, decisamente bruttina e ben poco gratificante, utilizzata da Lorenzo Crasso per il suo conosciutissimo volume.
Invece, allo scopo di figurare la banda con la scritta, che per la necessaria estensione, vista la lunghezza della frase inserita, avrebbe rischiato di debordare oltre lo spazio orizzontale effettivamente fruibile, l'anonimo ritrattista ha giustamente ritenuto opportuno di valersi del più ampio spazio verticale della pagina: ma anche in tal caso si ha l'impressione che, pure in questo circostanza, sulla rotazione del libro abbia in qualche modo inciso un'esplicita richiesta di quell'osservatore, astante al lavoro, cui si è fatto cenno.
Per quanto si tratti sempre e soltanto d'una plausibile ma non esclusiva ipotesi di lettura critica, la stesura del bozzetto dovette essere realizzata nella sede della biblioteca intemelia, praticamente l'unico posto in cui oltre alla persona fisica dell'Aprosio si conservava tutta l'iconografia che lo riguardava, ad opera di una persona postasi a sedere (poggiando su un tavolo o su uno scrittoio il libretto, altrimenti difficile da maneggiare) in modo da osservare bene il dipinto del Ridolfi, guida fondamentale del bozzetto.
Potrebbe far pericolosa eccezione a questi ragionamenti il fatto che nel secolo scorso il canonico Andrea Rolando (1802 - 1881), bibliotecario all'Aprosiana e maestro dello storico Girolamo Rossi, a fronte di un suo nuovo ma incompleto "Catalogo dell'Aprosiana", abbia posto di propria mano una personale ripresa del quadro dipinto da Carlo Ridolfi, nella quale, a prescindere dal mancato rispetto delle proporzioni, il volto dell'agostiniano riflette con tratti decisi quelli dell'altra più celebre immagine (A. A. V. V., II gran secolo di Angelico Aprosio, Sanremo, 1981, p.80, tav. allegata, 1 = B. DURANTE, "Aprosio Critico e Morale", in "Quaderno dell'Aprosiana", vecchia serie, II, 1985, p.633).
Esistono però buone motivazioni per non identificare nel Rolando l'ignoto autore della "vignetta" scoperta sul colofon del volume d'Antonio Muscettola: fra queste sono da elencare la passione del Rolando per il colore (che non compare nella "vignetta"), la sua buona abitudine di non intervenire con scritte, glosse o simboli sui libri della Biblioteca (cosa al contrario comune ad Aprosio e, seppur in minor misura, al Gandolfo), la tipologia ottocentesca del disegno del Rolando che peraltro non ebbe finalità iconografiche ma soltanto ambientali ed encomiastiche ed ancora l'occasione di questo intervento pittorico, connesso ad una visita all'Aprosiana del futuro Sovrano d'Italia Umberto I, alla cui attenzione il Rolando propose, con questo catalogo e le sue immagini, un sonetto in cui la biblioteca intemelia, personificata e parlante, segnalava alle "Reali Altezze" il gran quadro del suo creatore.
A mio parere la "vignetta - icona" è invece da collegare ad un preciso momento culturale d'Aprosio che, sicuramente dal 1664-5, andava cercando i favori di qualche buon pittore e di qualche valido incisore, d'ambiente perlopiù genovese, onde realizzare le antiporte di due sue opere significative: la "Grillaia" edita nel 1668 (ove poi si valse alla fine di Domenico Fiasella) ed appunto della "Biblioteca Aprosiana" del 1673 la cui antiporta venne realizzata dal noto pittore genovese Domenico Piola per un'incisione di Gio.Mattia Striglioni (si veda al proposito nelle "foto" l'immagine conclusiva in ordine di successione: intitolata "antiporta della Biblioteca Aprosiana edita nel 1673).
Il Ventimiglia spesso, con affettazione, s'ingegnò negli scritti onde far credere che molte sue scelte operative sembrassero ispirate da una buona dose di casualità ma al contrario fu piuttosto un meticolosco, tenacissimo organizzatore del proprio lavoro e mediamente prima d' addivenire a qualsiasi scelta decisionale, proprio per quell'incertezza caratteriale di fondo che mascherava con gran tenacia, era solito vagliare diverse possibilità e progettazioni, proponendo agli artisti con cui di volta in volta fosse giunto a contatto, magari prescindendo dal luogo e dalle comodità, di avanzare un'idea, su cui eventualmente potesse poi riflettere, anche confrontandola con altre ad altri richieste, naturalmente colle dovute cautele per non offendere alcuno.
Fra le righe di quelle estemporanee confessioni che l'agostiniano qualche volta era uso fare, specialmente su argomenti vecchi e su personaggi ormai scomparsi, val la pena di rammentare che, come si legge a pp.97-98 della "Biblioteca Aprosiana", la celebre antiporta del "Veratro I", opera antistiglianea del 1647, il Ventimiglia era riuscito a farsela disegnare gratuitamente (1643 o 1644) su un comune foglio di carta dal rinomato pittore genovese Luciano Borzone, il caro amico del romanziere Bernardo Morando, che poco dopo sarebbe tragicamente morto per una caduta (1645) mentre dipingeva la Natività nella cappella Lomellina nella chiesa dell'Annunziata in Genova.
Non escluderei però affatto che lo stesso Aprosio, onde evitare qualsiasi contrattempo alla sua iniziativa, abbia messo a disposizione del Borzone un'immagine (probabilmente cavata da qualche repertorio di uomini illustri) del "gran avversario" del Marino appunto lo Stigliani e che personalmente abbia guidato la mano del pittore sì da far rappresentare l'erudito di Matera (inforcante gli occhiali sul naso, metafora alquanto comune della cecità intellettuale) in ginocchio davanti a Mercurio, che gli indica un cespuglio d'elleboro o veratro, pianta officinale anticamente usata nella cura della follia, ulteriore allusione alla confusione mentale dello Stigliani (il fatto poi che il Ventimiglia abbia mostrato quell'antiporta all'erudito Berlingiero Gessi, altamente rallegrandosi che l'interlocutore riconoscesse con prontezza nell'occhialuto personaggio il celebre antagonista dei marinisti ortodossi, pare un'ulteriore conferma d'un certo suo modo di procedere e soprattutto della rilevanza da lui conferita al prodotto pittorico o comunque al disegno d'arte quale supporto culturalmente rilevante dei fenomeni letterari; più che quelle, pur non meno belle, di parecchi altri eruditi, le sue antiporte si rivelano infatti costantemente connesse alle tematiche poi sviluppate nel testo: per esempio nel moralistico "Scudo di Rinaldo I" nell'antiporta, realizzata su incisione di un certo Contarinus, il personaggio afflitto, che si specchia nel magico scudo di un nerboruto Rinaldo, senza dubbio rimanda allo scopo intenzionale dell'opera, che al pari di quel fatato usbergo avrebbe dovuto riflettere contro gli uomini sciocchi e peccatori del tempo le brutture delle terrene miserie, cui tanto agognavano, sì da indurli a meditare, avviliti e sgomenti, sui pericoli che oramai incombevano sopra le loro sventurate anime).
A mio giudizio lo "schizzo", che appena sopra si è studiato, avrebbe dovuto essere l'impresa della sua Biblioteca, il nuovo e più duraturo stemma che, al posto di quello tutto sommato grossolano e caduco della sua casata, avrebbe dovuto porsi a coronamento non tanto della "Libraria" fisicamente percepibile in Ventimiglia ma piuttosto di quella riproduzione ideale, ed in qualche modo universalmente conoscibile per le vie instancabili della distribuzione intellettuale, che doveva essere il "Catalogo biblioteconomico", iniziato a stamparsi dal 1673, ed il cui titolo, indubbiamente allusivo di un preciso referente, non a caso fu quello, che a noi pare scelta sbagliata perché tanto ambigua da far confondere la "biblioteca reale" colla sua sublimazione libresca, di Biblioteca Aprosiana: forse quella che oggi sembra una scelta alogica e controproducente fu al contrario pensamento critico, opzione arguta e magicamente letteraria di fissare nell'icona suprema del "libro-biblioteca" (sopravvivibile a dismisura per la frammentazione degli esemplari nella parcellizzazione delle sedi) la realtà accidentale e comunque precaria della "biblioteca dei libri" .
Né, colla scienza del poi, si può dire che il Ventimiglia avesse torto pensando ciò, quando ancora ai giorni nostri parecchi studiosi discutono della "Biblioteca Aprosiana" soltanto sulla base del libro di simile titolo che hanno consultato, quasi ignorando l'esistenza reale in Ventimiglia dell'antica "Libraria"; e che il "Catalogo del 1673" sia stato ideato quale una gigantesca e complessissima icona lo si deduce da certe peculiarità della geniale antiporta incisa dallo Striglioni su disegno del Piola che, a mio avviso, venne preferita, per una sua quasi eterea proprietà d'esorcizzare sotterranee emozioni culturali, alle competenze comunicative più meditate e in definitiva abbastanza meccaniche del bozzetto rimasto inedito, entro il quale si innervano, convivendo in maniera pressoché parassitaria, diversi valori semantici che, alla fine, si coagulano in un primario messaggio metarazionale alla cui costruzione deve però concorrere la proposizione concettuale inscritta fra le bande ( - Aprosio è il frate pio che richiama alla preghiere col santo "campanello" del suo Ordine i fedeli della Chiesa ma è anche il frate dotto che vuol risvegliare alla cultura, col pungente "campanello" dell'erudizione" i fedeli del sapere: l'uomo che nel suo "libro-biblioteca" ha fuso e diffuso le potenzialità della sua "biblioteca suprema dei libri" - ).
In effetti, come già ipotizzò Nilo Calvini, l'antiporta disegnata da Domenico Piola realmente ha i connotati di una finestra magica aperta sui tanti libri elencati nel "libro biblioteca" che, per sottili affinità d'elezione e d'allusione, rimanda alle scaffalature ed ai volumi reali della "bib1ioteca reale", come se vi si accedesse seguendo il cono di luce che dalle finestre del lato sud dell'edificio penetrava fra le bizzarre alchimie scenografiche ideate dall'agostiniano: in ultima analisi, confrontando queste riflessioni con quanto già dissi nel mio citato saggio sul precedente numero di questi nuovi "Quaderni" dell'Aprosiana, oserei persino affermare che questo bozzetto abbia costituito una fra le tante presumibili sperimentazioni iconografiche organizzate dal Ventimiglia prima d'accedere alla soluzione definitiva, da collocare in quel quinquennio (1665-1670) di fertile scambio culturale intercorso tra Aprosio, Domenico Piola, lo Striglioni e soprattutto quell'appassionato, grandissimo, di arte e lettere che fu il napoletano Antonio Muscettola, non a caso in questo quinquennio più volte soggiornante in Ventimiglia alla biblioteca, non a caso solito scrivere latinamente Approsiana, come peraltro si legge nella banda per l'iscrizione dell'icona, anziché Aprosiana come al contrario facevano Aprosio e Gandolfo.
Pur senza aver pretesa alcuna di porre fine alla questione, probabilmente irrisolvibile sino in fondo per la vacuità delle attuali recuperabili testimonianze, neppure escluderei che l'arco di tempo, in cui fu realizzata tal vignetta, si possa ancor meglio, specificatamente, rimandare a quel biennio (1664-1665), in qualche maniera magico per creatività e fervore editoriale, in cui Aprosio, cooperando col Piola, lo Striglioni ed il tipografo G.Tomaso Rossi, dopo aver curata nel ' 64 , tra Ventimiglia, Genova, Loano e Finale, la stampa, entro lo stesso volume, di una tragedia del Muscettola ("La Belisa") e di un suo commento critico della medesima opera ("Le Bellezze della Belisa"), si era sforzato di incentivare ancor più le sue curiosità intellettuali verso il ricco ambiente napoletano: del resto la collaborazione ed i contatti eruditi del Muscettola, perdipiù vero affezionato del territorio ligustico, non si interruppero affatto a stampa avvenuta ma per tutto il 1665 continuarono intensissimi, sia nei confronti di Aprosio che dei suoi amici fatta sola eccezione dell'ombroso e stravagante Striglioni, sì che si tennero alcuni incontri di gruppo presieduti dall'Aprosio stesso entro la comoda sede della biblioteca intemelia, nel corso dei quali 1'erudito napoletano era solito portare doni, libri ed oggetti d'antiquariato oltre che avanzare vulcaniche idee ed interessanti progetti editoriali [per un approfondimento critico vedi comunque l'articolo di B. Durante nel II numero della nuova serie dei "Quaderni dell'Aprosiana" qui facilmente reperibile dal "menù" sotto collegamento "pubblicazioni curate dall'Aprosiana"].