cultura barocca
 
 
 
 

Crimini Ordinari e no dell'età intermedia

indice tematico

CRIMINI ORDINARI E NO DELL'ETA' INTERMEDIA
CRIMINALI ORDINARI

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-[ADULTERIO (DISCRIMINAZIONE TRA DONNA ADULTERA E UOMO ADULTERO)]
-ABORTO PROCURATO
-ADULTERIO
-ASSASSINIO
-AVVELENAMENTO (SECOLI DEI VELENI)
-AVVELENAMENTO (VELENI USATI IN CRIMINI DI A.)
-AZZARDO (PROIBIZIONE DEL GIOCO D'AZZARDO)
-BARARE (NEL GIOCO D'AZZARDO)
-COITO CONTRO NATURA ("peccato sessuale contro natura")
-COITO ORALE (RAPPORTO SESSUALE ORALE COATTO)
-DUELLO - DUELLANTE - DUELLANTI
-FALSARIO - FALSARI
-FORNICAZIONE
-FURTO
-IMPURITA' SESSUALE
-INCESTO/ INCESTUOSO
-INFAME
-MOLESTIE SESSUALI (LUSSURIA)
-OMOSESSUALITA'
-OMOSESSUALITA' FEMMINILE - LESBISMO - SODOMIA IMPERFETTA
-PEDERASTIA
-PEDOFILIA
-PROSTITUZIONE (MASCHILE E FEMMINILE)
-PROSTITUZIONE FEMMINILE
-RAPPORTI CARNALI CON DETENUTE
-REATI MINORI
-SCRILEGIO - SACRILEGI
-SODOMIA (rapporto sessuale contro natura)
-STUPRO
-VIOLENZA CARNALE/ VIOLENZA SESSUALE (STUPRO)
-CONTRABBANDO
-ERESIA
-FURTO
-GIOCO D'AZZARDO (PROIBIZIONE DEL GIOCO D'AZZARDO)
-INFANTICIDI
-INFANTICIDIO (per magia)
-LESA MAESTA' DELLO STATO
-OMICIDIO - OMICIDI
-PRESTIERE
-RAPINA - RAPINE
-RAPIMENTI
-(ALTO) TRADIMENTO
-TRADIMENTO
-USURA (CONDANNA ECCLESIASTICA DELL'USURA)
-USURA (CONDANNA LAICA O DELLO STATO DELL'USURA)
-USURA (DISTINZIONE DELL' "USURA" E SUA PARZIALE GIUSTIFICAZIONE AD OPERA DELLO STATO)
-VIOLENZA CONTADINA
-VIOLENZA LOCALE
-ZOOFILIA














Con il termine gergale di PRESTIERE si indicavano i PRESTATORI ABUSIVI cioè coloro che, contro le norme della legge e sfruttando opportune conoscenze all'interno stesso dei Monti di Pietà, riuscivano a lucrare in modo ancora più vantaggioso.
Ad esempio le PRESTIERE si approvvigionavano gratuitamente al Monte e successivamente imponevano a quanti si valevano di esse un'usura del quindici o del venti per cento.
Dal 1649 viene proibita alle PRESTIERE la frequentazione della CASANA se non per giustificate ragioni personali.
Poiché questi USURAI impararono presto ad aggirare ogni forma di controllo il SENATO deliberò pene abbastanza severe nel caso dei reati più gravi: pene che potevano andare, salava come al solito l' ARBITRIO ( o DISCREZIONALITA' DEL GIUSDICENTE) inquirente, dall'applicazione della TORTURA DI DUE TRATTI DI CORDA sino alla detenzione in CARCERE da otto a dieci giorni.

















ARMI - ARMI PROIBITE : vedi anche DUELLO: Nella vita quotidiana del seicento l’uso delle ARMI era alquanto diffuso come scrive Giusy Ingenito nel suo saggio, in merito ad una sfida a duello lanciata nella ventimiglia seicentesca tra miliziani genovesi in servizio, comparso su "Aprosiana 2007". Molti erano i soldati di stanza nel forte S. Paolo e nelle altre postazioni di guardia di Ventimiglia e tantissimi erano soldati appartenenti alle Compagnie Scelte: del resto la città intemelia che era un sito strategico aveva dovuto affrontare sul suo territorio una buona parte degli scontri con il Piemonte Sabaudo in piena espansione nelle due guerre del 1625 e poi del 1672 (importante nel caso di quest'ultima la battaglia della chiesa di S. Pietro di Camporosso). Le risse erano all’ordine del giorno e cosa più grave, considerando la frequenza con cui venivano emanate ed aggiornate le varie leggi sull’argomento, anche i reati più gravi come l’ omicidio non erano rari come si evince dalla Legge per gl’homicidii ferite, et altro del 1668 (in SASV, "Capitaneato di Ventimiglia" , filza, 191). La prevenzione e repressione di qualsivoglia forma di violenza era considerata una delle priorità per il mantenimento dell’ordine pubblico sì che moltissime risultavano le Gride , rinnovate ogni cinque o dieci anni , promulgate dal Doge, dai Governatori e Procuratori della Serenissima Repubblica di Genova in materia di proibizione di armi come si legge ad esempio nella Prohibitione delli Archibuggi da ruota e da focile 1658 (SASV, Capitaneato di Ventimiglia, filza 163): leggi comunque anche gli articoli dal numero 36 di ALCUNE RIFORME O CAPITOLI CIRCA LA GIUSTIZIA CRIMINALE DI GENOVA [approvato il 30 giugno 1587 in "Minor Consiglio"> nuovamente discusso e revisionato fino alla definita approvazione del "Maggior Consiglio al settembre del 1587"> 42 art. per 10 pp., "Dal Palazzo Ducale à 27 di Novembre 1587/ Nella Cancelleria del N. Gio. Giacomo Merello Cancelliere e Segretario/ pubblicati e banditi a suono di tromba in Banchi di Genova "da Gieronimo Bavastro cintraco publico" > in folio a stampa senza indicatori tipografici] ed ancora le RIFORME PER LA GIUSTIZIA CRIMINALE DI GENOVA (1605) in particolare da ultimo capoverso di pagina 8. Contestualmente vari erano anche i proclami e le gride emanati dalle autorità locali contenenti divieti e relative sanzioni per coloro che disubbidivano. Si veda per esempio del Capitano di Ventimiglia la promulgazione di questo Proclama Armorum et aliorum del 1652 (in SASV, "Capitanato di Ventimiglia", filza 156).
Proclama Armorum, et aliorum
Antonio Maria Miccone Capitano di Vintimilia, e sua Giurisdizione per la Ser.ma Rep.ca di Genova.
Desiderando SS. M..to Ill.re provedere sì alla publica chè particolare, quiete de popoli, e che quella non sia perturbata dà coloro, che poco temono Iddio, e che indi sia conservata la publica salute, e non seguino disordini, né sijno bestemmiati il nome d’Iddio, né della B.V. né suoi Santi, e per por freno a coloro, che sono, mal’inclinati. Ha ordinato gli infrascritti ordini da doversi pubblicare nella presente città: e sua Giurisdizione da osservarsi inviolabilmente in tutto com’in appresso acciò non se ne possa pretendere ignoranza alcuna. - 1° Che persona alcuna, di che stato, grado, e conditione si sia soggetta alla nostra Giurisdizione non ardisca bestemmiare il nome d’Iddio, e della B.V. Maria né dei suoi Santi, né giocare a dadi ne a carte ne a giuochi d’azardo, sotto pena, per la prima volta di scutti quatro d’oro, in oro, e per altre duplicate per la mettà all’Ill.ma camera, e per l’altra metà a SS.M.to Ill.re.
- 2° Che non sia lecito a persona alcuna comprare cos’alcuna, benché minima da figlioli minori, e di famiglia, meno da fantesche senza licenza de loro Patroni sotto pena de scutti quatro d’oro in oro d’applicarsi come sopra.
- 3° Che non sia lecito a persona alcuna, di che grado, stato e conditione si sia di gettare, né far gettare immondizie nelle strade publiche, né tam poco né carroggetti in quali si passa, anzi farli nettare, e levar le pietre, et immondizie, che impediscono sotto pena di scutti doi d’oro in oro applicati, come sopra.
- 4° Che tutte le persone, che hanno fondi apperti senza porte, come anche quintane ò sia fosse, da quali scaturisca fettore debbano fra giorni dece averli murati, o farli la sua porta, e chiuderli, acciò non possano mandar fettore, sotto pena di scutti doi d’oro in oro come sopra.
- 5° Che non sia persona alcuna, che ardisca, né presuma lasciar andar per la presente città bestie porcine, né di giorno né di notte, acciò non rendano fettore, e per esser cosa indecente per l’immonditia, che fanno per le strade e per i danni, che ci possono apportare alla comune salute sotto pena di scutti doi d’oro in oro come sopra.
- 6° E perché dà Sig.ri ci vien incaricato, che dobbiam far acconciare le strade publiche, acciò li viandanti, et altri possano commodamente passare per esse per questo comandiamo a tutti coloro a quali spetta, et appresso le loro terre, e case debbano fra giorni quindici prossimi da venire dalla publicatione delle presenti haver accomodato, e fatto accomodare le strade, acciò ogn’uno possa per esse, con bestie comodamente passare sotto pena di scutti quatro d’oro in oro, come sopra.
- 7° E perché il portar l’armi è di molto danno, come si prova alla giornata, et è cosa perniciosa. Et abuso di molta consideratione; Perciò SS.M.to Ill.re comanda ad ogn’uno, e qualsivoglia persona di qualunque grado, e conditione, si sia tanto forestiera, come del paese, che non ardisca né presuma portar armi di sorte alcuna tanto nella presente città, come nelle Ville, si come ancora sopra li balli in giorno di fiera sotto pena di giorno scutti quatro d’oro in oro e di notte il doppio del giorno; oltre la perdita delle armi, applicate dette armi per una terza parte alli denunzianti, e per l’altra parte a SS. M.to Ill.re; et essendo denunziati da famegli con giuramento li sarà data fede, non intendendo però derogare l’altre grida di già fatte in materia d’armi, né meno a privileggi a quali fusse permesso poterle portare.
- 8° Di più avendo inteso SS. M.to Ill.re, esser in questa città, e sua giurisdizione abuso di sparar archibugiate si di giorno, come di notte, e dubitando che non segua qualche inconveniente ordina, e comanda, che persona alcuna, niuna esclusa ardisca, né presuma, sparar archibuggiate né di giorno, né di notte sotto pena di giorno di scutti quatro, e di notte il doppio per un terzo alla Ill.ma Camera e per il resto a SS.M.to Ill.re.
- 9° Di più ordina, e comanda il prefatto M.to Ill.re Sig. Capitano, che niuna persona di che grado, stato e conditione si sia non debba lasciar andare, né permettere che vadino nel luogo vicino al Palazzo, ove si dice la colla, ò pure castello vecchio, peccore, asini, né altre bestie di qualsivoglia sorte per oviare il fettore, che caosano, e talli altri inconvenienti sotto pena di scutti doi d’oro in oro d’applicarsi come sopra.
- 10° Di più intendendo, e prevedendo, che nella presente città, e sua Giurisdizione vi sij introdotto il ballare e che spesse volte in detti balli n’occorrono, e succedono inconveninenti, et questioni; al che volendo oviare per quanto sia possibile ordina et espressamente comanda, che niuno ardisca senza espressa licenza di SS.M.to Ill.re ballare, ne far ballare né luoghi publici, né meno alcuno sonatore ardisca sonare sotto pena di lire cinquanta per ognuno, che contrafarà, e questo per mantenimento della quiete come sopra.
- 11° Di più essendo questa città di transito, et introduzione de forestieri, et importanto al servitio publico, che s’habbia, notizia di quelli, che s’introducono, ordina come sopra e comanda, ch’ogniuno di qualsivoglia grado, e conditione, non introduchi, meno recetti ne allogi in casa loro forestieri alcuno, che prima non ne facci la dovuta denuncia a SS. M.to Ill.re, sotto pena di lire cinquanta, et ogn’altra arbitraria al Prest.mo Magistrato di Guerra.
- 12° Si proibisce ancora a tutti li hosti e tavernari, che passata uni hora di notte non possin o, né sij lecito recettare, né dar da mangiare, né bevere ad alcuno, meno per se, come per interposta persona sotto pena di scutti quatro per ogni volta, che contraffaranno.
- 13° In’oltre perché l’andare a cacchia
(sic!) resta cosa di molto danno e pregiudicio col portare dell’armi sotto pretesto della cachia, se tal volta si fanno delli mancamenti e si fanno danni alle campagne d’altrui, sordina perciò , che niuno non possa né presuma andare a cachia con sorte alcuna d’archibuggi, come da ruota e focile, senza espressa licenza di SS.M.to Ill.re sotto pena di scutti quatro d’oro in oro per ogni volta, che si contrafarà. Dichiarando in’oltre SS. M.to Ill.re che tutte le citatte pene rispettivamente saranno siccome vole, che sieno in arbitrio di SS quale si risalva. Ogn’uno dunque avertisca a trasgredire perché sarà irremi…bilmente castigato e perché non se ne possa pretendere ignoranza, hà ordinato SS.M.to Ill.re si facci la presente publica grida da pubblicarsi ne’ luoghi soliti, e consueti della presente città, e ville. Dato in Vintimiglia a primo luglio 1652.
Paolo batta Garib…. Cancelliere.
Il 10 luglio Agostino Pallanca, nunzio della Comunità, pubblica il suddetto proclama nella città di Ventimiglia e nelle ville di Campirubei, Sancti Blaxi, Vallicroxia, Soldani, Saxi, Vallisbona, Burgheti et Burdigheta ad alta ed intelegibile voce
.
L’occasione alle risse, in primis, le offrivano le feste da ballo e quindi altre ricorrenze festose come, ad esempio, il carnevale: e sempre custodito presso l’Archivio di Stato di Ventimiglia (e trascritto da Giuseppa Ingenito in Una sfida a duello in un processo ventimigliese del 1600, saggio edito nella rivista "Aprosiana" 2007 in occasione delle celebrazioni per il quattrocentesimo anno della nascita di Angelico Aprosio) si legga questo: Proclama sui balli
Benedetto Risso Capitano nella Città di Vintimiglia e sua giurisdizione per la Ser.ma Repubblica di Genova.
Quanta sij l’ira verso di noi di Dio nostro Sig.re per li pecati nostri da ognuno può molto bene esser conosciuta. Poiché non è Provincia alcuna nell’afflitta Italia, che non provi il flagello della contagione con gran mortalità, siccome ad ogniuno in questa Città, e giurisdizione è noto, resta non dimeno per mera misericordia dell’istesso Dio nostro Sig.re, sin’a quest’ hora che tal morbo intata la felice Città di Genova con suo dominio, et a fin, che si venghino a levar via le caose le qualli possono spingere l’immensa misericordia divina a far giusta vendetta de nostri pecati, l’una de qualli stimiamo poter essere il ballo, che giornalmente si fà con poca modestia , e dal qualle non può nascere se non occasione di gran scandalo, et offesa verso S.D.M.tà, e volendo noi per quanto sia possibile provvedere per il carrico che teniamo, che per tal caosa non vogli Dio farci provare detto flagello. Per la presente ordiniamo, et espressamente comandiamo ad ogni singola persona di questa nostra giurisdizione, di qual grado, stato, e condizione si sia, si dell’uno, che dell’altro sesso, che in l’avenire sin’a novo ordine si debba astenere da ballare in qualunque modo si publico, che privato, e successivamente ordiniamo, et espressamente come sopra comandiamo a qualunque persona che tanto in logo privato, come publico non ardischa ne presuma di sonare con qualsivoglia sorte d’instromento ò, altra cosa atta al sono sopra la qualle altri possino ballare sotto la pena tanto a detti Sonatori, che ballarini, e, chi fusse authore, o protettore di detti balli, di scuti venticinque d’oro in oro, da pagarsi infalibilmente applicati per una terza parte alla Compagnia del Sac.mo Corpus Domini della presente Città di Vintimiglia l’altra terza parte all’Ill.ma Camera, e l’altra terza parte a detto Sig. Capitano dà doversi esigere per ogniuno che contrafara, et acciò che alcuno non possa di quanto sopra pretenderne ignoranza habbiamo ordinato la presente sij publicata in tutti i luoghi soliti, e consueti della presente Città, e soa giurisdizione. Guardonssi dunque ogniuno a non falire perché in cio labilmente saranno castigati.
Dato in Vintimiglia nel Palazzo Comune li 7 settembre 1630.
Giò Maria Morello, Cancelliere .

Di frequente, anche per l'effetto inebriante del buon vino locale, abusando della loro carica di moschettieri, cavalieri, archibugieri, ecc., i miliziani, a gruppetti e magari ebbri, facevano scorribande notturne, armati di archibugi od altre armi in cerca di un qualsiasi pretesto per dissipare l'abituale noia con qualche rissa. In un proclama del 1619 si legge: “Presentendo noi da più persone quali ci hanno fatto lamenti che molti sotto pretesto di esser moschettierij vanno tutta la notte per la città armati con spada nuda e pugnali alcuni di archibuggio et altr’armi.......et a truppe di quatro ò cinque insieme fanno dell’incontri a chi li capita et incontro con pericolo di qualche scandalo notabile et vilipendio della Giustitia, al che volendo noi quanto possiamo procedere per le presenti note gride et proibitioni ordiniamo et comandiamo che nell’avvenire non sia persona alcuna di che stato conditione si sia ò moschettieri ò non moschettieri che passato le tre hore di notte non vadino atornio con armi di sorte alcuna ne in truppa o più di due ò tre insieme ma ciascheduno vadi per li fatti propri col suo lume come si conviene al viver pubblico et quanto altrimenti ritrovandosi armati come sopra senza lume incorrenano si come vogliamo incorrano nella pena di lire venticinque e perdita arma applicata per tre parti l’una al fisco et l’altra all’accusatore et l’altra a noi, et secondo la qualità dell’ armi in pena maggiore conforme alla prohibitione in dette armi et sott’ogni altra pena arbitraria al Ser.mo Senato et à finche alcuno non ne possi et voglia pretenderne ignoranza vogliamo le presenti nostre siano publicate conforme al solito et affisse al pallazo civico. Dato in Vintimiglia dal pallazo di nostra solita habitatione li 30 novembre . Gio Batta Simoni Notaio e Cancelliere" (vedi: SASV, "Capitaneato di Ventimiglia" , cart. 105). A risposta di ciò con una nota spedita dalla Signoria in Genova si invita il Capitano di Ventimiglia a proibire l’uso delle armi anche a coloro che ne hanno licenza: a tutti coloro che hanno licenza di portar armi per codesta città doppo le doe hore di notte, la qual prohibitione vogliamo che habbia a durare per tutto il giorno di Carnovale prossimo, e chi contrafara passate le dette doe hore li castigherete nonostante li privilegi e concessioni loro...../In Genova li 11 decembris 1619 (vedi in SASV, "Capitaneato di Ventimiglia" , cart. 105.). Interventi del potere centrale o delle autorità locali poco comunque valsero contro l’uso dei duelli e soprattutto il vezzo di girare per le città portando ARMI PROIBITE> in merito a cio’ si ebbero anche interventi della ROTA CRIMINALE. Il CAPITOLO 17 del repertorio delle PENE degli STATUTI MILITARI del 1722 dello ZIGNAGO fa cenno alla PROIBIZIONE PER I SOLDATI DI PASSEGGIARE IN ARMI IN LUOGHI PROIBITI: si allude in qualche modo anche al trasporto di ARMI ILLECITE ma non con la chiarezza delle RIFORME AGLI STATUTI CRIMINALI genovesi del XVI Sec. [si citano in particolare al CAPITOLO N.36 ("PISTOLE CORTE") ED AL CAPITOLO N.37 ("ARCHIBUGI LUNGHI": QUINDI MAGGIORMENTE PRECISI E TALI DA GARANTIRE L'AGGUATO)] e delle RIFORME DELLA GIUSTIZIA del 1605 (ove si sancì sia contro l'uso di ARMI che si potessero, date le dimensioni, celare tra gli abiti sì da sorprendere avversari e/o viandanti ed ancora di FUCILI ed ARCHIBUGI che rendessero fattibile celarsi dietro qualche riparo onde colpire da lontano ignari passeggeri). In merito al PORTO DELLE ARMI e all'indicazione delle ARMI PROIBITE i dati più estesi si recuperano dall'opera monumentale e quasi coeva di quella dello Zignago del giurista meridionale FRANCESCO GIUSEPPE DE ANGELIS (Tractatus Criminalis. De delictis in tres parte divisus, Venetiis, apud Paulum Balleonium, 1705, parte I, cap. X - XV): costui nel CAPO XI indica, con rara ed utile minuzia, una sequela di ARMI PROIBITE DA VARI DECRETI che, benché proprie del Regno di Napoli, sono per tipologia prossime alle ARMI ILLECITE ovunque indicate. Al CAPITOLO XII l'autore specifica e delucida su tali ARMI PROIBITE citando anche le pene comminabili: qui è utile solo l'ELENCO DELLE ARMI ILLECITE estensibile anche al genovesato. Si menzionano "ACCETTULI, SEU ACCETTE PICCOLE - ARCHIBUGIETTO, PISTOLA CORTA & TERZAROLA -BALESTRE PICCOLE A POZONE - BACCHETTE SEU VERGHE - BROCCHIERI, SCUDI O ROTELLE - CAPPELLI FORTI SEU ELMI O CIMIERI - CHIRUBINI PONTUTI, ET ALTRI FERRI ET CORTELLI ALLA GENUESE [era quest'ultimo un coltello micidiale dei tipi a foglia di salvia, veri pugnali larghi e a doppio taglio, o a foglia di olivo, strette e molto acuminate. Il COLTELLO ALLA GENOVESE ebbe gran diffusione nell’Italia del XVII secolo riprendendo il genere della spada “alla frantopino” bandito per la pericolosità in numerosi Paesi d’Europa.Esso aveva un’impugnatura in legno o corno e una lama larga al tallone, che si assottigliava sin a formare uno stiletto a quattro facce con punta acutissima. Dopo che fu bandito poi riprese forma con una cruna che attraversava la punta vantando la destinazione d’uso - ufficiale - di strumento da sellaio] - ET [quei coltelli] CHE NON SONO PUNTUTI NON SI POSSANO PORTARE PIU' LUNGHI D'UN PALMO, ET CHE NON SIANO A DUE TAGLI NELLA CIMA, MA QUADRI DI SORTE CHE FACCIA CROCO, O ALTRO SEGNO DI PUNTA ASSAI NE POCO) - CORTELLI A FRONDE D'OLIVO [ "coltello paesano a fronda di ulivo", così definito per la forma longilinea della lama e del manico - arma tipica della Basilicata = T. CLAPS, A pie' del Carmine. Bozzetti e novelle basilicatesi, Potenza, CICS, 1995, in particolare la novella "Fanatica vendetta barbara"] - CORTELLE, & STORTE, MEZZE SPADE, & PISTOLESI (pistole) - DAGHE, & PUGNALI - GIACCHI, & SEU GIACCHE DI FERRO - LORICHA - PANTIERA, CASACCA DI MAGLIE, PETTO FORTE SEU CORAZZA, MANICHE, & GUANTI DI MAGLIE - PIETRE, BRECCIE, PIOMBATE - PONTAROLI - SMAGLIATORI - STILLETTI - SPADE LUNGHE PIU' DI QUATTRO PALMI DI CANNA LUNGA IN TUTTO LEVATO IL MANICO - SPADE COL FODERO TAGLIATO, & PENDENTI TAGLIATI CON LI STILETTI DI FERRO, & CON LI PINTILLI SOTTO LA GUARDIA, CHE VIENE A TENER LA SPADA DEL FODERO, DI MODO CHE SENZA VEDERSI CACCIARE, IN UN SUBITO SI VEDE ARRANCATA - SCOPPETTE A ROTA MINOR DI TRE PALMI, & A GRILLO MINOR DI QUATTRO PALMI con le giunte di p. 20, col. II: A [ NON SI POSSONO PORTARE, TENERE IN CASA PISTONI, CHERUBINI, PISTOLE MENO DI TRE PALMI LA CANNA SENZA IL TENIERE, & ARCHIBUGIETTI PICCOLI, &C....TUTTI LI ZOFFIONI, CHE SONO MENO DI TRE PALMI DI CANNA, OLTRE IL TENIERO...SCOPLI A GRILLO ( con l'annotazione di consentirli ai cacciatori PUR CHE LE CANNE NON SIANO MENO DI QUATTRO PALMI)] e B [...VERDUCHI DENTRO LI BASTONI..(spade sottili, di origine spagnola: spade da celare in un bastone da passeggio)]".














ARMI DA FUOCO INDIVIDUALI (A MICCIA - A RUOTA - SNAUPHAUNCE - A PIETRA FOCAIA - A PERCUSSIONE)> IL FUCILE: Lo sviluppo del fucile prese il via all'inizio del XIV secolo, quando si scoprì che la polvere nera poteva servire non soltanto per produrre fuochi d'artificio, ma anche per sparare presanti proiettili. Le prime armi da fuoco portatili, ideate per l'appunto durante questo secolo, venivano chiamate bombardelle, ossia piccoli cannoni; un'altra versione era l'hakbutt, o ARCHIBUGIO, un supporto di legno su cui era adagiato un corto cilindro di ferro: tale supporto disponeva d'un gancio verticale che fungeva da fermo per ridurre gli effetti del rinculo quando veniva sparato il colpo. La polvere da sparo veniva incendiata da schegge di legno ardenti, sistema sostituito attorno al 1415 da micce lente, che a loro volta lasciarono il posto ai fucili a miccia. FUCILE A MICCIA > Le prime testimonianze dei fucili a miccia si trovano in scritti, disegni e dipinti del 1470. Il fucile a miccia prevedeva un braccio di ferro curvo fissato all'arma, detto serpentina: questo braccio poteva girare su un perno centrale ed era collegato ad una leva di ferro sotto il supporto di legno dell'arma. Di fatto questa leva costituiva l'antenata del grilletto. La procedura di caricamento era la seguente: il tiratore posizionava il fucile verticalmente, inserendo una quantità determinata di polvere da sparo all'interno della canna, ovverosia il tubo metallico. La polvere veniva quindi spinta accuratamente verso il basso e pressata con una bacchetta; successivamente a questa operazione si infilava il proiettile, che a sua volta veiva calcato all'interno con la bacchetta. A quel punto l'arma era pronta per far fuoco: per incendiare la carica di polvere, una miccia accesa veniva portata verso il focone, ossia il forellino presente nell'arma. Una versione più tarda del fucile a miccia era dotata di uno scodellino d'innesco sul retro della canna. Il fuciliere collocava un pizzico di polvere da innesco nello scodellino, quindi, quando la leva veniva pressata contro il supporto, la serpentina girava attorno al proprio asse ed accostava la miccia incandescente allo scodellino d'innesco, vicino al quale si trovava una piccola apertura che permetteva al fuoco di raggiungere la carica vera e propria sul retro della canna. Questo fuoco incendiava la carica di polvere da sparo nella canna e generava una pressione tale da far fuoriuscire con forza il proiettile. Nei modelli successivi, la serpentina era provvista di una molla a balestra. Quando la serpentina era piegata all'indietro, era bloccata da un gancio: quando il gancio veniva lasciato andare, la molla faceva sì che la serpentina si spostasse in avanti. La leva per fare fuoco era talvolta sostituita da un pulsante che bloccava il gancio, in seguito rimpiazzato dal grilletto. La ricarica dei fucili a miccia era fortemente influenzata dalle condizioni atmosferiche: una forte raffica di vento, infatti, poteva far volar via la polvere da sparo dallo scodellino d'innesco, mentre la pioggia poteva impedire l'accensione dell'arma. Tale difetto ha portato ai modelli del XVII secolo con scodellino d'innesco munito di coperchio. Quando il fucile non era utilizzato, la polvere da sparo era protetta da un coperchio a perno; quando il fuciliere doveva fare uso dell'arma, faceva ruotare o piegare il coperchio dello scodellino d'innesco in modo che la miccia potesse raggiungere la polvere. Già all'inizio del 1600 i soldati, noti come moschettieri, indossavano bandoliere con contenitori che contenevano la giusta quantità per ogni carica: l'uso di corni di polvere e di fiaschi di dimensioni maggiori per ricaricare l'arma, infatti, venivano spesse volte feriti dalle ustioni causate dalla fuliggine che bruciava senza fiamma nelle canne dando fuoco anticipatamente alla polvere da sparo. La miscela esplosiva utilizzata in porzioni minori era assai più sicura. ACCIARINO A RUOTA>Il meccanismo con acciarino a ruota fu il passo successivo dell'evoluzione del fucile. Questo sistema d'accensione, che sostituì quello a miccia, in realtà era stato concepito da Leonardo da Vinci: questi redasse all'inizio del XVI secolo il Codex Atlanticus, nel quale compaiono schizzi di un acciarino a ruota. I primi modelli che montavano tale marchingegno apparvero alla fine del XV secolo. Il loro funzionamento può essere paragonato a quello di un accendino: una ruota zigrinata, comandata da una molla, sfregava una pietrina provocando delle scintille. Prima che l'arma potesse essere utilizzata, la molla doveva essere caricata, ovverosia avvitata girando una chiave e bloccata dal dente d'arresto; quando la molla era carica, il cane era piegato all'indietro. Premendo il grilletto, si sbloccava la ruota zigrinata ed il cane con la piastrina veniva a contatto con la ruota, che, girando assai velocemente grazie alla pressione della molla e sfregando la pietrina, produceva una pioggia di scintille che incendiavano la polvere d'innesco. L'acciarino a ruota era un meccanismo complesso e costoso e per di più era facilmente condizionabile dallo sporco, che poteva causare l'inceppamento del fucile: non sorprende, dunque, che alcune armi costruite nel XV secolo fossero dotate di due sistemi differenti per far fuoco. ACCIARINO SNAPHAUNCE> Nel corso del XVI e del XVII secolo vennero istituiti numerosi gruppi di moschettieri: dotarli di armi ed equipaggiamento adatti, tuttavia, costituiva una spesa alquanto elevata. La ricerca di una soluzione più economica dell'acciarino a ruota portò allo sviluppo del sistema d'accensione snaphaunce, prodotto a partire dal 1545. Il meccanismo consisteva in un cane che serrava un pezzo di pietra focaia: quando si premeva il grilletto, la pressione della molla spingeva di scatto il cane in avanti. Davanti allo scodellino d'innesco era montata una piastrina d'acciaio, sulla quale picchiava la pietra focaia del cane, provocando una scintilla che cadeva sullo scodellino, che a sua volta trasmetteva il fuoco alla carica di polvere all'interno della canna. Inizialmente lo scodellino d'innesco era chiuso da un coperchio manovrato manualmente, come nel caso degli ultimi modelli di armi da miccia; in seguito il coperchio si spostava meccanicamente quando il cane colpiva in avanti. Una variante di questo sistema fu lo snaplock svedese ("chiusura a scatto"), il quale disponeva di una piastrina d'acciaio montata sopra il coperchio dello scodellino: questo pezzo poteva essere spostato di lato e fungeva da meccanismo di sicurezza. Il fuciliere poteva dunque portare l'arma con il cane in tensione: siccome la piastrina non era in posizione, il fucile non poteva sparare, mentre il coperchio manteneva asciutto lo scodellino d'innesco. FUCILE A PIETRA FOCAIA> I fucili che presentavano l'acciarino snaphaunce furono sostituiti da quelli a pietra focaia, comparsi attorno al 1610. Questo sistema assomigliava molto a quello precedente: la differenza principale consisteva nel fatto che la piastra d'acciaio ed il coperchio dello scodellino d'innesco erano combinati in un solo elemento. Il coperchio dello scodellino del fucile a pietra focaia aveva una piastrina verticale. Quando il grilletto veniva premuto, il cane partiva in avanti, la pietra focaia colpiva l'acciaio, che si piegava assieme al coperchio, ad essa collegato. Ciò permetteva alle scintille provocate dallo sfregamento della pietra focaia sull'acciaio di cadere nell'innesco, rimasto scoperto. Il miquelet, altrimenti detto "acciarino spagnolo", è una variante del fucile a pietra focaia: le principali differenze rispetto a quel modello erano la piastrina d'acciaio zigrinata e la molla del cane che si trovava all'esterno, sulla piastra del congegno. FUCILE A PERCUSSIONE> Già nel XVII secolo gli scienziati erano alla ricerca di sistemi innovativi che potenziassero la polvere da sparo ed aumentassero la distanza raggiunta dai proiettili sparati. Furono svolti esperimenti con diverse sostanze, tra cui il mercurio e l'antimonio: a metà del XVIII secolo, il chimico francese Berthollet sviluppò l'esplosivo a base di fulminato d'argento; nel 1798 l'inglese Edward Howard scoprì un sistema più facile per produrre una sostanza alternativa, il fulminato di mercurio. Ma l'autentica rivoluzione nello sviluppo del fucile giunse solo col reverendo scozzese Alexander Forsythe di Belhelvie, nell'Aberdeenshire, che ideò il sistema a percussione, o più precisamente i suoi principi: nel 1799 egli pubblicò un trattato scientifico su un composto chimico, il fulminato, che poteva prender fuoco ricevendo un colpo secco. I meriti dello sviluppo del sistema a percussione furono rivendicati da diversi fabbricanti d'armi, tra cui gli ingegneri inglesi Joseph Egg, Joseph Manton e James Purdey nel 1816, i famosi armaioli francesi Prélat e Deboubert nel 1818 e l'americano Joshua Shaw nel 1822. Il principio su cui si basava era semplice: l'arma era caricata nella medesima maniera del fucile a miccia, poi il martelletto, il quale aveva sostituito il cane, veniva messo in tensione. Sul retro della canna era avvitato un cilindretto cavo, il luminello, sopra il quale, per sparare il colpo, veniva sistemata una piccola capsula di rame riempita di fulminato: premendo il grilletto, una molla faceva in modo che il martelletto colpisse la capsula d'innesco. Ciò provocava una detonazione che si trasmetteva attraverso il foro ed incendiava la carica principale all'interno della canna.
ARMI DA FUOCO PESANTI> ARTIGLIERIA: Il XVIII secolo segnò peraltro una completa rivisitazione delle tecniche guerresche proprio in virtù della crescente affermazione delle armi da fuoco e dell'artiglieria: ed occorre per inciso rammentare che la rivoluzione delle ARMI DA FUOCO condizionò pure la "medicina legale" e l'opera dei vulnerarii o medici-chirurghi di guerra. L'astigiano Botallo, discepolo del Falloppio, fatta esperienza di Chirurgo militare dal 1544 presso le truppe francesi in Italia, in un'opera di medicina militare, seguendo il Paré, scrisse che le "ferite d'ARMA DA FUOCO non erano AVVELENATE e potevano trattarsi CON PIU' POSSIBILITA' DI SUCCESSO e in modo MENO TRAUMATICO rispetto a quelle delle ARMI BIANCHE (frecce, dardi o lame, che secondo un'usanza rinascimentale, si spalmavano con veleni. Un discorso a parte, molto complesso, riguarda poi le armi da fuoco collettive cioè l'ARTIGLIERIA in continua evoluzione come attesta la stessa distruzione del CASTELLO DI DOLCEACQUA: in effetti durante i primi assedi ai castelli con armi da sparo a polvere pirica si utilizzavano le BOMBARDE. Delle BOMBARDE si ha notizia già nel XIII sec. ed erano fatte di verghe di ferro disposte come le doghe delle botti e saldate e rinforzate esternamente da cerchi di ferro: in tempi successivi vennero fuse in ferro, bronzo od altre leghe metalliche (erano costituite di due parti: la "tromba" in cui si metteva la palla in pietra , od anche vario materiale contundente, e la posteriore -detta "gola" o "coda"- dove stava la carica di lancio. Con il termine BOMBARDA si indicò generalmente l'"artiglieria" fino all'avvento del CANNONE a fine '400- e, tenendo conto che le BOMBARDE erano soprattutto in dotazione a truppe assedianti è fattibile che assai spesso corrispondessero alla tipologia del MORTARO o TRABOCCO tipica arma delle forze di terra impegnate nel tentativo di forzare la difesa di un castello o di una città fortificata L'Alto Medioevo, con l'esaltazione del combattimento episodico, centrato sulla figura del cavaliere, non fu certo favorevole allo sviluppo delle ARTIGLIERIE., proprie di un esercito organizzato.
Solamente la necessità imposta dagli assedi del gran numero di castelli che ostacolavano le operazioni militari, costrinse l'arte militare medievale a mantenere in vita macchine da guerra (come le BALISTAE o gli ONAGRI, molto simili a CATAPULTE perfezionate ed abbastanza mobili: armi comunque già molto sviluppate ai tempi degli eserciti di Roma ed estremamente efficienti sia negli assedi che in determinati combattimenti navali> naturalmente, col passar del tempo ed il miglioramento delle fortificazioni, queste armi, data anche la loro limitata manovrabilità, finirono per risultare insufficienti a grosse imprese di demolizione. Bisogna tuttavia rammentare che, per gli eserciti romani in cui esisteva, estremamente ben organizzata ed irregimentata, questa artiglieria nervobalistica messa in tiro e funzione da reparti specializzati, l'importanza di tali grosse armi -in grado anche di scagliare in un sol colpo un notevole numero di dardi pesanti e di proiettili demolitori- fu assai rilevante e permise di ottenere a forze imperiali abbastanza ridotte vittorie impreviste su soverchianti forze di barbari invasori) . La rivoluzione delle ARTIGLIERIE fu prodotta dalla polvere da sparo, ma per quanto le prime esperienze datino al 1200, le ARTIGLIERIE a polvere pirica (guanna, ballista mirabilis, igniferens tubus furono le prime denominazioni del pezzo di ARTIGLIERIA) impiegarono poi duecento anni ad affermarsi. Causarono il ritardo l'etica militare dell'epoca (l'uso di tali mezzi di guerra era ritenuto sleale tra cristiani), le buone prestazioni raggiunte dalle Artiglierie nervobalistiche (che anche permettevano di lanciare ostaggi o prigionieri "vivi" oltre le mura), la poca garanzia delle prime armi da fuoco. Queste (BOMBARDE) erano in 2 pezzi, detti mascolo e tromba, che talora si separavano all'atto della esplosione, facendo strage di serventi. Queste bocche da fuoco lanciavano un po' di tutto: massi di pietra, dardi, quadrelle. L'affermazione delle ARTIGLIERIE a polvere pirica si ebbe tra fine '400 e XV sec., quando la loro maggiore rapidità di tiro, la relativa semplicità di trasporto e l'economia di costruzione, le anteposero gradualmente alle macchine da guerra tradizionali. Contriburono inoltre al loro successo le evidenti qualità balistiche. La SPINGARDA (un esemplare al "Museo Poldi-Pezzoli" di Milano: altri simili esemplari si trovano a Torino -Museo Nazionale d'Artiglieria- ed a Firenze: altri esemplari sono a Copenaghen, "Tojhusmuseet") era una variante di cannone, tipica di artiglierie sottili e ad anima lunga. In seguito, nel tipo a mascolo, l'arma entrò nell'uso delle artiglieria mobile e da campagna ed era incavalcata su affusti a ruote trainati da muli o cavalli (si elaborarono anche accoppiamenti di SPINGARDE ed anche TERNE in modo da ottenere un fuoco più micidiale. La BOMBA che sparava era di ferro colato o piombo con una cavità destinata a contenere la CARICA (da un terzo alla metà in peso del proiettile) costituita di polvere più potente di quella usata per artiglierie ad anima corta o mezzana. La traiettoria tesa dei CANNONI (prescindendo dalla varia tipologia: da postazione, forte o castello, da campagna, da vascello ecc.) li rendeva efficacissimi contro opere murarie: gradualmente però se ne affermarono anche altre molteplici potenzialità di impiego. Spetta al Sovrano francese Carlo VIII durante la campagna d'Italia del 1494 lo sfruttamento ottimale della mobilità delle nuove ARTIGLIERIE (trainate da veloci cavalli), che devastarono le truppe fiorentine e napoletane. Il cannone tipico di questo secolo era realizzato in unico pezzo, con fusione di leghe diverse e poi di bronzo, ad avancarica (esperienze di armi a retrocarica con chiusura a vite furono piuttosto frequenti nel 1400, ma gli ostacoli tecnico-costruttivi non permisero una chiusura affidabile), montato su un affusto di legno, senza possibilità di brandeggio ed elevazione, trainato da coppie di buoi prima, cavalli o muli in seguito. Nei secc. XIV e XV, si esperirnentò un'arma da fuoco più leggera, destinata ad essere impiegata da un uomo solo. Si trattava dei cannoni a mano, di non oltre 19 mm di calibro, che evolvendosi in due diverse direzioni, originarono l'archibugio, la colubrina , e più estesamente l' Artiglieria Leggera. I successi delle artiglierie di Carlo VIII e poi di Alfonso d'Este nelle battaglie di Ravenna (1512) e Marignano (1515), determinarono sia un'ulteriore diffusione di queste armi, sia il fervore sperimentale del sec. XVI. Soprattutto la tecnica costruttiva delle bocche da fuoco si arricchisce nel 1500 delle esperienze sulla fusione dei metalli del senese Vannoccio Biringuccio ( 1480- 1539), e raccolte nella sua Pirotecnia oltre che delle realizzazioni di Giulio Savorgnano (1516-1595) che, a fine secolo, realizzò Artiglierie lunghe fino a 40 calibri. Il pezzo di artiglieria, dopo queste esperienze (inizio sec. XVI), è di bronzo, monoblocco, ricavato per fusione e seguente alesatura, munito di orecchioni per il puntamento in I devazione, su affusto a ruote. II proietto è una palla di ferro fuso o di piombo con un dado di ferro incorporato: il suo calibro risulta diminuito rispetto alle vecchie bombarde, che lanciavano palle di pietra fino a 700-800 mm di diametro. Appaiono anche i primi proiettili esplosivi, sfere di ferro, vuote all'interno e riempite di polvere da sparo, la cui accensione avveniva per via di una miccia passante attraverso un foro o focone. La carica di lancio era di polvere da sparo serpentina, i cui componenti (zolfo, carbone e salnitro) erano trasportati in barili separati per ragioni di sicurezza: essi venivano mescolati in un truogolo prima del caricamento dell'arma, ancora ad avancarica.Un' evoluzione (la cui idea fu già di Leonardo da Vinci) consiste nella realizzazione di un cartoccio di carta, legato alle due estremità e contenente la carica di lancio preconfezionata. Nel sec. XVII più che perfezionamenti tecnici si ebbero migliorie strutturali conseguenti ad una superiore comprensione del ruolo delle Artiglierie in battaglia: in tale quadro si diversificano così le Artiglierie da assedio e da fortezza (poi dette da piazza), le quali permangono di elevato calibro e peso, mentre si diffondono le Artiglierie da campagna, di piccolo calibro, leggere, maneggevoli e rapide nel tiro. Le bocche da fuoco di queste ultime erano fuse in metallo più sottile, per farle più leggere, e fasciate, spesso, di cuoio; impiegavano munizionamento preconfezionato con celerità di tiro superiore a quella del moschetto: le trainavano uno o due cavalli e le assistevano due serventi. Gustavo Adolfo di Svezia inserì scientificamente e con successo le Artiglierie leggere nel suo battaglione di fanteria impiegandole nella guerra dei Trent'anni ("periodo svedese" 1630-35). L'orientamento a realizzare le Artiglierie secondo le previsioni di impiego divenne fatto scientifico col francese Gribeauval nel sec. XVIII: le Artiglierie risultarono distinte nelle 4 categorie, da campagna, da assedio, da piazza e da costa, ogni arma fu quindistudiata e calcolata in relazione alle caratteristiche volute; si diversi ficano i materiali impiegati; la bocca da fuoco viene ricavata con trapanazione dei pezzi gettati in blocco di fusione, e verificata con uno strumento apposito, la stella mobile: si cominciano pure a calcolare le velocità iniziali del proietto.A Gribeauval spetta pure l'introduzione del traino a timone e l'irrobustimento degli affusti con assali di ferro, vari perfezionamenti nei sistemi di puntamento e nel munizionamento (la scatola a mitraglia). Nel Regno sabaudo contemporaneamente si costruirono e usarono (assedio di Torino del 1706) le prime efficaci artiglierie a retrocarica con un meccanismo di otturatore a blocco che scorreva verticalmente. Con tali cannoni leggeri si ottenne grande rapidità di tiro: in seguito, a metà secolo, sempre a Torino Ignazio Bertola realizzò il primo pezzo scomponibile e someggiabile da montagna, impiegato contro i franco-spagnoli nella campagna del 1744. Giuseppe Caforio, alla voce Artiglieria del Grande Dizionario Enciclopedico della Casa Editrice UTET di Torino, in merito alla grande importanza che la ricerca scientifica sabauda e piemontese ebbe dal '700 nell'evoluzione delle armi da fuoco di grosso calibro, ancora scrive: "La realizzazione e la diffusione delle Artiglierie a retrocarica si deve tuttavia alle esperienze condotte un secolo dopo dal piemontese Giovanni Cavalli (1808 - 1879), che realizzò anche la rigatura dell'anima della bocca da fuoco. Al pregio di una maggior precisione, dovuta alla stabilità del proietto lungo la traiettoria, le Artiglierie rigate aggiunsero una gittata quasi quadrupla rispetto alle bocche da fuoco tradizionali. Una curiosità storica: i primi ad adottare i cannoni rigati non furono i piemontesi, bensì i francesi, della cui Artiglieria rigata l'esercito sabaudo constatò con sorpresa le migliori prestazioni, quando li ebbe alleati nella seconda guerra di indipendenza (1859). Ancora al Cavalli debbono essere attribuite altre interessanti innovazioni ai diversi congegni costituenti il pezzo di Artiglieria, le quali, unite al miglioramento delle tecniche siderurgiche, alla realizzazione di affusti a deformazione, a studi ed esperienze di altri studiosi, come H.J. Paixhans portarono le Artiglierie ad assumere una importanza fondamentale nei conflitti del sec. XIX".



Su veleni e tossicosi da sostanze perniciose un'autorità fu il medico forlivese G. Mercuriale (1530 - 1606 ): anche se, giova rammentarlo, molti progressi si fecero nella conoscenza dell'argomento in questo secolo, anche per l'opera di naturalisti empirici come il Pomet.
[Vedi comunque qui l'interpretazione che ne darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale]
Al Mercuriale comunque giunse il grande messaggio scientifico-culturale del pensiero medico greco e romano attentissimo al campo dei Veleni e degli Antidoti: Mitridate VI Eupatore Dioniso il Grande, re del Ponto, nemico di Roma nel I sec.a.C. da cui fu sconfitto dopo 3 duri conflitti, fu per un celebrato esperto di Veleni [assimilandone piccole quantità in modo periodico avrebbe raggiunta l'assuefazione e quindi l'immunità, donde il nome di mitridatismo] e rimase famoso per aver ideato un Antidoto universale detto Mithridatium antidoton la cui formula sarebbe stata individuata da Pompeo Magno nell'archivio reale e interpretata dal liberto Pompeo Leneo; PLINIO nella Storia Naturale (XXIII, 149) ne diede una descrizione "antidoto composto da 2 noci secche, altrettanti fichi e 20 foglie di ruta, il tutto pestato ed amalgamato, con l'aggiunta di un granello di sale; a chi avesse preso questo antidoto a digiuno, nessun veleno avrebbe nuociuto durante tutta la giornata"> formula troppo elementare su cui tornò lo scienziato romano correggendosi nella stessa opera (lib.XXIX, 24) in cui, senza riportare la formula [perché evidentemente non ne era a conoscenza nella completezza], invece che di soli 4 ingredienti lo ritenne composto di 54 > ma l' Antidoto universale , oggetto di investigazioni di alchimisti, maghi e streghe nei secoli dell'età intermedia, rimase un enigma; per CELSO (V, 23,3) gli ingredienti sarebbero stati 36, per GALENO (XIV, 152-'54) 43: ne parlò Scribonio Largo Designaziano nel I sec.d.C. in una delle 471 ricette della sua De compositione medicamentorum.
. Sin al XVI sec., sulla scia della tradizione medica greco-romana, l'ANTIDOTO migliore fu considerato la triaca o teriaca , specifico contro il morso di serpenti velenosi ma poi realizzato in varie formule e a difesa contro le intossicazioni da vari tipi di veleno> la più antica teriaca nota e utilizzata da Antioco il Grande [re di Siria dal 223 al 187 a.C.], era registrata su una lapide del tempio-santuario, dell'isola di Cos nelle Sporadi meridionali, dedicato a Esculapio, dio greco della medicina e figlio di Apollo e Coronide, (Plinio, XX, 264: "[la ricetta è composta] di serpillo [specie di timo - Thymus serpyllum - coltivato per l'estrazione dell'olio di serpillo dalle proprietà carminative, che producono cioé l'espulsione di gas dall'apparato gastro-intestinale], due denari di peso (1 denario = g.4,55); opopanace [opòponaco: gommoresine ricavate da piante della famiglia delle Ombrellifere, con proprietà medicamentose destruenti, cioè capaci di liberare lo stomaco da qualche intasamento] e meo [ meum athamanticum usato in medicina antica per le proprietà toniche e diuretiche> pianta Ombrellifera], altrettanto di ciascuno; semi di trifoglio [genere Trifolium di Angiosperme Dicotiledoni della famiglia delle Leguminose, comprendente circa 300 specie di cui 60 presenti in Italia> dalle proprietà officinali utili per il sistema digestivo], un denario di peso; semi di anice [erba annua delle Ombrellifere con la proprietà medicamentosa di corroborare lo stomaco disturbato e di liberare dalle flatulenze], finocchio [della famiglia delle Ombrellifere conveniente per l'aggiustamento dello stomaco e l'eliminazione di gas intestinali], ami [grecismo: gli antichi ne conoscevano solo i semi e lo stesso Dioscoride (III, 62) nutriva delle incertezze sulla pianta, poi identificata col Trachyspermum ammi o Ammi copticum : stando a Plinio (XX, 164) avrebbe avuto la proprietà di far cessare coliche e flatulenze] e apio [con tal nome si indicano parecchie varietà delle Ombrellifere tra cui sedano, prezzemolo, anacio ma è facile che qui ci riferisca alla varietà nota fra gli antichi come apios : MATTIOLI, 462, studiando Dioscoride, cita l' apios quale pianta le cui radici e semi mescolati nel vino provocano diuresi e disintossicazione]; farina di ervo [leguminosa da cui si estraeva una farina detta ervina usata nella combinazione delle medicine], 12 denari. Si schiaccia il tutto e lo si passa al crivello, e utilizzando il miglior vino a disposizione si formano col composto delle pastiglie del peso di un vettoriato ( circa g. 2,27). Somministrarne una per volta in tre ciati (1 ciato = l. 0,045) di vino mescolato ad acqua"> la teriaca (un rimedio serio ma non miracoloso, che sedava le coliche e liberava l'organismo dalle tossine) rimase per millenni un antidoto apprezzato dalla farmacopea anche se se ne ebbero vari tipi, con formule in cui presero a comparire ingredienti animali: si va da Galeno (XIV, 1 sgg. e 82 sgg.) sino all'ultima teriaca citata dalla "Farmacopea" francese del 1884.
Il XVI sec. fu detto Secolo dei Veleni per l'uso che se ne faceva nei crimini e per la possibilità di trovare scampo: Stat. Crim. , II, 10.
[vedi comunque qui l'interpretazione che su avvelenamento, sintomatologia, veleni e tossici, e quindi delle tipologie di avvelenamento darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale]
Il timore di ingerire Veleni giunse al punto che "personaggi importanti volevano che i cibi e le bevande serviti loro fossero prima assaggiati da un'altra persona in loro presenza"> W. DURANT, Il Secolo d'oro , III, p.79 in Storia della civiltà , Edito-Service, Ginevra, 1957> l' autore riferisce che nel '500, per Roma e da Roma per tutta l'Italia rinascimentale, si sparse il terrore di un venenum atterminatum, un tossico che, insensibile a qualsiasi antidoto, agiva dopo un tempo così lungo da far perdere le tracce dell' omicida.
In questo Secolo dei Veleni si ricorreva ad ogni sotterfugio per somministrare i tossici: un espediente era quello di spalmare con sostanze velenifere le armi da taglio o da getto (usanza già menzionata da Plinio XXXII, 58: per avvelenare le punte delle lance molto spesso si usava il doricnio , genere di arbusti velenosi della famiglia delle Leguminose Papilionacee, di cui parla MATTIOLI, 548).
[vedi comunque qui l'interpretazione che su avvelenamento, sintomatologia, veleni e tossici, e quindi delle tipologie di avvelenamento darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale]
Contro le tossicosi, ma anche per le perfette cicatrizzazioni e contro i rischi di infezioni e cancrene delle ferite un esercito di alchimisti, sulla scorta di Plinio (XIX, 39 e 43; XXII, 48-49) e d' altri classici cercavano la leggendaria pianta del SILFIO della Cirenaica (già quasi estinto sotto Nerone) da cui si distillava il Làsere dai tempi di Andrea (III sec. a.C), medico del re d'Egitto Tolomeo IV Filopatore ritenuto cura di molti mali, quello che Plinio definì uno "tra i doni più straordinari della natura...[che] entra in moltissimi preparati medicinali": il Làsere di cui si disponeva nel XVI sec. era estratto dalla pianta del Laserpìzio ("Ombrellifere") di Siria, Parmenia, Media, Armenia (M. MONTIGIANO, Dioscoride Anazarbeo. Della materia medicinale, tradotto in lingua fiorentina, Firenze, 1546 o 1547, p.154) e, oltre a non essere facilmente reperibile, non aveva le qualità attribuitegli da Plinio, riferendosi egli a quello della Cirenaica (scrisse che il Làsere delle regioni orientali - estratto dal Laserpìzio del genere Ferula Asa foetida delle Ombrellifere - "è di qualità molto inferiore rispetto a quello della Cirenaica, e per di più spesso mescolato con gomma o sacopenio [gomma di ferulacea orientale ma anche di una specie italica], o fave tritate": e del resto in Italia delle 30 specie di Laserpìzio conosciute ne crescono 8 (ma senza le supposte proprietà citate da Plinio): fra gli attributi medicamentosi del Làsere ottenuto dal Laserpìzio o Silfio della Cirenaica (che non è di sicura interpretazione e per cui si è supposta l'identificazione con la Ferula tingitana ed a cui Catone, 156-7 attribuì alto valore terapeutico ) si attribuivano poteri cicatrizzanti e la qualità di antidoto sì forte da neutralizzare ogni veleno: possedere o realizzare tal prodotto avrebbe fatta la fortuna di qualsiasi alchimista, speziale o medico ed avrebbe risolto i problemi di intervento, che a volte imponevano l' amputazione dell'arto ferito ed avvelenato, per i Chirurghi.
Da quanto si è scritto si potrebbe pensare che il SILFIO, dalle prodigiose qualità terapeutiche, sia stata solo una leggenda proveniente dal passato remoto: se però, trattando della pianta Ippocrate, Galeno, Dioscoride, Apicio, Plinio Seniore e tanti altri medici ed eruditi, nel campo delle reciproche competenze, parlarono sempre in termini entusiastici, alludendo soprattutto alle straordinarie qualità medicamentose, un fondo di verità nella "leggenda" deve pur esservi stato. E, con probabilità, era ancor più che una leggenda da studiosi e scienziati, se Nerone ne pagò a prezzo elevatissimo l'ultima spedizione, che reclamò per sè alla vigilia dell'estinzione della pianta, e se, già da molto prima, il succo del Silfio veniva conservato, sotto stretta custodia, nel tesoro pubblico e nei templi.
Fatto certo è che il SILFIO, verso il I sec. d.C. scomparve nel nulla: esiste un solo modo per cercare di ricostruirne la struttura botanica, quello di visualizzarla sulle monete, i tetradrammi (come quello qui riprodotti) di CIRENE dove gli antichi incisori e zecchieri lo immortalarono nei suoi frutti, nei germogli e persino nelle dimensioni, che dovevano essere notevoli se la testa di un cavallo giungeva a malapena alla sua cima.
CIRENE (colonia greca fondata forse nel 631 da coloni dori originari di Tera [Santorini] sulle coste settentrionali dell'Africa, donde la regione fu poi detta Cirenaica), a dimostrazione della grande quantità di tali piante così fiorenti nel suo territorio da caratterizzarlo come ne fossero un "simbolo", scelse, per oltre tre secoli (631-300 a.C.) di utilizzare l'immagine della pianta come "marchio della propria identità nazionale": alla stessa maniera di come fecero un pò tutte le altre città stato e colonie greche> celebre e splendido il caso di RODI e della rappresentazione della rosa, caratteristica della pianta, sulle sue monete a decorrere dal tempo (411-407 a.C.) dell'unione (sinecismo) dei tre centri antichi dell'isola ("Lindos", "Jaliso" e "Camiro").
Gli Statuti Criminali Genovesi del 1556 nel c. 10 del lib, II citano pure sostanze velenose non letali, capaci di condurre alla follia: vi si ricorda pure l'abitudine di ricorrere agli intrugli delle streghe (nel senso di facitrici di VELENI che talora funzionavano all'istante ed a volte no e che più spesso funzionavano, fra lunghe agonie, soltanto per una "bizzarra e casuale" tossicità raggiunta dalla correlazione di intrugli vari). Gli Statuti menzionano pure la consuetudine, in particolare di nobili e dei cittadini più agiati, di prezzolare sicari - avvelenatori [detti anche untori] fra la servitù della parte avversa, affidando loro ogni compito, di procurarsi e somministrare il Veleno, anche in modi impensabili (non era casuale che si prezzolasse una serva del casato nemico, specie una donna di cucina, che potesse manipolare le stoviglie, spalmandone di tossico magari una in particolare, destinata alla vittima prescelta, aggirando il controllo dei saggiatori ufficiali che, anche per non alimentare intorno al banchetto un clima di tensione, esercitavano la supervisione in cucina, lontano dagli occhi padronali e da quelli dei convitati, e soprattutto - per evitare interminabili attese, tranne che in particolari momenti di crisi e sospetto d'attentati - non sondando il contenuto delle specifiche portate ma controllando la genuinità del pasto quando era ancora nel grande recipiente ove era stato preparato; anche se, giova dirlo, non mancarono casi in cui gli avvelenatori, per non fallire o dovendo colpire un nucleo intiero di famiglia, non si fecero scrupolo di "ungere" di veleno proprio la superficie della grande pentola in cui si era preparato il pasto per la globalità dei banchettanti: B. DAVANZATI, Opere (Firenze, 1852 - '53, 2 voll.) II, p.358: "Anna gli fece avvelenare la pentola" (negli Statuti si legge che molti delinquenti si servivano per i loro crimini di bambini e minori sì che mentre questi sarebbero stati salvaguardati contro le pene dall'età, loro, i mandanti, avrebbero potuto allontanare da sè i sospetti o scampare dalle massime accuse, d'ufficio e no = vedi comunque qui l'interpretazione che su avvelenamento, sintomatologia, veleni e tossici, e quindi delle tipologie di avvelenamento darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale).

Il GUAIACO (ant. guiaco) è una pianta della famiglia delle Zigofillacee. Quelle della specie GUAIACUM OFFICINALE sono alte da 6 a 10 m. con foglie persistenti, opposte, peripennate, fiori azzurri in piccole cime, frutto capsulare> sono piante originare dell'AMERICA CENTRALE.
Una specie affine, il GUIACUM SANCTUM cresce nella Florida e nelle Bahamas. Il legno, durissimo, di colore bruno o verde bruno, di grato odore, di sapore acre ed aromatico, costuisce la DROGA detta LEGNO DI GUAIACO o LEGNO SANTO e soprattutto gli Spagnoli si arricchirono con essa importandola in Europa essendo ritenuta un potente rimedio contro le affezioni della SIFILIDE (cosa non vera: in effetti il GUAIACO è pianta curativa ma come antisettico e curativo nelle malattie della vie respiratorie: come si prese a scoprire da quando, nel 1826, Unverborden ottenne per distillazione il GUIACOLO -etere monometilico della pirocatechina-).
Il nome SIFILIDE (malattia che col suo dirompente "arrivo" in Europa quasi SCONVOLSE i teoremi della medicina ufficiale) deriva dal poema dell'autore italiano Gerolamo Fracastoro cioè Syphilis seu de morbo gallico , Padova, 1530: "Morbo gallico italianizzato in Mal franzese altra denominazione ritendensosi l'infezione introdotta i Europa dagli esploratori francesi delle Americhe: per ragioni pressoché identiche fu anche detta Mal napoletano> si cita poi anche la denominazione di LUE.
La variabilità del nome, che alludeva spesso alla provenienza, era dovuta appunto al fatto che, per quanto si può dedurre dalle prime notizie storiche, la malattia sembrerebbe esser stata importata dalle Americhe e, addirittura, si ritennero responsabili della primitiva diffusione gli equipaggi di Cristoforo Colombo (il contagio dipende dal batterio Treponema pallidum e può esser trasmessa alla prole: essa ha avuto larga diffusione soprattutto nel XIX sec. con effetti devastanti fino all'introduzione in terapia degli arsenobenzoli e quindi dei sali di bismuto ed infine della penicillina: anche dalla metà del '500 tuttavia, in Liguria come in tutta Europa, gli effetti disastrosi della malattia diventarono oggetto di grave se non isterica preoccupazione della Sanità pubblica.
Una variante assolutamente antiscientifica dell'interpretazione della SIFILIDE, e che comportava connessioni sia con l' ASTROLOGIA che con la MAGIA, fu sorprendentemente accolta da alcuni medici fisici come Dietrich Ulsen che accompagnò con una sua celebre profezia medica la rappresentazione del SIFILITICO di Albrecht Durer (incisione del 1496): secondo la profezia del medico la SIFILIDE era sì una malattia ma la sua diffusione epidemica sarebbe stata agevolata dalla congiunzione planetaria del pianeta GIOVE con SATURNO nel segno dello SCORPIONE, avvenuta poco più di dieci anni prima nel 1484 (vedi: C. d'AFFLITTO, in Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del Cinquecento , sezione Astrologia, magia, alchimia , Firenze, Edizioni medicee, 1980, p.335).
Questa VARIANTE PSEUDOMEDICA che affonda le sue radici parte nella MAGIA NATURALE, parte nell'ASTROLOGIA e parte nella SCIENZA MEDICA del tempo non costituisce tuttavia un fenomeno isolato.
A livello popolare la CAUSALITA' DELLE MALATTIE si caricò di ELEMENTI MAGICI e di un BAGAGLIO DI SUPERSTIZIONE che affondava le radici colte nella cultura dell'ARETALOGIA GRECO-ROMANA e di una MEDICINA POPOLARE ANTICA per cui, con vari espedienti (anche non privi di fondamento come il lavaggio nelle acque termali) si guariva da determinate malattie) ma per cui, talora, la MALATTIA era PUNIZIONE DIVINA PER UNA COLPA PROPRIA O DELLA FAMIGLIA: da qui, specie nei paesi mediterranei, si sviluppò, a livello di cultura popolare la consuetudine di nascondere dalla famiglia la malattia di un congiunto, come EFFETTO DELLA MALVAGITA' DI UN DEMONE MALIGNO O DI UN DIO PAGANO DIVENUTO DEMONE PER EFFETTO DELLA CRISTIANIZZAZIONE o quale ARTIFICIO DI MAGIA NERA, praticata da STREGHE, FATTUCCHIERE o MASCHE, specie in caso di malattia inspiegabile come una FORMA EPIDEMICA [ma anche un'impotenza a procreare, la tendenza ad abortire, la MALATTIA MENTALE nelle forme più temute, la MELANCONIA/MELANCOLIA, che poi era la DEPRESSIONE, ma che si ritenne a lungo effetto d'un MALEFICIO DIABOLICO (quando invero non se ne tentarono altre spiegazioni, magari con la discussa TEORIA DEGLI AFFETTI E DELLE PASSIONI [TEORIA DELLE INCLINAZIONI]), e la NEVRASTENIA OSSESSIVA, non compresa e quindi ricondotta al campo soprannaturale delle POSSESSIONI DIABOLICHE (INDEMONIATO - INDEMONIATA)] od un CANCRO, la MALATTIA che i DEMONI e le STREGHE scatenavano frequentemente contro le loro VITTIME.
L'indagine sui Veleni [vedi comunque qui l'interpretazione che su avvelenamento, sintomatologia, veleni e tossici, e quindi delle tipologie di avvelenamento darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale] in uso nell'epoca comporterebbe una trattazione specifica ma per avere un'idea si possono citare:
La CICUTA che le streghe avrebbero poi usato come componente fondamentale del loro velenoso UNGUENTO.
il CORIANDOLO: usato in erboristeria ma noto per esser ingrediente di filtri stregoneschi.
L'ERBA SARDONICA o SARDONIA causa come veleno delle convulsioni del RISO SARDONICO ma anche utilizzata in certi giovevoli medicamenti.
il GIUSQUIAMO veleno di estrazione vegetale, molto economico, popolare e tristemente diffuso (anche nell'Amleto di Shakespeare viene citato il giusquiamo come il veleno che il fratello del re di Danimarca e padre di Amleto avrebbe istillato nelle orecchie del congiunto per succedergli come Sovrano di Danimarca e sposarne la consorte).
la LAVANDA ed i rischi di un suo USO SCORRETTO NEL CAMPO DELLA MAGIA.
Lo STRAMONIO od "erba delle streghe": una connessione storica fra pozione malefica e stregoneria fu testimoniata da avvelenamento con stramonio, che in dosi massicce comportava alterazioni nervose, disturbi visivi, allucinazioni: lo stramonio è una pianta delle solanacee cui venne attribuito il soprannome d' "erba delle streghe o del diavolo", nei paesi anglosassoni ove si credeva che i suoi componenti alcaloidi servissero per gli incantesimi delle streghe causando, in occasione di carestie, sanguinose persecuzioni verso chi ne coltivasse anche piccole quantità nei propri orti: le foglie dello stramonio, originario della regione caspica ma diffuso allo stato spontaneo in tutta Europa, costituiscono la droga (stramonii folia) della Farmacopea ufficiale italiana contenente l'alcaloide josciamina, che nell'estrazione si trasforma in atropina, il cui uso in terapia si esplica quale calmante: S. MARSZALKOWICS, L'elemento tossicologico nella stregoneria e nel demonismo medievale in "Lavori di storia della medicina", 1936-7, Roma, ed.1938].
Il TABACCO (altresì citato quale TABACO -TOBACO secondo la forma delle parlate di Haiti da cui ne deriva il fitonimo) fu termine che si prese ad utilizzare sin dal XVI secolo per indicare le foglie di origine sudamericana e caribica che introdusse in Europa per primo nel 1559 Gonçalo Hernàndez di Toledo per incarico del re di Spagna Filippo II.
La diffusione della pianta avvenne però soprattutto ad opera di Jean Nicot de Villemai verso il 1560 nell'ambito della corte di Francesco II e di Caterina de' Medici.
Verso il 1586 nell'Historia generalis plantarum di Jacques Dalechamps la pianta, già citata col fitonimo di herba prioris od herbe du gran Prieur in quanto coltivata a fini medicamentosi dal Gran Priore di Francia della Casa di Lorena, assunse la nuova nominazione di herba nicotiniana a titolo di commemorazione del suo principale divulgatore, appunto Nicot.
Tuttavia le rimase come fitonimo principale quello più antico di TABACCO (peraltro destinato ad essere fissato scientificamente dalla classificazione del Linneo) che i commercianti spagnoli usavano abitualmente sin dai primi tempi e che trasmisero quindi ai mercanti olandesi e quindi ai produttori americani della Virginia.
La diffusione del TABACCO in Italia (per fumo, fiuto ed uso medicamentose) procedette trionfalmente dall'Olanda verso i primi del '600 (1615): nella penisola il porto di arrivo del TABACCO era lo SCALO GRANDUCALE DI LIVORNO (alla stessa maniera di quanto accadeva per il CAFFE').
L'uso divenne tanto comune che l'illuminista Bernardino Ramazzini nella sua opera De Morbis artificum [Modena, 1700, ristampata più volte e di cui esiste una buona traduzione italiana dell'Abate Francesco Chiari, Venezia, Occhi, 1754] scrisse (si cita dalla traduzione): "E' un'invenzione di questo secolo (almeno nella nostra Italia) o un uso vizioso questa polvere dell'erba nicoziana e non v'è cosa più usata, s' dalle donne che dagli uomini e da' fanciulli altresì, in guisa che la compra di esso si ripone fra le spese quotidiane della famiglia" [all'epoca il TABACCO veniva fumato, masticato e fiutato dagli uomini, oltre che fiutato spesso anche fumato dalle donne come terapia contro il mal di denti ed inoltre era frequentemente impiegato contro la stitichezza dei bambini sotto forma di "clisteri di polvere di herba nicotiana": è peraltro poco noto che di siffatte proprietà terapeutiche del tabacco proprio un letterato ligure settecentesco Celestino Massucco compose uno specifico elogio entro un suo poemetto, appunto intitolato Il Tabacco, e tuttora leggibile entro l'antologia letteraria ligure dell'anno 1789 curata dall'erudito e letterato ligure Ambrogio Balbi].
Pier delle Ville (Pietro Loi) in un suo utile saggio ha affrontato il problema dell'uso, dell'abuso e delle presunte qualità terapeutiche del TABACCO sulla base del materiale custodito in Ventimiglia nella Biblioteca [Aprosiana] erettavi dall'erudito del '600 Angelico Aprosio.
La lettura delle pagine di Pier delle Ville, che fu illustre veterinario e valente naturalista, permettono di vivere da vicino il dibattito appassionato che già nel Seicento si accese sulla valenza terapeutica o non del tabacco oltre che sulla moda del fumare, fiutare e masticare i vari preparati della lavorazione delle foglie del tabacco.
Scrive quindi l'autore con la riconosciuta competenza scientifica:
'(pp.1 - 5) Questa pianta, dotata di qualità ornamentali, aveva in origine due varietà: Nicotiana tabacum e Nicotiana rustica, secondo la nomenclatura botanica, distinguibili per il fiore tubolare allungato e dai petali rossicci della prima, e più piccolo e giallino dell' altra; anche le foglie diversificano per grandezza.
La Nicotiana rustica contiene molto più nicotina ed altri veleni, tutti facilmente assorbibili applicando la foglia sulla cute: è peggio della socratica cicuta mortifera, peggio dello shespiriano giusquiamo corruttore, e gli animali evitano di brucarla.
Per allontanare gli alcaloidi tossici, dopo il raccolto le foglie sono fatte appassire all' ombra, e lasciate fermentare prima di subire lavorazioni di vario tipo, per produrre i tabacchi d'uso.
Perché questa pianta, dal 1500 in poi, è entrata nell'abitudine assurda e dannosa del fumo! Il commercio transoceanico portò molti vegetali, nuovi per l' Europa, dalla patata al pomodoro, e caffè, mais , cacao, tabacco: il meno utile si affermò rapidamente nell'uso, mentre la patata destinata a sfamare i popoli potè imporsi relativamente più tardi.
Esistono testi del 1500 e del 1600 che trattano del tabacco, del cacao, e del tè: la Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia conserva diverse opere su questi vegetali.
Innanzi tutto numerosi testi di botanica, ad esempio uno Zenoni, Historia Botanica (Bologna, G. Lorghi, 1675) e un Montalbani, Hortus Botanigrophicus (Bologna, 1660).
Ovidio Montalbani, "philosophus naturalis", rappresenta una classificazione dei vegetali non per caratteri, come nel 1700 farà il Linneo, ma per habitat delle piante, o per incerte somiglianze. Del melo sono elencati come affini, con descrizione, quattordici piante, compresi il melograno ed i limoni. I tassonomisti a cui si riferisce il Montalbani sono cospicui nomi del passato: Dioscoride, Teofrasto, Galeno, Dodona, Bauhinio, Lobelio. L'autore tratta anche di Nicotiana maior, di Hyoshiamus peruvianus, di Datura stramonium. Ma del tabacco specificatamente scrive il medico ravennate Massimo Zavona nell'Abuso del Tabacco nei Nostri Tempi (Bologna 1650) in lingua italiana. Dall'elenco "Nomi'de gl'autori citati nell'opera" si prevede una trattazione erudita piuttosto che strettamente scientifica (Agrippa, Avicenna, Cesalpino... Vucherio). In otto capitoli è considerata l'origine ed il nome del tabacco, della forma e figura... della preparazione.
L'VIII capitolo è intestato: "L'uso d'oggidì del tabacco è un abuso". Nel testo in breve si scopre una contaminazione ascientifica, non sperimentale, con le confuse fantasie del secolo: "Ma se bene tuti che scrivono del tabacco concordano a constituirlo del temperamento caldo discordano nondimeno nel determinare il grado di calore, perché Monarale e Delecampio lo costituiscono caldo e secco nel secondo grado e temperato nelle altre qualità. Cesalpinio lo pone caldo nel primo grado e secco nel terzo... Altri... dicono essere di temperamento freddissimo". Spiegare oggi perché e percome il tabacco fosse caldo o freddo sarebbe sprecare carta, inchiostro e tempo.
Gli autori, qual più qual meno, sono interessati all'uso terapeutico delle foglie, cui vengono attribuite disparate capacità curative, in parte secondo osservazione, in parte secondo la pseudoscienza del secolo fantasioso. Non mancano ricette che ci fanno pensare ad una prima introduzione farmaceutica del tabacco , con successivo sviluppo d'un uso "edonistico". Le ricette hanno l'obbiettivo di esercitare un'azione "calda" in un gran nurnero di malanni "freddi": "A dolori articolari cagionati da materia o causa fredda... giovano lefoglie applicate calde". A parte fantasiose chiacchiere, lo Zavona esprime pareri utili ancor oggi, contro il vizio del fumo: "Fui sempre e sono di parere che il tabacco (adoprato nel modo che oggi si costuma)... si debba piuttosto chiamare abuso... Di questo parere fu Pietro Francesco Frigio Autore Moderno... annovera tra i mezzi di abbreviarsi la vita lo smodato pigliare il tabacco, e dice: A questi tempi è accresciato un uso per il quale molti scioccamente si ammazzano".
Zavona conclude: "Habbisi per ultimo quella considerazione che chi disegnasse trattenersi dal troppo uso, di farlo a poco a poco, non in un subito, perché conforme a Cornelio Celso... ogni mutazione subitanea è pericolosa ". Il buon dottor Zavona aveva individuato la patologia dell'assuefazione alle droghe.
Anche più interessante è l' opera di Giovanni Crisostomo Magen (Magnenus), "Burgundi Luxoniensis Patrici philosophi medici", docente presso l'Università di Pavia, dove pubblicò nel 1648, quattordici "Exercitationes de Tabaco". Nella "Praefactio ad Lectorem" menziona gli autori che sull'argomento lo hanno preceduto:"Everartus Antverpianus (1587), Mathies Lobellius, Johannes Neander, Bremanus Vestfaliensis ( Tabacologiahoc est Tabaci seu Nicotianae eius descriptio, ecc.). Il testo è in lingua latina, con dedica a Filippo IV, ed al regio rappresentante in Italia "Heroi Othoni Caimo". L'autore si chiede: "...laudemne aut vero damnem tabaci usus?... Tum, mi lector, utere non abutere..." e sull'uso del fiutar tabacco: "...felicitatem possimus augurari, dum starnutabis".
Segue un Sillabus, ovvero Indice delle Exercitationes, ovvero Capitoli, che conferiscono un'iniziale organicità scientifica e fanno sperare una metodicità illuministica. Sul nome ci informa: "Apud indigenos americanos vocabulo Pictalet vocatur ut ait Monardels... In Hispaniola Insula Petebecenuc dicitur teste Oviedo..: Ab Novae Franciae Pet nomine... ab Hispanis inditum ab suo natali solo insula scilicet Tabaco". Ovviamente ricorda il nome Nicotiana a Johan Nicotio regis Galliarum Legati in Lusitania anno 1559 ed altri nomi: Herba Reginae... Herba Medicea (da Caterina de' Medici).
Descrive quattro varietà di piante, minutamente, e nel paragrafo 5 dell' Exercitatione Secunda distingue in uno schema le "infima tabaci folia deteriora", quelle sviluppate presso il terreno, le inferiori, e spiega che "...natura teneriora semper magis fovet ".
Il Magen, evidentemente ben informato, colto e riflessivo, permeato di scientifica cautela, sulle virtù terapeutiche del tabacco si esprime negativamente: "Censeo primo tabacum non esse reponendum inter benigna medicamenta... vomitum enim facit... cerebrum turbat", e più avanti, Exercit IV,: "Dico primo usum familiarem tabaci pueris nullo modo convenire...".
La metodicità del testo faceva presagire un criterio scientifico illuministico, da Enciclopedia, ma anche Crisostomo Magen, come Massimo Zavona, pensa che il tabacco per effetto del suo calore secco "somni conciliatione promovet", ed avrebbe una "Relatione et Analogia" di carattere zodiacale "cum Aquario et Marte"...
Il professor Magen propone numerose ricette ed indicazioni con osservazioni critiche: per esempio ad Henricius, che consigliava: "in ore detento" un decotto di tabacco e camomilla per lenire il mal di denti, risponde: "Dentium dolor a causa frigida nullo modo tollitur tabacco".
Ricorda l'avversione per il tabacco di due regnanti: uno è il Tyrannus Ammurathes IV, che per editto vietò "... ne quisquam fumo tabaci uteretur... quia prolis multiplicatione impediebat...".
Sicuro: i suoi sudditi fumavano... come Turchi! L'altro re è "Jacobus Britanniae Regis, odio ergo tabacum... libello scripsisse Misokapnion".
La pericolosità della droga si manifestò specialmente con l'usanza sociale del fumare, del masticare e dell'annusare il tabacco, ed anche di più con la somministrazione di varie preparazioni per finalità farmacoterapiche. In sostanza la nicotina e gli altri alcaloidi della linfa vegetale sono talmente tossici, che tutti i tentativi del passato di introdurli in terapia sono falliti. Infine oggi un estratto nicotinico può essere utilizzato solo in agricoltura a fine parassiticida.
Di Angelico Aprosio esiste un manoscritto, parzialmente pubblicato dal Durante nel I volume monografico di questa Nuova Serie dei Quaderni dell 'Aprosiana edito nel 1993, presso la Biblioteca Universitaria di Genova: si tratta della seconda parte "Dello Scudo di Rinaldo", opera moralistica. Il capitolo VIII, "Del Tabacco e dell 'abuso di esso" e dedicato "Al Signor Domenico Panarolo filosofo medico e pubblico professore di Medicina nel Romano Ateneo". Nella pagina segnata 254 del manoscritto l'Aprosio manifesta notevole disprezzo per l'uso del tabacco, che "Da Galeotti passò alle mani dei Birri e di simile canaglia... ridotto in sottilissima polvere cominciò a lasciarsi vedere tra quelle d'uomini dei piu' civili, in tanta moderazione che la quantità... di un fagiuolo indiano era soverchia a pascere i pruriti del naso per il corso di un anno lunare: ora è talmente cresciato l'abuso... che apparendo incapaci le scatolette, non mancano di quelli che se lo pongono nelle tasche a rinfuso... In tutte le città altro non si veggono che cartelli di tabacivendoli, ed in Londra in particolare come riferisce Barnaba de Riicke citato da Henrico de Engelgrave se ne veggono e se ne contano piu' di mille botteghe... ". A pagina 266 del manoscritto 1'Aprosio conclude con durezza: "II tabacco distrugge e malmena in tutto mentre egli fa arrugginire... i nervi immediatamente del cervello e gli rubba ogni argentino candore... Tabaci cerebro valde Inimici"...'
La MANDRAGORA, più dello STRAMONIO, "famigerato soprattutto nelle isole britanniche, fu l'"erba delle streghe" tipica dell'Europa continentale (Italia compresa) Delle bacche di questa solanacea si sarebbero servite streghe e fattucchiere per preparare narcotici e filtri amatori, non di necessità quindi mortali ma comunque capaci di alterare e condizionare la mente di un uomo.
Nell'antica erboristeria si credeva poi che gli infusi di MANDRAGORA fossero utili contro sterilità (Teofrasto, Plinio). Pitagora riteneva che le radici rendessero invisibili.
Si diceva che procurasse voluttà, che guarisse malanni, che recasse fortuna nei processi e nelle liti: erba magica per eccellenza... dunque!
Le più cupe leggende accompagnano comunque la storia di questo vegetale: esso veniva considerato della massima efficienza, specialmente quando fosse stato colto sotto una forca, ai piedi dell'impiccato, bagnato da goccia di sperma emessa negli ultimi spasimi, durante l'agonia.
Caratteristico è anche il modo con cui doveva essere colta: non doveva venir toccata dall'uomo poiché come diceva la leggenda questi sarebbe morto fulminato nel momento stesso che l'avesse sradicata.
Allora era necessario legarla a mezzo di corda al collo di un cane nero: s'incitava la bestia alla corsa, la MANDRAGORA veniva sradicata e il cane moriva. Nello stesso momento l'uomo doveva suonare un corno per non udire le grida che la pianta avrebbe mandato nel sentirsi staccare dal suolo: quelle grida infatti lo avrebbero fatto morire.
E' da ricordare che, sia pur vagamente la MANDRAGORA ricorda una forma umana: come tale era ritenuta un amuleto di insuperata virtù magica: la si doveva tenere gelosamente custodita in un cofanetto, vestita di abiti sontuosi, le si doveva dare regolarmente dar mangiare e da bere. Quando si credeva di udirla piangere (e si citavano testimoni che giuravano di averne sentito i gemiti!?!) si prevedevano gravi disgrazie nella famiglia.
Nella farmacologia, la MANDRAGORA era considerata erba dotata di virtù afrodisiache: tale infatti è, per vari aspetti, il concetto della omonima commedia di Machiavelli.
La sua azione principale però, a quanto sembra, era quella anestetica: accompagnata ad altri unguenti, la MANDRAGORA era somministrata ai condannati a morte.
Gli effetti magici della MANDRAGORA, secondo gli occultisti, sarebbero i più potenti di tutte le piante. Occorrerebbe però attenersi ad alcune rigorose precauzioni: tra queste, importantissima, quella di non toccarla mai con il ferro e con i cosiddetti metallini, e di raccoglierla infine sempre sottovento.
In quanto alla sua radice, secondo gli antichi testi di magia, i veri effetti magici sarebbero determinati dalla pasta ottenuta dalla stessa dopo averla pestata: ma, si sarebbe dovuto far ciò sempre in certe ore astrologiche; in certi periodi annuali: lavorando il tutto in un mortaio composto da sette metalli, formato da una lega speciale, di fabbriazione complicatissima sì che quasi tutti ricorrevano a fabbri specializzati...ma qui si è ormai sulle sabbie lella leggenda.
l'ELEOMELE era una sorta di veleno particolare sospeso tra criminalità e stregoneria le cui caratteristiche, tranne che dai competenti erboristi, non furono mai comprese del tutto.
Il NAPELLO (Aconitum napellus) o specie di ACONITO resistente ad ogni sorta di antidoto: nonostante la difficoltà di procurarselo per via clandestina ed il prezzo elevato da pagare ai migliori "maestri di veleno" il Napello era ricercato dagli Avvelenatori come simbolo del Veleno per eccellenza di potenti e cortigiani. Nel NAPELLO, assieme ad altri alcaloidi, si trova l'aconitina, uno degli alcaloidi più tossici per l'uomo: basti pensare che la dose mortale per l'uomo è di uno o due milligrammi, sì che anche la farmacopea moderna, che era riuscita a controllare l'alcaloide, ha preso ad usarlo sempre meno in terapia (dove pure a minime dosi l'alcaloide ha spiccate proprietà sedative ed analgesiche)
La pianta erbacea perenne della "Ranuncolacee", appunto l'ACONITO, nelle sue varie specie oltre il napellus e compresi il lycoetonum ed il variegatum .
Con il nome di APPIO (anche APIO) si indica una pianta della famiglia delle Ombrellifere, che comprende parcchie varietà d'orto tra cui il SEDANO (Apium graveolens), il PREZZEMOLO o APIO PALUSTRE (Apium petroselinum), l'ANACIO (Pimpinella anisum).
Traducendo la Storia Naturale di Plinio, Cristoforo Landino scrisse (BATTAGLIA, sotto voce Appio): L'erba detta Olusatro, el quale chiamano ipposelino, cioè appio cavallino, è rimedio a' morsi dello scorpione...Quello chiamato ELIOSELINO, cioè appio di palude, ha propria virtù contro a' ragni [L'APPIO o APIO era peraltro uno dei componenti degli ANTIDOTI CONTRO I VELENI].
La BELLADONNA appartiene alla famiglia delle Solanacee: gli antichi erboristi la nominano spesso anche SOLATRO [dal lat. mediev. solatru(m), contrazione della loc. solanum atrum propr. "solano scuro"] che rappresenta un nome comune di alcune piante della famiglia delle Solanacee.
La BELLADONNA contiene l'ATROPINA che veniva usata nelle giuste dosi già dagli antichi Egizi per produerre del collirio capace di far dilatare gli occhi e renderli quindi più splendenti: anche le donne romane se ne servivano per lo stesso genere di cosmesi.
L'ATROPINA ha infatti proprietà vasodilatatrici: per questo può essere usata in terapia medica per gli spasmi intestinali, i catarri bronchiali, la pertosse, le bradicardie ed anche per ridurre la sintomatologia del Morbo di Parkinson (in questo caso però sotto la forma di "Cura bulgara" somministrando cioè decotti ottenuti da un particolare tipo di Belladonna che cresce in Bulgaria).
Tuttavia la somministrazione di dosi eccessive di atropina può provocare una grave forma di avvelenamento caratterizzata da secchezza delle fauci e della gola, raucedine, disturbi visivi, tachicardia, sintomi a carico del sistema nervoso, mal di capo, vertigini, irrequietezza, allucinazioni, delirio.
l'ARSENICO usato dai Romani che lo importavano dal Ponto sotto forma del solfuro d'arsenico detto Sandaraca, poi noto come Risogallo fu uno tra i più usati tossici di quest'epoca di veleni in cui la maggior parte di sostanze nocive era estratta dalle piante: nel tentativo di elaborare antidoti reali o nella vana ricerca di cure antiche, diventate quasi mitiche, come la panacea di tutti i mali come il silfio si finiva per manipolare sostanze altamente velenose quali i composti dell'arsenico e per contrarre delle tossicosi incurabili.








Uno fra i divertimenti più praticati nell'età intermedia fu il GIOCO D'AZZARDO: e nel genovesato giunse a tale livello di popolarità che uno fra questi giochi, un'invenzione tipicamente genovese, il LOTTO, fu alla fine riconosciuto come legale dallo Stato che prese quindi a gestirne, direttamente o per appalto, l'esistenza.
La pericolosità del GIOCO D'AZZARDO (specie quello caratterizzato dai GIOCHI DELLE CARTE E DEI DADI non a torto ritenuti causa di perdizione economica e morale dall'ORATORIA ECCLESIASTICA) che poteva rovinare i patrimoni o scatenare gravi risse si riscontra ancora nei REGOLAMENTI MILITARI DI GENOVA DEL XVIII SECOLO allorché si scrissero severe NORME CONTRO SOLDATI CHE ERANO BARI O CHE GIOCAVANO D'AZZARDO.
Comunque per i PROBLEMI SOCIALI ED ECONOMICI ARRECATI DAL GIUOCO D'AZZARDO ancora una volta è la CHIESA ROMANA ad offrire le documentazioni più approfondite su usi ed abusi del giuoco: in simile contesto un sunto basilare delle discussioni giuridiche in merito a tale tematica compare nella BIBLIOTHECA CANONICA, JURIDICA... di Padre Lucio Ferraris.
La voce LUDUS - SPONSIO vi è trattata in modo eccezionalmente esaustivo e non solo in merito al LUDUS(GIUOCO) ma anche a riguardo dello SPONSIO (SCOMMESSA): il tutto viene fatto con un rigore estremo con una costante voglia di aggiornamento sì che ancora in fine della voce di propongono ulteriori postulazioni su LUDUS - SPONSIO.
Nell'INDICE - SOMMARIO
vengono analizzate tutte le variabili possibili tra gioco lecito e non, dicieti, considerazioni per i religiosi, valutazioni sui figli che dissipano i patrimoni di famiglia al gioco d'azzardo: nulla viene trascurato e, a titolo esemplificativo, vale la pena qui di segnalare un tema tuttora controverso quello che riguarda il RAPPORTO TRA UN GIOCATORE ESPERTO ED UN PRINCIPIANTE che dal Ferraris viene trattato al PUNTO 54.
Oltre al LOTTO un gioco che godette dal XVII secolo grande successo fu quello del BIRIBISSI detto anche "BIRIBIS".
Per giocare si utilizzava un tavoliere di 36 caselle ed ogni giocatore doveva estrarre tre numeri consecutivi.
Qualora indovinasse uno dei 36 numeri guadagnava 32 volte la posta.
I tre banchieri del BIRIBISSI erano chiamati BIRBANTI: uno di loro teneva il sacco dei numeri per l'estrazione, l'altro il denaro ed il terzo controllava il tavoliere.
Le autorità sia civili che ecclesiastiche cercarono di proibire o comunque impedire il gioco e addirittura un vescovo di Ventimiglia in un suo "discorso prosinodale" lo condannò severamente, visto che la popolazione per seguirlo trascurava la frequentazione di Messa e Vespro.
Lo Stato genovese intervenne poi estesamente contro ogni forma di GIOCO D'AZZARDO e con le leggi del 15 marzo 1692 e del 18 aprile 1697 cercò di colpire severamente quanti giocassero a "biribis, bassetta, venturella e faraona" come anche coloro i quali li favorissero od offrissero i loro locali per la pratica del gioco d'azzardo (e tra costoro erano davvero tanti gli osti, i locandieri, i caffettieri).
Rimuovere la passione del gioco fu un'impresa impossibile: e del resto se si calcola che, verso la fine del '600, uno dei giocatori più incalliti nel territorio di Ventimiglia era quel Capitano Giusdicente della città, che al contrario avrebbe dovuto reprimere quell'usanza, è facile intendere quanto fosse irrealizzabile il proponimento delle autorità di Genova.
A proposito di GIUOCHI e DIVERTIMENTI non è dato di scoprire nell'opera di Aprosio riferimenti particolari su GIOSTRE E TORNEI CAVALLERESCHI: in quanto religioso Aprosio non avrebbe dovuto interessarsi di arti belliche pur se la sua carica di Vicario dell'Inquisizione lo portava ineluttabilmente ad affrontare il sempre dibattuto problema del DUELLO (in dipendenza di ciò, dovendosi tenere aggiormnato sulla pubblicistica tecnica e sui temi giuridici tra altri lavori che trattano la monomachia come all'epoca si nominava il duello il frate assimilò alla "Libraria intemelia" una celebre opera sull'arte della scherma del maestro bolognese Achille Marozzo, opera che qui risulta INTEGRALMENTE DIGITALIZZATA e corredata di utili INDICI TEMATICI: PER VISUALIZZARLA INTEGRALMENTE INSERISCI IL DISCO SECONDO (TESTI) ED ATTIVALA DALL'INDICE GENERALE.
Dall'agostiniano intemelio non si ricavano nemmeno notizie sulle forme primordiali dei GIUOCHI CIRCENSI che i MERCANTI DI MERAVIGLIE, personaggi spesso al limite della legalità, organizzavano in occasione delle feste di CARNEVALE e periodicamente nell'occasione dei MERCATI AMBULANTI: forme di divertimento popolare che in Liguria pure vantarono una tradizione importante.
Nel contesto della produzione di Aprosio capitano invece riferimenti frequenti alla CACCIA ed alla PESCA attività su cui la "Libraria intemelia" non manca di rari esemplari: e su cui l'agostiniano dissertò in vari luoghi (anche per i riferimenti agli autori classici) e partcolarmente nella parte biografia della Biblioteca Aprosiana qui proposta in ANALISI IPERTESTUALE.
L'agostiniano di Ventimiglia, a differenza di quanto spesso si dice o si scrive con superficialità, non solo accumulava libri, ma li leggeva e li giudicava, spesso fornendo delle utili indicazioni.
Per esempio nel campo vastissimo dei GIOCHI STORICI / GIUOCHI STORICI egli particolarmente si interessò del GIUOCO DEL CALCIO DI SCUOLA FIORENTINA (sorprendentemente quasi nulla fu la sua attenzione al GIOCO LIGURE-PIEMONTESE DEL PALLONE ELASTICO) e del GIUOCO DEGLI SCACCHI analizzando in merito due opere di fondamentale importanza, una redatta, principalmente sotto una stimolazione culturale ed erudita, da Giovanni Bardi dei Conti di Vernio ed intitolata Discorso sopra il giuoco del calcio fiorentino, in Firenze, All'Insegna della Stella, 1673 (tuttora custodita presso la CBA) ed una seconda composta da un autentico campione del gioco degli scacchi, vale a dire Pietro Carrera di cui il frate parla diffusamente nella sua Biblioteca Aprosiana a p. 643, numero 50 [anche questa pubblicazione si trova tuttora presso la CBI intemelia].
Angelico Aprosio, come tanti altri predicatori, non lesinò critiche ai GIOCHI D'AZZARDO capaci di rovinare con le anime anche i patrimoni di famiglia: non era però estraneo ai divertimenti sani tra cui in primo luogo poneva la lettura, senza nemmeno porre troppi freni alle opere da leggere sempre che non fossero oscene [ed in ciò era decisamente meno intransigente di un anonimo autore di matrice ecclesiastica del XVIII secolo che nella sua opera dal titolo
TRATTATO DE' GIOCHI E DE' DIVERTIMENTI PERMESSI, O PROIBITI AI CRISTIANI
a proposito della scelta dei volumi da leggere o far leggere sarebbe stato decisamente più rigoroso e conservatore.

i testi di questo sito sono stati scritti dal Prof. Bartolomeo Durante
Si precisa inoltre in particolare che questo lavoro non è a scopo commerciale ma di divulgazione culturale e per uso documentario
- Professor Bartolomeo Durante