LA CATARSI
(Pene e pubblica vergogna: "dissuasioni terribili", ideate con sapiente ed orchestrata scenografia, "perché ognuno tremi solo a meditar di far crimini")

Tutte queste considerazioni non possono essere adeguatamente interpretate in senso critico senza un'analisi puntuale sui perché basilari e pressoché universali di quel meccanismo giudiziale di sanzioni che, oggi come oggi, lascia sgomento ogni lettore e che soprattutto può sembrare espressione esclusiva di feroce, immotivato sadismo istituzionale.
L'introspezione storica, onde evitare certi qualunquismi neppure estranei al pensiero illuminista, presuppone ben altre riflessioni perché il semplice lettore non si soffermi su quella porta ambiguamente spettacolare che, come già detto, può comportare un accesso di comodo o maniera verso troppi di quei luoghi vieti e comuni, frequentemente ripresi da una mediocre narrativa o da una povera cinematografia orrorifica di consumo grasso e superficiale.
A titolo proemiale e quasi provocatorio nella sua secca proposizione bisogna anticipare ogni asserzione futura con un assioma di fondo, che il supplizio nel periodo intermedio (a prescindere dalla casualità di qualche folle e singolarissimo inquisitore) non rispondeva affatto ad esigenze d'ordine sadico ma che, nel suo rispondere a molteplici obiettivi, si identificava prioritariamente con la difesa del "potere costituito".
In primo luogo è opportuno precisare che le norme statutarie, in qualsiasi Paese europeo, non concedevano troppe licenze al boia od al giudice nell'applicazione del supplizio.
Le norme criminali imponevano, salvo pesanti sanzioni avverso gli ufficiali inadempienti per eccesso o difetto, una quasi paranoica correlazione fra il grado di sofferenza imposta e l'entità della colpa da espiare.
Per questa ragione in tutti gli Statuti Criminali si imponeva ai giusdicenti un'assoluta precisione nella stesura delle sentenze e delle sanzioni: non si poteva alterare il numero né la modalità delle frustate, era obbligatorio rispettare la tipologia dell'estrema condanna, procurando - quando richiesto di legge - morte lenta od istantanea, né in alcun modo era concesso di mutilare altra parte del corpo che quella sentenziata (ed alla applicazione della pena oltre che boia e magistrati presiedeva, per garanzia e reciprocità di controllo, lo scrivano della curia col compito di registrare con estrema precisione la regolarità o meno dell'applicazione del supplizio).
Su questa prospettiva si vede bene che il pubblico, terrificante supplizio rispondeva a due fondamentali esigenze o finalità.
In prima istanza, apparentemente, sembrerebbe da doversi collocare la condanna capitale sul patibolo, la punizione, l'infamia, elevate a marchi terribili di una colpa commessa, ai limiti ben connotati del prezzo da pagarsi, alla fine di tutto, nei confronti della "società giusta che tutela gli onesti e reprime inesorabilmente i cattivi".
Ma ciò non giustificherebbe l'eclatanza scenografica delle pene, le esplosioni folkloristiche dei Magnificat, delle "Abiure" o degli "Atti di fede" e del resto una morte procurata nel recesso di un carcere o la punizione corporale imposta al riparo di occhi stupefatti costituirebbero comunque e sempre il trionfo della legge sul delinquente e l' emarginazione di costui dal complesso sociale.
Su un secondo piano, ma in realtà solo apparentemente su un secondo piano, è necessario proporre come il supplizio, attraverso le sofferenze del condannato per cui si cercava la più larga risonanza e pubblicizzazione possibile, doveva piuttosto testimoniare la difesa e la vittoria del sistema al potere.
Da ciò soprattutto derivava la pubblica esecuzione, il reo condotto al patibolo tra ali di folla plaudente e terrorizzata, i supplizi addirittura continuati dopo la morte, i cadaveri fatti a pezzi e bruciati, le loro ossa disperse al vento (persino la pubblica e ben "pubblicizzata" distruzione, fin oltre le fondamenta, delle abitazioni sede di reato nel caso di falsari o di certi colpevoli avverso natura: libro II, cap. 2 degli Ordinamenti criminali genovesi).
Il "potere" in questa lugubre scenografia cercava soprattutto d'esorcizzare l'orrore dai recessi dell'umana coscienza e non faceva ciò per mero godimento o indefessa volontà di potenza: di rimpetto alla precarietà delle istituzioni il pubblico supplizio davanti alle masse era fondamentalmente l'evocazione della "catarsi", della purificazione collettiva, dell'unico ammonimento possibile dato alle moltitudini (in assenza di qualsiasi "media" che getti, come tuttora non manca d'accadere, un "mostro in prima pagina") del crimine da non commettere, della destabilizzazione da evitare, dell'ingrigimento esistenziale da accettare quale unico sistema efficiente e funzionale per la sopravvivenza.
E fuor di dubbio la tregenda collettiva funzionava quasi sempre: per secoli popoli tanto poveri quanto ignoranti continuarono così a riconoscere nell'orripilanza di certe violenze la legittimazione terrena e divina di cui abbisognavano le due Maestà del Mondo conosciuto, quella del Sovrano o della Signoria e quella della Chiesa, cattolica o riformata che fosse.


Scendendo sul sempre utile campo delle esemplificazioni, in merito a tutto quanto è stato appena detto, giova rammentare che gli Statuti criminali genovesi mentre non mancano in più punti di far cenno alla FUNZIONE AMMONITRICE E CATARTICA della PUBBLICA PUNIZIONE (vedi fra tanti i capitoli del II libro n.2 e n.32 ) in altre loro parti fanno spesso cenno eclatante ed in qualche modo "magnificante" a quella massima espressione ligustica (e non) del supplizio capitale riassunta con la temuta espressione giudiziale, su cui già si è riflettuto, che il reo condannato a morte sia tratto al capestro per coda d'una bestia (variante delle consimili forme "a coda d'una bestia tratto" o "a coda d'una mula tratto") attraverso le pubbliche vie e sotto lo sguardo dei cittadini (si veda pei grandi criminali il libro II, capitoli 8 e seguenti; vedi anche A coda d'una bestia tratto).