MASTIO (MASCHIO)

Torre principale e maggiormente munita dei castelli medievali, delle rocche e delle fortezze rinascimentali, con la funzione di facilitare la sorveglianza dell'ambiente sterno e dei cortili interni oltre che di dar alloggio agli ambienti principali dal punto di vista funzionale come l'abitazione del castellano o del comandante, la camera del tesoro, talora le prigioni: nel Mastio risiedeva peraltro il ridotto per l'estrema difesa.










Lo scrittore DINO COMPAGNI nacque a Firenze nel 1255 da una famiglia popolana, ma riuscì ugualmente a farsi spazio nella vita politica della città, dove fu eletto per ben sei volte Console dell'Arte della Seta, dal 1282 al 1299. Priore nel 1289 e poi nel 1301, collaborò alla riforma popolare insieme a Giano della Bella e fu gonfaloniere di giustizia nel 1293. Riuscito a scampare all'esilio che sicuramente l'avrebbe colpito dopo la disfatta del Comune ad opera dei neri e di Carlo di Valois, si ritirò in completa solitudine fino alla sua morte, avvenuta nel 1324. Autore di versi in stile provenzaleggiante, Dino Compagni è legato in primo luogo all'opera CRONICA DELLE COSE OCCORRENTI NE' TEMPI SUOI, composta dal 1310 ed in cui lo scrittore narrò gli eventi che caratterizzarono Firenze dal 1280 in poi, ai quali aveva partecipato in prima persona. E' proprio questa partecipazione, soprattutto emotiva, a conferire allo scritto la forza e l'incisività ad esso caratteristiche: in particolare egli costituisce una fonte essenziale per ricostruire le lotte tra GUELFI e GHIBELLINI e successivamente lo scontro, peraltro chiave di volta di tutta l'esistenza di Dante Alighieri, tra GUELFI BIANCHI e GUELFI NERI.









CRONICA DELLE COSE OCCORRENTI NE' TEMPI SUOI
[OPERA DI
DINO COMPAGNI]

PROEMIO
Quali cagioni ebbe l'Autore a scrivere, e quali occasioni: su quale soggetto, e con quali intendimenti.
LIBRO I
CAPITOLO I
Metodo propostosi dall'Autore. Descrizione di Firenze.
CAPITOLO II
Danni e antica origine delle discordie civili in Firenze tra Guelfi e Ghibellini (1215).
CAPITOLO III
Le discordie tra' Guelfi sono cagione ch'essi si riconcilino co' Ghibellini. Ambedue le parti ottengono a paciaro ed arbitro un Legato della Chiesa (...-1279, 1280.)
CAPITOLO IV
Correndo la città novamente pericolo per civili discordie, alcuni popolani, fra' quali Dino, si consigliano insieme: e per assicurare il Popolo dalla prepotenza dei Grandi, istituiscono il Magistrato delle Arti o de' Priori (1280 - 1282).
CAPITOLO V
I nuovi magistrati fanno mala prova per disonestà e avarizia, favorendo i Grandi di Parte guelfa (1282).
CAPITOLO VI
Origine della guerra d'Arezzo, pel favore concesso da' Fiorentini ai Guelfi cacciati da quella città(1282... - 1289).
CAPITOLO VII
Disposizioni e preparativi alla guerra dall'una parte e dall'altra (1289).
CAPITOLO VIII
Trattato de' Fiorentini col Vescovo di Arezzo; come impedito dagli Aretini (1289)
CAPITOLO IX
I Fiorentini si dispongono a uscire per la via del Casentino, insieme coi collegati.
CAPITOLO X
Battaglia di Campaldino; della quale però i Fiorentini vincitori non sanno raccogliere tutti i frutti
CAPITOLO XI
Malumore in Firenze tra Popolo e Grandi. Il Gonfaloniere di Giustizia e gli Ordinamenti di Giustizia (1289 - 1293).
CAPITOLO XII
Cavilli de' giudici contro gli Ordinamenti di Giustizia; severa esecuzione dei medesimi, opposizioni, dal Popolo e da' Grandi; ardire e fermezza di Giano della Bella (1293).
CAPITOLO XIII
I Grandi congiurano in più modi a' danni di Giano (1293 - 1294).
CAPITOLO XIV
Dino scuopre a Giano la congiura. Consigli in Ognissanti (1294, dicembre...).
CAPITOLO XV
Consiglio de' Grandi in Sa' Jacopo (1294 - 1295).
CAPITOLO XVI
Tumulto popolare contro il Potestà, occasione a' nemici di Giano per infamarlo. Giano si parte dalla città, ed è condannato (1295).
CAPITOLO XVII
Assetto delle cose dopo cacciato Giano. Dissensi fra i Grandi e l'inviato imperiale Gianni di Chalons. Trame di questo co' Ghibellini e co' Guelfi; e fine della sua commissione (1295).
CAPITOLO XVIII
Condizione di Firenze negli anni susseguenti alla cacciata di Giano. Prepotere de' cattivi popolani; corruzione morale. Il gran beccaio Pecora (1295 - 1299).
CAPITOLO XIX
La Potesteria di Messer Monfiorito (1299).
CAPITOLO XX
Principio della nuova divisione fra cittadini (1300): nimicizie tra i Cerchi e i Donati (1280 - 1297...).
CAPITOLO XXI
Il Pontefice, insospettito de' Cerchi, come d'amici a' Ghibellini, manda a Firenze un Cardinale a paciaro. Sua mala riuscita. Confino de'principali delle due parti (1300,... - giugno...).
CAPITOLO XXII
Quale era stato il fatto, che determinò la nimicizia fra le due parti de' Cerchi e de' Donati: quali famiglie tennero per gli uni o per gli altri (1300 maggio).
CAPITOLO XXIII
Degli sbanditi, alcuni rompono il confino, altri sono richiamti. Consiglio de' Donati in Santa Trinita (1301, aprile - giugno...).
CAPITOLO XXIV
Dino s'intromette, per la pace della città, fra la Signoria e i Donati. I Cerchi gridano contro: e si scuopre e punisce una congiura ordinata dai Donati pel Consiglio di Santa Trinita (1301, aprile - giugno...).
CAPITOLO XXV
I Cerchi si afforzano in Pistoia. Parte nera e Parte bianca de' Cancellieri. Capitaneria di Cantino Cavalcanti. Condizioni della cittadinanza pistoiese. Capitaneria di Andrea Gherardini. Cacciata de' Neri (... - estate del 1301).
CAPITOLO XXVI
Deplorevoli conseguenze, alla città di Pistoia, della cacciata de' Neri. Accenno all'assedio che poi i Neri di Firenze posero a Pistoia nel 1306.
CAPITOLO XXVII
I Cerchi non sanno profittare in Firenze della vittoria procurata a Parte bianca in Pistoia. Schiatta Cancellieri Capitano di guerra in Firenze. Prime arti de' Donati contro i Cerchi: divisioni di Parte guelfa ( estate del 1301... )
LIBRO II
CAPITOLO I
Ai Guelfi Neri di Firenze.
CAPITOLO II
Papa Bonifazio VIII fa paciaro in Toscana Carlo di Valois, a dnno de' Guelfi bianchi (1301, autunno).
CAPITOLO III
Ambascerie de'Neri e de'Bianchi di Firenze a Carlo in Bologna, e suo passaggio dinanzi a Pistoia (1301, agosto).
CAPITOLO IV
Carlo di Valois in Corte di Roma. Ambasceria de' Guelfi Bianchi al Pontefice (1301, settembre - ottobre).
CAPITOLO V
Nuova Signoria in Firenze, la quale tenta invano e con soverchia dolcezza la pacificazione delle parti. Pessima disposizione de' Guelfi neri (1301, ottobre).
CAPITOLO VI
Carlo viene a Siena, e manda a Firenze ambasciatori, che sono ricevuti dalla Signoria (1301, ottobre).
CAPITOLO VII
La Signoria, richiesto prima il Consiglio di Parte guelfa e delle Arti, manda ambasciatori a Carlo, a fargli giurare la sicurezza della città.I Neri ne affrettano la venuta (1301, ottobre).
CAPITOLO VIII
Dino raduna i cittadini in San Giovanni, esortandoli alla concordia e alla difesa della città. Falsi giuramenti e maligne parole (1301, ottobre). CAPITOLO IX
Arrivo di Carlo di Valois in Firenze, e suo ricevimento (I novembre 1301).
CAPITOLO X
La Signoria elegge cittadini d'ambedue le parti, e si consiglia con loro della salute della città. Proposta di una nuova Signoria mista di Bianchi e di Neri; Perché non potuta accettare da' Priori dell'ottobre (fra gli ultimi dell'ottobre e i primi del novembre 1301).
CAPITOLO XI >
Tornano da Roma due degli ambasciatori. La Signoria si rimette nella volontà del pontefice, e, segretamente, chiede un suo legato. Lo risanno i Neri: loro timori e supposizioni. Com'era internamente ordinata Parte nera (... - primi di novembre 1301).
CAPITOLO XII
I Priori acconsentono alla proposta di una nuova Signoria mista. L'arroganza de' Neri ne impedisce l'esecuzione. Animosa onestà di Dino (... - primi di novembre 1301).
CAPITOLO XIII
Insidie di Carlo contro i Priori: parlamento in Santa Maria Novella (5 novembre). Consigli che vengon dati alla Signoria, e suoi provvedimenti (...primi di novembre 1301).
CAPITOLO XIV
Minacce e apparecchio de' Neri; impaccio e dappocaggine de' Bianchi (primi di novembre 1301).
CAPITOLO XV
I Neri cominciano scandalo. Primo sangue, per mano de' Medici. Gli Ordinamenti di Giustizia rimangono senza effetto. La città si arma (4 novembre 1301...).
CAPITOLO XVI
Pratiche di conciliazione fra potenti famiglie di Parte biance e di Parte nera: come questo fatto noccia ai Bianchi (...primi di novembre).
CAPITOLO XVII
Carlo chiede alla Signoria la guardia della terra e delle porte: la quale, per Oltrarno, gli è, però senza le chiavi, concessa. Sua malafede. Ritorno degli sbanditi, e violenza de' Tornaquinci. Smarrimento della Signoria (...5 novembre e notte seguente)
CAPITOLO XVIII
Simulazione di Carlo verso la Signoria. Corso Donati in Firenze. Carlo chiede alla Signoria statichi in due parti, e manca vituperosamente di fede a quelli di Parte bianca (...6 novembre 1301).
CAPITOLO XIX
La Signoria, dopo chiamati inutilmente i cittadini alla difesa, incominciandosi la distruzione della città, esce d'ufficio. Riforma dello Stato con una nuova Signoria di Priori Neri. Elezione di nuovo Potestà (6 - 9 novembre 1301).
CAPITOLO XX
Corso Donati; Carlo di Valois; Donati, Rossi, Tornaquinci, Bostichi: loro ruberie e malefizi (novembre 1301 - ...).
CAPITOLO XXI
Vittoria de' Neri. Difesa de' vecchi Priori Bianchi.
CAPITOLO XXII
Ai cittadini colpevoli della distruzione della città.
CAPITOLO XXIII
Caduta e sperpero dei Guelfi bianchi (novembre 1301 - ...).
CAPITOLO XXIV
Valore e lealtà del giovane Baschiera Tosinghi.
CAPITOLO XXV
Andata di Carlo a Roma (febbraio 1302). Inique e fraudolenti condanne di Bianchi, dopo il suo ritorno (marzo 1302) in Firenze. Proscrizione d'aprile 1302.
CAPITOLO XXVI
La signoria della città rimane ai Guelfi neri.
CAPITOLO XXVII
I Neri conducono (dicembre 1301) Carlo anche contro Pistoia, tenuta sempre da' Cancellieri bianchi. Vani tentativi. Solamente più tardi i Pistoiesi perdono le castella di Seravalle (1302) e del Montale (1303).
CAPITOLO XXVIII
Carlo di Valois parte di Firenze per la impresa di Sicilia. Persecuzione de' Neri contro gli usciti Bianchi, i quali si rifugiano in Arezzo presso Uguccione della Faggiuola, in Forlì, in Siena. Loro disavventura al castello di Piantavigne (1302, aprile - giugno).
CAPITOLO XXIX
I Bianchi e i Ghibellini, aiutati dagli Ubaldini e da' Pisani, guerreggiano in Mugello (estate del 1302). Seconda sventura, per imprudenza d'uno della parte (...gennaio 1303).
CAPITOLO XXX
Terza disavventura de' Bianchi, respinti dalla spedizione di Puliciano tentata insieme coi Ghibellini. Ne rimangono presi e morti: il che rafforza e assicura l'amicizia tra Ghibellini e Bianchi (1303, febbraio, marzo...).
CAPITOLO XXXI
La divisione di Parte guelfa è compiuta. I nomi di Guelfo e Ghibellino, divenuti Ghibellini i Bianchi già Guelfi, si confondono strananmente.
CAPITOLO XXXII
I Neri tentano l'impresa di Bologna; ma la città è ben difesa da una fazione di Guelfi bolognesi e dai Bianchi fiorentini. Lega di Romagna, alla quale partecipano Bianchi e Ghibellini toscani (1303, ...aprile - giugno).
CAPITOLO XXXIII
I Bianchi cavalcano dal Mugello nel Fiorentino, e si uniscono con gli Aretini, prendendo alcune castella: ma non sanno valersi dll'occasione. Uguccione è rimosso dalla potesteria d'Arezzo (estate dl 1303).
CAPITOLO XXXIV
Discordia in Firenze nella Parte nera tra i popolani grassi e Corso Donati. Malumore contro la Signoria. Sindacato de' fatti passati. Rimpatrio de' confinati (1303..., agosto).
CAPITOLO XXXV
Cattura e morte di papa Bonifazio VIII: come sentita dai Bianchi e dai Neri (1303, settembre - ottobre).
CAPITOLO XXXVI
I Bianchi e i Ghibellini, sotto il comando di Tolosato degli Uberti, radunansi ad Arezzo. Impresa di Ganghereto e di Laterina (1303, settembre - novembre).
LIBRO III
CAPITOLO I
Elezione del nuovo potefice, Benedetto XI; e sue qualità. Suoi primi atti: nomina del Cardinale da Prato a paciaro in Toscana (ottobre 1303 - gennaio 1304). CAPITOLO II
Discordie tra' Neri in Firenze:Rosso dalla Tosa col popolo grasso, e Corso Donati co' Grandi e popolo minuto (...1304, febbraio...).
CAPITOLO III
Intervento de'Lucchesi, chiamati dal Comune per pacificatori. Le due fazioni vengono alle mani. Corso assale il palagio della Signoria. Si rinnova l'ufficio. Baldanza de' Grandi: esecuzione degli Ordinamenti di Giustizia contro i Tornaquinci (1303, dicembre; 1304, febbraio - aprile).
CAPITOLO IV
Giunge in Firenze il cardinale da Prato, paciaro. Pacificazione de' Neri tra loro. Pacificazione di Neri con Bianchi e Ghibellini; mal veduta dai Neri, specialmente dalla parte di Rosso. Loro atti per impedire che proceda innanzi. La Signoria dà commissione per l'esecuzione della pace (1304, 10 marzo - maggio).
CAPITOLO V
In questo mezzo i Neri inducono maliziosamente il Cardinale a uscire di Firenze per assicurarsi di Pistoia: sua andata a Prato e a Pistoia. Tornando a vuoto da quest'ultima città, Prato gli si rivolge contro (maggio 1304).
CAPITOLO VI
Ritorno del Cardinale a Firenze e scomunica de'Pratesi. L'esercito fiorentino esce contro Prato, che tratta accordo. Intanto in Firenze le discordie di Parte nera fra popolani grassi e i Grandi e il popolo minuto si fanno più gravi (maggio 1304).
CAPITOLO VII
Il Cardinale affretta la pace. Venuta di capi di Parte bianca e ghibellina in Firenze, sotto sicurtà. Slealtà de' Neri, e poco animo de' Bianchi e de' Cavalcanti. I Bianchi e Ghibellini si partono. Il Cardinale, temendo offesa, lascia sdegnato la città, e torna al Pontefice (1304, giugno).
CAPITOLO VIII
La città riprende le armi.Neri e Cavalcanti. Incendio spaventoso, attaccato da' Neri, confuoco lavorato. Cacciata de' Cavalcanti (1304, giugno).
CAPITOLO IX
Sbigottimento de' cittadini.I capi di Parte nera vanno a Perugia a scusarsi al Papa. Morte di Benedetto Xi (1304, giugno - luglio).
CAPITOLO X
Ardito disegno de' fuorusciti per rientrare in Firenze; e come fallisce loro per colpa del Baschiera (luglio 1304).
CAPITOLO XI
Giudizi e osservazioni su questo tentativo de' fuorusciti. CAPITOLO XII
Elezione del nuovo pontefice, francese, col nome di Clemente V: sua incoronazione: sue relazioni col re di Francia (1305, giugno - novembre).
CAPITOLO XIII
I Neri, che già avevano tentato d'aver Pistoia per mezzo del Cardinale di Prato, vi rivolgono novamente le mire, e le pongono assedio (1305, ...maggio).
CAPITOLO XIV
Assedio di Pistoia (maggio 1305 - primi mesi del 1306).
CAPITOLO XV
Gli amici de' Pistoiesi impetrano dal Pontefice la venuta di un Cardinale Legato in Toscana, che è Napoleone Orsini. Ciò determina i Neri a trattare con la città; la quale, ridotta agli estremi, si rende a patti, che poi non sono osservati. Sdegno del Legato, che va a Bologna (1306... - aprile).
CAPITOLO XVI
Condizioni di Parte guelfa di là dell'Appennino, dopo aver Gilberto da Correggio, signore di Parma, procurata (gennaio 1306) la ribellione di Reggio e Modena al marchese di Ferrara.
CAPITOLO XVII
Bologna, già (marzo 1306) divenuta nera e cacciati i Bianchi e i Ghibellini, caccia poco stante lo stesso Legato. Questi, dopo tentati inutilmente i Neri di Firenze, fa in Arezzo una radunata di forze bianche e ghibelline, la quale, per sua o dappocaggine o tristizia, va a male, ed è l'ultima che i fuorusciti facciano (maggio 1306 - luglio 1397).
CAPITOLO XVIII
Il Cardinale, abbandonato dai Bianchi, è dileggiato dai Neri e da essi tenuto a bada con finti negoziati di pace, finché vien rimosso dalla legazione. Discordie di Parte ghibellina in Arezzo (ultimi del 1307 - 1308).
CAPITOLO XIX
Si riaccendono le discordie de' Neri fiorentini, tra la fazione di Corso Donati e quella di Rosso della Tosa. Corso si apparecchia alle offese (1308, ...ottobre).
CAPITOLO XX
La Parte di Rosso si solleva. La Signoria cita e sbandisce i Donati e i Bordoni. Essi si afforzano e sono combattuti. Loro fuga (6 ottobre 1308).
CAPITOLO XXI
Morte di Corso Donati. Sue qualità (6 ottobre 1308...).
CAPITOLO XXII
Relazioni in che trovavasi, a questo punto, il Comune di Firenze con la Chiesa; scomunica della città; elezione di nuovo vescovo, e maneggi de' Neri per essa (... - estate del 1309).
CAPITOLO XXIII
Vacando l'Impero, la Chiesa, per iscuoter da sé la tirannide del re di Francia, e lo scredito che questa le attira, procura la elezione d'un buon Imperatore. E' eletto Arrigo conte di Lussemburgo (... - 27 novembre 1308).
CAPITOLO XXIV
Arrigo, tuttoché sconsigliato per opera de' Fiorentini, discende in Italia e si avvicina a Milano (novembre 1308 - dicembre 1310).
CAPITOLOXXV
Arrigo, incamminato verso Pavia, è indotto da Matteo Visconti a rivolgersi a Milano, con poca sodisfazione di Guido della Torre (dicembre 1310).
CAPITOLO XXVI
Arrigo entra e pacifica Milano. Sua incoronazione e corte (dicembre 1310 - gennaio 1311).
CAPITOLO XXVII
Malcontento e tumulti in Milano. Cacciata de' Torriani; trionfo de' Visconti. L'Imperatore lascia la città, affidandola a Matteo Visconti e al Vicario imperiale (1311, gennaio - aprile).
CAPITOLO XXVIII
Ribellione di Cremona dall'Imperatore, alla quale dànno aiuto i Neri di Firenze. Arrigo cavalca verso Cremona, v'entra, e imprigiona i ribelli (1311,... - maggio).
CAPITOLO XXIX
Ribellione di Brescia, e assedio. Arrigo l'ha, dopo lunga guerra, a patti (1311, ... - ottobre).
CAPITOLO XXX
Arrigo passa a Pavia e a Genova, dove è molto onorato; ivi gli muore la moglie (1311, ottobre -dicembre).
CAPITOLO XXXI
Gilberto da Correggio, con l'aiuto de' Fiorentini, ribella Parma e Reggio all'Imperatore, e gli ritoglie Cremona, dove rauna fuorusciti di Milano e di Brescia. La Lombardia novamente sconvolta (ottobre 1311 - gennaio 1312).
CAPITOLO XXXII
Artifizi e provvedimenti usati dai Neri Fiorentini contro l'Imperatore presso il Re di Francia e il Papa, servendosi specialmente presso quest'ultimo del cardinale Pelagrù, Legato pontificio a Bologna per la guerra di Ferrara (1312, 1311, 1310).
CAPITOLO XXXIII
Morte d'uno de' nunzi pontifici ad Arrigo, del Vescovo di Liegi, e de' due ambasciatori fiorentini al Papa (...1311...1312...).
CAPITOLO XXXIV
Condizioni politiche della Toscana durante la discesa di Arrigo. Lega Guelfa toscana contro l'Imperatore. Ricevimento che vi avevano trovato gli ambasciatori di lui. Disegni ch'egli avea fatto circa la via da tenere per venire in Toscana (1311...1310...).
CAPITOLO XXXV
Venuta di Arrigo, per Genova, a Pisa. Firenze non gli manda ambasciatori, confermando per tal modo l'ostilità già mostratagli col dispregiare e disobbedire gli ambasciatori suoi. Guerra scoperta tra Firenze ed Arrigo (1311 - 1312...1310).
CAPITOLO XXXVI
Arrigo passa da Pisa a Roma e si ristringe coi Ghibellini. Pratiche de' Fiorentini con re Roberto di Napoli. Incoronazione di Arrigo in San Giovanni Laterano (1312).
CAPITOLO XXXVII
Giustizia di Dio contro i Neri. Quanti e chi fossero rimasti i capi di Parte nera (1308...).
CAPITOLO XXXVIII
Qualità e fine di Rosso della Tosa. Suo parentado (1309...).
CAPITOLO XXXIX
Qualità e fine di Betto Brunelleschi (1311).
CAPITOLO XXXX
Qualità e fine di Pazzino de' Pazzi (1312, gennaio...).
CAPITOLO XXXXI
Morti atrocemente i principali capi de' Neri, rimane a triste vita un d'essi, Geri Spini (1312).
CAPITOLO XXXXII
Conchiusione.



PROEMIO
Quali cagioni ebbe l'Autore a scrivere, e quali occasioni: su quale soggetto, e con quali intendimenti.
Le ricordanze dell'antiche istorie lungamente ànno stimolata la mente mia di scrivere i pericolosi advenimenti non prosperevoli, i quali ha sostenuti la nobile città figliuola di Roma, molti anni, e spezialmente nel tempo del giubileo dell'anno MCCC. E io, scusandomi a me medesimo siccome insufficiente, credendo che altri scrivesse, ho cessato di scrivere molti anni: tanto che, multiplicati i pericoli e gli aspetti notevoli sì che non sono da tacere, propuosi di scrivere, a utilità di coloro che saranno eredi de' prosperevoli anni; acciò che riconoscano i benefici da Dio, il quale per tutti i tempi regge e governa.
CAPITOLO I
Metodo propostosi dall'Autore. Descrizione di Firenze.
Quando io incominciai propuosi di scrivere il vero delle cose certe che io vidi e udi', però che furon cose notevoli le quali ne' loro principi nullo le vide certamente come io: e quelle che chiaramente non vidi, proposi di scrivere secondo udienza; e perché molti secondo le loro volontà corrotte trascorrono nel dire, e corrompono il vero, proposi di scrivere secondo la maggior fama. E acciò che gli strani possano meglio intendere le cose advenute, dirò la forma della nobile città, la quale è nella provincia di Toscana, edificata sotto il segno di Marte, ricca e larga d'imperiale fiume d'acqua dolce il quale divide la città quasi per mezo, con temperata aria, guardata da nocivi venti, povera di terreno, abondante di buoni frutti, con cittadini pro' d'armi superbi e discordevoli, e ricca di proibiti guadagni, dottata e temuta, per sua grandeza, dalle terre vicine, più che amata.
Pisa è vicina a Firenze a miglia XL, Lucca a miglia XL, Pistoia a miglia XX, Bologna a miglia LVIII, Arezo a miglia XL, Siena a miglia XXX, San Miniato in verso Pisa a miglia XX, Prato verso Pistoia a miglia X, Monte Accienico verso Bologna a miglia XXII, Fighine verso Arezo a miglia XVI, Poggi Bonizi verso Siena a miglia XVI; tutte le predette terre con molte altre castella e ville; e da tutte le predette parti, sono molti nobili uomini conti e cattani, i quali l'amano più in discordia che in pace, e ubidisconla più per paura che per amore. La detta città di Firenze è molto bene popolata, e generativa per la buona aria; i cittadini bene costumati, e le donne molto belle e adorne; i casamenti bellissimi, pieni di molte bisognevoli arti, oltre all'altre città d'Italia. Per la quale cosa molti di lontani paesi la vengono a vedere, non per necessità, ma per bontà de' mestieri e arti, e per belleza e ornamento della città.
CAPITOLO II
Danni e antica origine delle discordie civili in Firenze tra Guelfi e Ghibellini(1215).
Piangano adunque i suoi cittadini sopra loro e sopra i loro figliuoli; i quali, per loro superbia e per loro malizia e per gara d'ufici, ànno così nobile città disfatta, e vituperate le leggi, e barattati gli onori in picciol tempo, i quali i loro antichi con molta fatica e con lunghissimo tempo ànno acquistato; e aspettino la giustizia di Dio, la quale per molti segni promette loro male siccome a colpevoli, i quali erano liberi da non potere esser soggiogati. Dopo molti antichi mali per le discordie de' suoi cittadini ricevuti, una ne fu generata nella detta città, la quale divise tutti i suoi cittadini in tal modo, che le due parti s'appellorono nimiche per due nuovi nomi, ciò è Guelfi e Ghibellini. E di ciò fu cagione, in Firenze, che uno nobile giovane cittadino, chiamato Buondalmonte de' Buondalmonti, avea promesso torre per sua donna una figliuola di messer Oderigo Giantruffetti. Passando dipoi un giorno da casa i Donati, una gentile donna chiamata madonna Aldruda, donna di messer Forteguerra Donati, che avea due figliuole molto belle, stando a' balconi del suo palagio, lo vide passare, e chiamollo, e mostrògli una delle dette figliuole, e disseli: "Chi ài tu tolta per moglie? io ti serbavo questa". La quale guardando molto li piacque, e rispose: "Non posso altro oramai". A cui madonna Aldruda disse: "Sì, puoi, ché la pena pagherò io per te". A cui Bondalmonte rispose: "E io la voglio". E tolsela per moglie, lasciando quella avea tolta e giurata. Onde messer Oderigo, dolendosene co' parenti e amici suoi, diliberarono di vendicarsi, e di batterlo e farli vergogna. Il che sentendo gli Uberti, nobilissima famiglia e potenti, e suoi parenti, dissono voleano fusse morto: ché così fia grande l'odio della morte come delle ferite; cosa fatta capo à. E ordinorono ucciderlo il dì menasse la donna; e così feciono. Onde di tal morte i cittadini se ne divisono, e trassersi insieme i parentadi e l'amistà d'amendue le parti, per modo che la detta divisione mai non finì; onde nacquero molti scandoli e omicidi e battaglie cittadinesche. Ma perché non è mia intenzione scrivere le cose antiche, perché alcuna volta il vero non si ritruova, lascerò stare; ma ho fatto questo principio per aprire la via a intendere ,donde procedette in Firenze le maladette parti de' Guelfi e Ghibellini: e ritorneremo alle cose furono ne' nostri tempi.
CAPITOLO III
Le discordie tra' Guelfi sono cagione ch'essi si riconcilino co' Ghibellini. Ambedue le parti ottengono a paciaro ed arbitro un Legato della Chiesa (...-1279, 1280.)
Nell'anno dalla incarnazione di Cristo MCCLXXX, reggendo in Firenze la parte guelfa, essendo scacciati i Ghibellini, uscì d'una piccola fonte uno gran fiume, ciò fu d'una piccola discordia nella parte guelfa una gran concordia con la parte ghibellina. Ché, temendo i Guelfi tra loro, e sdegnando nelle loro raunate e ne' loro consigli l'uno delle parole dell'altro, e temendo i più savi ciò che ne potea advenire, e vedendone apparire i segni di ciò che temeano (perché uno nobile cittadino cavaliere, chiamato messer Bonaccorso degli Adimari, guelfo e potente per la sua casa, e ricco di possessioni, montò in superbia con altri grandi, che non riguardò a biasimo di parte, ché a uno suo figliuolo cavaliere, detto messer Forese, dié per moglie una figliuola del conte Guido Novello della casa de' conti Guidi, capo di parte ghibellina), onde i Guelfi, dopo molti consigli tenuti alla Parte, pensarono pacificarsi co' Ghibellini che erano di fuori. E saviamente concordarono ridursi con loro a pace sotto il giogo della Chiesa, acciò che i legami fussono mantenuti dalla fortezza della Chiesa: e celatamente ordinorono, che il Papa fusse mezo alla loro discordia. Il quale, a loro petizione, mandò messer frate Latino, cardinale, in Firenze, a richiedere di pace amendue le parti. Il quale giunto, domandò sindachi di ciascuna parte, e che in lui la compromettessono; e così feciono. E per vigore del compromesso sentenziò, che i Ghibellini tornassono in Firenze con molti patti e modo; e accordò tra loro li ufici di fuori; e al governo della città ordin= XIIII cittadini, cioè VIII Guelfi e VI Ghibellini; e a molte altre cose pose ordine, e pene ad amendue le parti, legandoli sotto la Chiesa di Roma. Le quali leggi e patti e promesse fe' scrivere tra le leggi municipali della città. La potente e superba famiglia degli Uberti, sentenziò stesse alcuno tempo a' confini, con altri di loro parte: e dove fussono le loro famiglie, godere i loro beni come gli altri; e a quelli che sostenessono lo incarico de' confini, fusse dato dal Comune, per ristoro del suo esilio, alcuni danari il dì ma meno al non cavaliere che al cavaliere.
CAPITOLO IV
Correndo la città novamente pericolo per civili discordie, alcuni popolani, fra' quali Dino, si consigliano insieme: e per assicurare il Popolo dalla prepotenza dei Grandi, istituiscono il Magistrato delle Arti o de' Priori (1280 - 1282).
Stando amendue le parti nella città, godendo i benefici della pace, i Guelfi che erano più potenti cominciorono di giorno in giorno a contraffare a' patti della pace. Prima tolsono i salari a' confinati; poi a chiamare gli ufici sanza ordine; i confinati feciono rubelli: e tanto montò il soprastare, che levorono in tutto gli onori e' benefici a' Ghibellini, onde crebbe tra loro la discordia. Onde alcuni, pensando ciò che ne potea advenire, furono con alcuni de' principali del popolo, pregandoli ci ponessono rimedio, acciò che per discordia la terra non perisse. Il perché, alcuni popolari gustando le parole si porgeano, si raunorono insieme sei cittadini popolani, fra' quali io Dino Compagni fui, che per giovaneza non conoscea le pene delle leggi, ma la purità de l'animo e la cagione che la città venìa in mutamento. Parlai sopra ciò, e tanto andamo convertendo cittadini, che furono eletti tre cittadini capi dell'Arti, i quali aiutassono i mercatanti e artieri dove bisognasse: i quali furono Bartolo di messer Iacopo de' Bardi, Salvi del Chiaro Girolami, e Rosso Bacherelli; e raunoronsi nella chiesa di San Brocolo. E tanto crebbe la baldanza de' popolani co' detti tre, vedendo che non erano contesi; e tanto li riscaldorono le franche parole de' cittadini, i quali parlavano della loro libertà e delle ingiurie ricevute; e presono tanto ardire, che feciono ordini e leggi, che duro sarebbe suto di rimuoverle. Altre gran cose non feciono, ma del loro debile principio ferono assai. Il detto uficio fu creato per due mesi, i quali cominciorono a dì XV di giugno 1282: il quale finito, se ne creò sei, uno per sestiero, per due mesi, che cominciorono a dì XV d'agosto 1282. E chiamoronsi Priori dell'Arti: e stettono rinchiusi nella torre della Castagna appresso alla Badia, acciò non temessono le minaccie de' potenti: e potessono portare arme in perpetuo: e altri brivilegi ebbono: e furono loro dati sei famigli e sei berrovieri.
CAPITOLO V
I nuovi magistrati fanno mala prova per disonestà e avarizia, favorendo i Grandi di Parte guelfa (1282).
Le loro leggi in effetto furono, che avessono a guardare l'avere del Comune, e che le signorie facessero ragione a ciascuno, e che i piccoli e impotenti non fussono oppressati da' grandi e potenti. E tenendo questa forma, era grande utilità del popolo: ma tosto si mutò, però che i cittadini che entravano in quello uficio, non attendeano a observare le leggi, ma ad corromperle. Se l'amico o il parente loro cadea nelle pene, procuravano con le signorie e con li uficiali a nascondere le loro colpe, acciò che rimanessono impuniti. Né l'avere del Comune non guardavano, anzi trovavano modo come meglio il potessono rubare; e così della camera del Comune molta pecunia traevano, sotto protesto di meritare uomini l'avesson servito. L'impotenti non erano aiutati, ma i grandi gli offendevano, e così i popolani grassi che che erano negli ufici e imparentati con grandi: e molti per pecunia erano difesi dalle pene del Comune, in che cadevano. Onde i buoni cittadini popolani erano malcontenti, e biasimavano l'uficio de' Priori, perché i Guelfi grandi erano signori.
CAPITOLO VI
Origine della guerra d'Arezzo, pel favore concesso da' Fiorentini ai Guelfi cacciati da quella città(1282... - 1289).
Arezo si governava in quel tempo pe' Guelfi e Ghibellini per equal parte, et erano nel reggimento di pari, e giurata avieno tra loro ferma pace. Onde il popolo si levò, e feciono uno della città di Lucca che si chiamava Priore, il quale condusse il popolo molto prosperevolmente, e i nobili constrignea a ubidire le leggi. I quali s'accordorono insieme, e ruppono il popolo; e lui presono e misono in una citerna, e quivi si morì. I Guelfi d'Arezo stimolati dalla Parte guelfa di Firenze di cercare di pigliare la signoria, ma o che fare non lo sapessono, o non potessono, i Ghibellini se ne advidono, e cacciaronli fuori. I quali vennono a Firenze a dolersi de' loro adversari: coloro che li aveano consigliati, gli ritennono, e presongli aiutare. I Ghibellini, né per ambasciate né per minaccie avessono da Firenze, non li accettorono; e richiesono gli Uberti, Pazi di Valdarno e Ubertini, e 'l Vescovo, che sapea meglio gli ufici della guerra che della Chiesa, il quale era de' Pazi, uomo superbo e di grande animo. Era prima scaduta una differenzia tra lui e' Sanesi per uno suo castello gli avean tolto, la quale era rimessa nella Parte guelfa di Firenze; e volendo la parte aiutare i Sanesi e gli usciti d'Arezo, nimicando il Vescovo, ingenerò gran discordia tra i Fiorentini e 'l Vescovo e i Ghibellini. Per che ne seguì la terza guerra de' Fiorentini in Toscana, nel 1289.
CAPITOLO VII
Disposizioni e preparativi alla guerra dall'una parte e dall'altra (1289).
I Guelfi fiorentini e potenti aveano gran voglia andare a oste ad Arezo: ma a molti altri, popolani, non parea; sì perché diceano la impresa non esser giusta, e per sdegno aveano con loro degli ufici. Pur presono a soldo uno capitano, chiamato messer Baldovino di Soppino, con CCCC cavalli: ma il Papa lo ritenne, e però non venne. Gli Aretini richiesono molti nobili e potenti Ghibellini di Romagna, della Marca, e da Orvieto: e mostravano gran francheza di volere la battaglia, e acconciavansi a difendere la loro città, e di prendere il vantaggio a' passi. I Fiorentini richiesono i Pistolesi, i Lucchesi, Bolognesi, Sanesi, e Sanminiatesi, e Mainardo da Susinana gran capitano, che avea per moglie una de' Tosinghi. In quel tempo venne in Firenze il re Carlo di Sicilia, che andava a Roma; il quale fu dal Comune onoratamente presentato, e con palio e armeggerie: e da' Guelfi fu richiesto d'uno capitano con le insegne sue. Il quale lasciò loro messer Amerigo di Nerbona, suo barone e gentile uomo, giovane e bellissimo del corpo, ma non molto sperto in fatti d'arme, ma rimase con lui uno antico cavaliere suo balio, e molti altri cavalieri atti ed esperti a guerra, e con gran soldo e provisione.
CAPITOLO VIII
Trattato de' Fiorentini col Vescovo di Arezzo; come impedito dagli Aretini (1289)
Il Vescovo d'Arezo, come savio uomo considerando quel che advenire gli potea della guerra, cercava patteggiarsi co' Fiorentini, e uscire con tutta la schiatta sua d'Arezo, e dar loro le sue castella del vescovado in pegno; e per le rendite e pe' fedeli volea, l'anno, fiorini IIIm, i quali li promettesse messer Vieri de' Cerchi ricchissimo cittadino. Ma i Signori che erano in quel tempo, erano in gran discordia: i quali furono messer Ruggieri da Cuona giudice, messer Iacopo da Certaldo giudice, Bernardo di messer Manfredi Adimari, Pagno Bordoni, Dino Compagni autore di questa Cronaca, e Dino di Giovanni, vocato Pecora, che furono da dì XV d'aprile a dì XV di giugno 1289. La cagione della discordia fu che alcuni di loro voleano le castella del Vescovo, e spezialmente Bibiena bello e forte, alcuni no; né non voleano la guerra, considerando il male che di quella segue: pur infine per tutti si consentì di pigliarle, ma non per disfarle. E d'accordo rimisono in Dino Compagni, perché era buono e savio uomo, ne facesse quanto li paresse: il quale mandò per messer Durazzo, nuovamente fatto da lui cavaliere, e in lui commise conchiudesse il trattato col Vescovo il meglio potesse. Il Vescovo d'Arezo in questo mezo pensò, che se consentisse al trattato, sarebbe traditore; e però raunò i principali di sua parte, e quelli confortò prendessono accordo co' Fiorentini: e che egli non volea perdere Bibbiena, e che la fusse afforzata e difesa; altrimenti prenderebbe accordo egli. Gli Aretini, sdegnati per le parole sue, perché ogni loro disegno si rompeva, ordinavano di farlo uccidere: se non che messer Guglielmo de' Pazi, suo consorto, che era nel consiglio, disse che sarebbe stato molto contento l'avessono fatto, non l'avendo saputo; ma essendo richiesto, non lo consentirebbe, ché non volea esser micidiale del sangue suo. Allora deliberarono di pigliarla eglino; e come disperati, sanza altro consiglio si misono in punto.
CAPITOLO IX
I Fiorentini si dispongono a uscire per la via del Casentino, insieme coi collegati.
Sentitasi pe' Fiorentini la loro diliberazione, i capitani e governatori della guerra tennono consiglio nella chiesa di San Giovanni, per qual via fusse il megliore andare, sì che fornire si potesse il campo di quel bisognasse. Alcuni lodavano l'andata per Valdarno, acciò che, andando per altra via, gli Aretini non cavalcassono quivi, e non ardessono i casamenti del contado; alcuni lodavano la via del Casentino, dicendo che quella era migliore via, assegnandone molte ragioni. Uno savio vecchio, chiamato Orlando da Chiusi, e Sasso da Murlo, gran castellani, temendo di loro deboli castella, dierono per consiglio si pigliasse quella via, dubitando che, se altra via si pigliasse, non fussono dagli Aretini disfatte, ché erano di loro contado; e messer Rinaldo de' Bostoli, che era degli usciti d'Arezo, con loro s'accordò. Dicitori vi furono assai; le pallottole segrete si dierono: vinsesi d'andare per Casentino. Ma con tutto fusse più dubbiosa e pericolosa via, il meglio ne seguì. Fatta tal diliberazione, i Fiorentini accolsono l'amistà; che furono: i Bolognesi con CC cavalli, Lucchesi con CC, Pistolesi con CC; de' quali fu capitano messer Corso Donati cavaliere fiorentino: Mainardo da Susinana con XX cavalli e CCC fanti a pié, messer Malpiglio Ciccioni con XXV, e messer Barone Mangiadori da San Miniato, li Squarcialupi, i Colligiani, e altre castella di Valdelsa: sì che fu il numero, cavalli MCCC e assai pedoni.
CAPITOLO X
Battaglia di Campaldino; della quale però i Fiorentini vincitori non sanno raccogliere tutti i frutti
Mossono le insegne al giorno ordinato i Fiorentini, per andare in terra di nimici: e passarono per Casentino per male vie; ove, se avessono trovati i nimici, arebbono ricevuto assai danno: ma non volle Dio. E giunsono presso a Bibbiena, a uno luogo si chiama Campaldino, dove erano i nimici: e quivi si fermorono, e feciono una schiera. I capitani della guerra misono i feditori alla fronte della schiera; e i palvesi, col campo bianco e giglio vermiglio, furono attelati dinanzi. Allora il Vescovo, che avea corta vista, domandò: "Quelle, che mura sono?". Fugli risposto: "I palvesi de' nimici". Messer Barone de' Mangiadori da San Miniato, franco et esperto cavaliere in fatti d'arme, raunati gli uomini d'arme, disse loro: "Signori, le guerre di Toscana si soglìano vincere per bene assalire; e non duravano, e pochi uomini vi moriano, ché non era in uso l'ucciderli. Ora è mutato modo, e vinconsi per stare bene fermi. Il perché io vi consiglio, che voi stiate forti, e lasciateli assalire". E così disposono di fare. Gli Aretini assalirono il campo sì vigorosamente e con tanta forza, che la schiera de' Fiorentini forte rinculò. La battaglia fu molto aspra e dura: cavalieri novelli vi s'erano fatti dall'una parte e dall'altra. Messer Corso Donati con la brigata de' Pistolesi fedì i nimici per costa. Le quadrella pioveano: gli Aretini n'aveano poche, et erano fediti per costa, onde erano scoperti: l'aria era coperta di nuvoli, la polvere era grandissima. I pedoni degli Aretini si metteano carpone sotto i ventri de' cavalli con le coltella in mano, e sbudellavalli: e de' loro feditori trascorsono tanto, che nel mezo della schiera furono morti molti di ciascuna parte. Molti quel dì, che erano stimati di grande prodeza, furono vili; e molti, di cui non si parlava, furono stimati. Assai pregio v'ebbe il balio del capitano, e fuvi morto. Fu fedito messer Bindo del Baschiera Tosinghi; e così tornò a Firenze, ma fra pochi dì morì. Della parte de' nimici fu morto il Vescovo, e messer Guiglielmo de' Pazi franco cavaliere, Bonconte e Loccio da Montefeltri, e altri valenti uomini. Il conte Guido non aspettò il fine, ma sanza dare colpo di spada si partì. Molto bene provò messer Vieri de' Cerchi et uno suo figliuolo cavaliere alla costa di sé. Furono rotti gli Aretini, non per viltà né per poca prodeza, ma per lo soperchio de' nimici. Furono messi in caccia, uccidendoli: i soldati fiorentini, che erano usi alle sconfitte, gli amazavano; i villani non aveano piatà. Messer Talano Adimari e' suoi si tornorono presto a loro stanza: molti popolani di Firenze, che aveano cavallate, stettono fermi: molti niente seppono, se non quando i nimici furon rotti. Non corsono ad Arezo con la vittoria; ché si sperava, con poca fatica l'arebon avuta. Al capitano e a' giovani cavalieri, che aveano bisogno di riposo, parve avere assai fatto di vincere, sanza perseguitarli. Più insegne ebbono di loro nimici, e molti prigioni, e molti n'uccisono; che ne fu danno per tutta la Toscana. Fu la detta rotta dì XI di giugno, il dì di San Bernaba, in uno luogo che si chiama Campaldino, presso a Poppi. Dopo detta vittoria non ritornorono però tutti i Guelfi in Arezo: ma alcuni s'assicurorono; a' quali fu detto che, se vi voleano stare, facessono la loro volontà. Tra i Fiorentini e gli Aretini pace non si fe': ma i Fiorentini si tennono le castella aveano prese; cioé Castiglione, Laterina, Civitella, Rondine, e più altre castella; e alcuno se ne disfece. Dopo poco tempo i Fiorentini rimandorono gente d'arme a Arezo, e posonvi campo; e andoronvi due de' Priori. E il dì di San Giovanni vi feciono correre un palio; e conbatterono la terra, e arsono ciò che trovorono in quel contado. Dipoi andorono a Bibbiena, e quella presono e disfeciono le mura. Molto furono biasimati quelli due di tale andata, cioè de' Priori, perché non era loro uficio, ma di gentili uomini usi alla guerra. Di poi se ne tornorono con poco frutto; perché assai vi si consumò, con affanni di persone.
CAPITOLO XI
Malumore in Firenze tra Popolo e Grandi. Il Gonfaloniere di Giustizia e gli Ordinamenti di Giustizia (1289 - 1293).
Ritornati i cittadini in Firenze, si resse il popolo alquanti anni in grande e potente stato; ma i nobili e grandi cittadini insuperbiti faceano molte ingiurie a' popolani, con batterli e con altre villanie. Onde molti buoni cittadini popolani e mercatanti, tra' quali fu un grande e potente cittadino (savio, valente e buono uomo, chiamato Giano della Bella, assai animoso e di buona stirpe, a cui dispiaceano queste ingiurie) se ne fe' capo e guida, e con l'aiuto del popolo (essendo nuovamente eletto de' Signori che entrarono a dì XV di febbraio 1292), e co' suoi compagni, afforzorono il popolo. E al loro uficio de' Priori aggiunsono uno con la medesima balìa che gli altri, il quale chiamorono Gonfaloniere di Giustizia (Baldo Ruffoli per Sesto di Porta Duomo), a cui fusse dato uno gonfalone dell'arme del popolo, che è la croce rossa nel campo bianco, e mille fanti tutti armati con la detta insegna o arme, che avessono a esser presti a ogni richiesta del detto Gonfaloniere, in piaza o dove bisognasse. E fecesi leggi, che si chiamorono Ordini della Giustizia, contro a' potenti che facessono oltraggio a' popolani: e che l'uno consorto fusse tenuto per l'altro; e che i malifìci si potessono provare per due testimoni di pubblica voce e fama: e diliberorono che qualunque famiglia avesse avuti cavalieri tra loro, tutti s'intendessono esser Grandi, e che non potessono esser de' Signori, né Gonfaloniere di Giustizia, né de' loro collegi; e furono, in tutto, le dette famiglie [...]: e ordinorono che i Signori vecchi, con certi arroti, avessono a eleggere i nuovi. E a queste cose legarono le XXIIII Arti, dando a' loro consoli alcuna balìa.
CAPITOLO XII
Cavilli de' giudici contro gli Ordinamenti di Giustizia; severa esecuzione dei medesimi, opposizioni, dal Popolo e da' Grandi; ardire e fermezza di Giano della Bella (1293).
I maladetti giudici cominciorono a interpretare quelle leggi: le quali aveano dettate messer Donato di messer Alberto Ristori, messer Ubertino dello Stroza e messer Baldo Aguglioni. E diceano che, dove il maleficio si dovea punire con effetto, lo distendevano in danno dello adversario; e impaurivano i rettori: e se l'offeso era ghibellino, e il giudice era ghibellino; e per lo simile faceano i Guelfi: gli uomini delle famiglie non accusavano i loro consorti per non cadere nelle pene. Pochi malifìci si nascondevano, che dagli adversari non fussono ritrovati; molti ne furono puniti secondo la legge. E i primi che vi caddono furono i Galligai; che alcuno di loro fe' uno malificio in Francia in due figliuoli d'uno nominato mercatante, che avea nome Ugolino Benivieni, ché venneno a parole insieme, per le quali l'uno de' detti fratelli fu fedito da quello de' Galligai, che ne morì. E io Dino Compagni, ritrovandomi Gonfaloniere di Giustizia nel 1293, andai alle loro case e de' loro consorti, e quelle feci disfare secondo le leggi. Questo principio seguitò agli altri gonfalonieri uno male uso; perché, se disfaceano secondo le leggi, il popolo dicea che erano vili se non disfaceano bene affatto. E molti sformavano la giustizia per tema del popolo. E intervenne che uno figliuolo di messer Bondalmonte, avea commesso uno malificio di morte, gli furono disfatte le case; per modo che dipoi ne fu ristorato. Molto montò il rigoglio de' rei uomini, però che i grandi, cadendo nelle pene, erano puniti; però che i rettori temeano le leggi, le quali voleano che con effetto punissono. Questo effetto si distendea tanto, che dubitavano se l'uomo accusato non fusse punito, che il rettore non avesse difensione né scusa: il perché niuno accusato rimanea impunito. Onde i grandi fortemente si doleano delle leggi, e alli essecutori d'esse diceano: "Uno caval corre, e dà della coda nel viso a uno popolano; o in una calca uno darà di petto sanza malizia a uno altro; o più fanciulli di piccola età verranno a quistione; gli uomini gli accuseranno: debbano però costoro per sì piccola cosa esser disfatti?". Giano della Bella sopradetto, uomo virile e di grande animo, era tanto ardito che lui difendeva quelle cose che altri abbandonava, e parlava quelle che altri tacea; e tutto facea in favore della giustizia contro a' colpevoli: e tanto era temuto da' rettori, che temeano di nascondere i malifìci. I grandi cominciorono a parlare contro a lui, minacciandolo che non per giustizia ma per fare morire i suoi nimici il facea, abbominando lui e le leggi: e dove si trovavano, minacciavano squartare i popolani che reggeano. Onde alcuni, che gli udirono, rapportorono a' popolani; i quali cominciorono a inacerbire, e per paura e sdegno innasprirono le leggi; sì che ciascuno stava in gelosia. Erano i principali del popolo i Magalotti, però che sempre erano stati aiutatori del popolo: e aveano gran séguito, e intorno a loro aveano molte schiatte che con loro si raunavano d'uno animo, e più artefici minuti con loro si ritraevano.
CAPITOLO XIII
I Grandi congiurano in più modi a' danni di Giano (1293 - 1294).
I potenti cittadini (i quali non tutti erano nobili di sangue, ma per altri accidenti erano detti Grandi) per sdegno del popolo, molti modi trovorono per abbatterlo. E mossono di Campagna un franco e ardito cavaliere, che avea nome messer Gian di Celona, potente più che leale, con alcune giuridizioni a lui date dallo imperadore. E venne in Toscana patteggiato co' grandi di Firenze, e di volontà di papa Bonifazio VIII, nuovamente creato: ebbe carta e giuridizioni di terre guadagnasse; e tali vi posono il suggello, per frangere il popolo di Firenze, che furono messer Vieri de' Cerchi e Nuto Marignolli, secondo disse messer Piero Cane da Milano procuratore del detto messer Gian di Celona. Molti ordini dierono per uccidere il detto Giano, dicendo: "Percosso il pastore, fiano disperse le pecore". Un giorno ordinorono di farlo assassinare; poi se ne ritrassono per tema del popolo. Poi per ingegno trovoron modo farlo morire, con una sottile malizia; e disson: "Egli è giusto: mettianli innanzi le rie opere de' beccai, che sono uomini malferaci e maldisposti". Tra' quali era uno chiamato Pecora, gran beccaio, sostenuto da' Tosinghi, il quale facea la sua arte con falsi modi e nocivi alla republica; era perseguitato dall'Arte, però che le sue malizie usava sanza timore; minacciava i rettori e gli uficiali, e profferevasi a mal fare con gran possa di uomini e d'arme. Quelli della congiura fatta contro a Giano, essendo sopra rinnovare le leggi nella chiesa d'Ognissanti, dissono a Giano: "Vedi l'opere de' beccai quanto multiplicano a mal fare?". E Giano rispose: "Perisca innanzi la città, che ciò si sostenga"; e procurava fare leggi sopra loro. E per simile diceano de' giudici: "Vedi: i giudici minacciano i rettori al sindacato, e per paura traggono da loro le ingiuste grazie, e tengono le questioni sospese anni tre o quattro, e sentenzia di niuno piato si dà: e chi vuole perdere il piato di sua volontà, non può; tanto impigliano le ragioni e 'l pagamento, sanza ordine". Giano, giustamente crucciandosi sopra loro, dicea: "Faccinsi leggi, che siano freno a tanta malizia". E quando l'ebbono così acceso alla giustizia, segretamente mandavano a' giudici e a' beccai e agli altri artefici, dicendo che Giano li vituperava, e che facea leggi contro a loro.
CAPITOLO XIV
Dino scuopre a Giano la congiura. Consigli in Ognissanti (1294, dicembre...).
Scoprissi la congiura fatta contro a Giano uno giorno che io Dino ero con alquanti di loro per raunarci in Ognissanti, e Giano se ne andava a spasso per l'orto. Quelli della congiura fermavano una falsa legge, che tutti non la intendevano; che si avesse per nimica ogni città o castello che ritenesse alcuno sbandito nimico del popolo: e questo feciono, però che la congiura era fatta con falsi popolani, per sbandeggiare Giano e metterlo in odio del popolo. Io conobbi la congiura, e dubitai per che faceano la legge sanza gli altri compagni. Palesai a Giano la congiura fatta contro a lui, e mostra' li come lo faceano nimico del popolo e degli artefici, e che, seguitando le leggi, il popolo li si volgerebbe addosso, e che egli le lasciasse, e opponessesi con parole alla difensione. E così fece, dicendo: "Perisca innanzi la città, che tante opere rie si sostengano". Allora conobbe Giano chi lo tradiva, però che i congiurati non si poteano più coprire. I non colpevoli voleano esaminare i fatti, saviamente; ma Giano, più ardito che savio, gli minacciò farli morire. E però si lasciò di seguire il fare le leggi, e con grande scandolo ci partimo. Rimasono quivi i congiurati contro a Giano; i quali furon messer Palmieri di messer Ugo Altoviti, messer Baldo Aguglioni giudice, Alberto di messer Iacopo del Giudice, Noffo di Guido Bonafedi, e Arriguccio di Lapo Arrighi. I notai scrittori furono ser Matteo Biliotti e ser Pino da Signa. Tutte le parole dette si ridissono assai peggiori: onde tutta la congiura s'avacciò di ucciderlo; perché temeano più l'opere sue che lui.
CAPITOLO XV
Consiglio de' Grandi in Sa' Jacopo (1294 - 1295).
I Grandi feciono loro consiglio in San Iacopo Oltrarno, e quivi per tutti si disse che Giano fusse morto. Poi si raunorono uno per casa, e fu il dicitore messer Berto Frescobaldi, e disse, "come i cani del popolo aveano tolti loro gli onori e gli ufici; e non osavano entrare in palagio: i loro piati non possono sollicitare: se battiamo uno nostro fante, siamo disfatti. E pertanto, signori, io consiglio che noi usciamo di questa servitù. Prendiam l'arme, e corriamo sulla piaza: uccidiamo amici e nimici, di popolo, quanti noi ne troviamo, sì che già mai noi né nostri figlioli non siamo da loro soggiogati". Appresso si levò messer Baldo della Tosa, e disse: "Signori, il consiglio del savio cavaliere è buono, se non fosse di troppo rischio; perché, se nostro pensiero venisse manco, noi saremo tutti morti: ma vinciàgli prima con ingegno, e scomuniàgli con parole piatose, dicendo: I Ghibellini ci torranno la terra, e loro e noi cacceranno, e che per Dio non lascino salire i Ghibellini in signoria: e così scomunati, conciànli per modo che mai più non si rilievino". Il consiglio del cavaliere piacque a tutti; e ordinorono due per contrada, che avessono a corrompere e scomunare il popolo, e a infamare Giano, e tutti i potenti del popolo scostassono da lui per le ragion dette.
CAPITOLO XVI
Tumulto popolare contro il Potestà, occasione a' nemici di Giano per infamarlo. Giano si parte dalla città, ed è condannato (1295).
Così dissimulando i cittadini, la città era in gran discordia. Advenne che in quelli dì messer Corso Donati, potente cavaliere, mandò alcuni fanti per fedire messer Simone Galastrone, suo consorto: e nella zuffa uno vi fu morto e alcuni feriti. L'accusa si fe' da amendue le parti; e però si convenia procedere secondo gli Ordini della Giustizia, in ricevere le pruove e in punire. Il processo venne innanzi al podestà, chiamato messer Gian di Lucino, lonbardo, nobile cavaliere e di gran senno e bontà. E ricevendo il processo uno suo giudice, e udendo i testimoni prodotti da amendue le parti, intese erano contro a messer Corso: fece scrivere al notaio per lo contrario; per modo che messer Corso dovea esser assoluto, e messer Simone condannato. Onde il podestà, essendo ingannato, prosciolse messer Corso, e condannò messer Simone. I cittadini che intesono il fatto, stimorono l'avesse fatto per pecunia, e che fosse nimico del popolo; e spezialmente gli adversari di messer Corso gridarono a una voce: "Muoia il podestà! Al fuoco, al fuoco!". I primi cominciatori del furore furon Taldo della Bella e Baldo dal Borgo, più per malivolenzia aveano a messer Corso, che per pietà dell'offesa giustizia. E tanto crebbe il furore, che il popolo trasse al palagio del potestà con la stipa per ardere la porta. Giano, che era co' Priori, udendo il grido della gente, disse: "Io voglio andare a campare il podestà delle mani del popolo"; e montò a cavallo, credendo che il popolo lo seguisse e si ritraesse per le sue parole. Ma fu il contrario, ché li volsono le lancie per abbatterlo del cavallo: il perché si tornò adietro. I Priori, per piacere al popolo, scesono col gonfalone in piaza, credendo attutare il furore. Et e' crebbe sì, ch'eglino arsono la porta del palagio, e ruborono i cavalli e arnesi del podestà. Fuggissi il podestà in una casa vicina; la famiglia sua fu presa; gli atti furono stracciati; e chi fu malizioso, che avesse suo processo in corte, andò a stracciarlo. E acciò procurò bene uno giudice che avea nome messer Baldo dell'Ammirato, il quale avea molti adversari, e stava in corte con accuse e con piati; e avendo processi contro, e temendo esser punito, fu tanto scalterito con suoi sequaci, ch'egli spezò gli armari, e stracciò gli atti, per modo che mai non si trovorono. Molti feciono di strane cose in quel furore. Il podestà e la sua famiglia fu in gran fortuna, il quale avea menata seco la donna, la quale era in Lonbardia assai pregiata e di grande belleza; la quale col suo marito, sentendo le grida del popolo, chiamavano la morte fuggendo per le case vicine, ove trovarono soccorso, essendo nascosi e celati. Il dì sequente, si raunò il Consiglio; e fu diliberato, per onore della città, che le cose rubate si rendessono al podestà, e che del suo salario fusse pagato. E così si fe': e partissi. La città rimase in gran discordia. I cittadini buoni biasimavano quello che era fatto; altri dava la colpa a Giano, cercando di cacciarlo o farlo mal capitare; altri dicea: "Poi che cominciato abiamo, ardiamo il resto": e tanto romore fu nella terra, che accese gli animi di tutti contro a Giano. E acciò consentirono i Magalotti suoi parenti; i quali lo consigliorono che, per cessare il furore del popolo, per alquanti dì s'assentasse fuori della terra: il quale, credendo al loro falso consiglio, si partì; e subito li fu dato bando; e condannato nell'avere e nella persona.
CAPITOLO XVII
Assetto delle cose dopo cacciato Giano. Dissensi fra i Grandi e l'inviato imperiale Gianni di Chalons. Trame di questo co' Ghibellini e co' Guelfi; e fine della sua commissione (1295).
Scacciato Giano della Bella a dì V di marzo 1294 e rubata la casa e meza disfatta, il popolo minuto perdé ogni rigoglio e vigore, per non avere capo; né a niente si mossono. I cittadini chiamarono per Podestà uno che era Capitano. E cominciorono ad accusare gli amici di Giano; e furonne condannati alcuni, chi in lire Vc chi in lire M, e alcuni ne furono contumaci. Giano e suo legnaggio si partì del paese; i cittadini rimasono in gran discordia; chi il lodava, e chi il biasimava. Messer Giovanni di Celona, venuto a petizione de' Grandi, volendo fornire ciò che promesso aveva, e aquistare ciò che gli era stato promesso, domandava la paga sua di cavalli 500 che seco avea menati. Fugli dinegata, essendogli detto non avea atteso quello avea promesso. Il cavaliere era di grande animo: andossene ad Arezo agli adversari de' Fiorentini a' quali disse: "Signori, io sono venuto in Toscana a petizione de' Guelfi da Firenze: ecco le carte: i patti mi niegano; ond'io e' miei compagni saremo con voi a dar loro morte come a nimici". Onde gli Aretini, i Cortonesi, e gli Ubertini, li feron onore. I Fiorentini, sentendo questo, mandorono a papa Bonifazio, pregandolo che si inframmettesse in fare tra loro accordo. E così fece: che giudicò i Fiorentini li dessono fiorini XXm; i quali gliel dierono; e rifatti suoi amici, vedendo che gli Aretini si fidavano di lui, ordinorono con lui che, tornando ad Arezo, si mostrasse nostro nimico, e che li conducesse a tòrci Saminiato, che dicea appartenersi a lui per vigore d'Inperio, per lo quale era venuto e aveane mandato. Ma uno, il quale sapea il segreto, il palesò per leggiereza d'animo, e per mostrare sapea le cose segrete; e colui a cui lo disse, lo fece assapere a messer Ceffo de' Lanberti: onde gli Aretini lo sentirono, e al cavaliere dierono licenzia con tutta la sua gente.
CAPITOLO XVIII
Condizione di Firenze negli anni susseguenti alla cacciata di Giano. Prepotere de' cattivi popolani; corruzione morale. Il gran beccaio Pecora (1295 - 1299).
I signori che cacciorono Giano della Bella, furono Lippo del Velluto, Banchino di Giovanni beccaio, Gheri Paganetti, Bartolo Orlandini, messer Andrea da Cerreto, Lotto del Migliore Guadagni, e Gherardo Lupicini gonfaloniere di giustizia, che entrorono a dì XV di febraio 1294. Cominciorono i cittadini accusare l'un l'altro, e a condannarli, e a metterli in esilio; per modo che gli amici di Giano erano impauriti, e stavano suggetti. I loro adversari gli soprastavano con molto rigoglio, infamando Giano e' suoi seguaci di grande arroganza, dicendo che avea messo scandalo in Pistoia, e arse ville e condannati molti, quando vi fu rettore. Delle quali cose dovea avere corona, perché avea puniti gli sbanditi e' malfattori, i quali si raunavano sanza temere le leggi. E il fare giustizia, diceano lo facea per tirannia. Molti diceano di lui male per viltà e per piacere a' rei. Il gran beccaio che si chiamava il Pecora, uomo di poca verità, seguitatore di male, lusinghiere, dissimulava in dire male di lui per compiacere a altri. Corrompea i popolani minuti, facea congiure, e era di tanta malizia, che mostrava a' Signori che erano eletti, era per sua operazione. A molti promettea ufici, e con queste promesse gl'ingannava. Grande era del corpo, ardito e sfacciato, e gran ciarlatore, e dicea palesemente chi erano i congiurati contro a Giano, e che con loro si raunava in una volta sotterra. Poco era constante, e più crudele che giusto. Abbominò Pacino Peruzzi, uomo di buona fama. Sanza esserne richiesto, aringava spesso ne' consigli, e dicea che era egli quello che gli avea liberati dal tiranno Giano, e che molte notti era ito con picciola lanterna, collegando il volere degli uomini per fare la congiura contro a lui.
CAPITOLO XIX
La Potesteria di Messer Monfiorito (1299).
I pessimi cittadini per loro sicurtà chiamorono per loro Podestà messer Monfiorito da Padova, povero gentile uomo, acciò che come tiranno punisse, e facesse della ragione torto e del torto ragione, come a loro paresse. Il quale prestamente intese la volontà loro, e quella seguì; che absolvea e condannava sanza ragione, come a loro parea: e tanta baldanza prese, che palesemente lui e la sua famiglia vendevano la giustizia, e non ne schifavano prezo per piccolo o grande che fusse. E venne in tanto abbominio che i cittadini nol poterono sostenere, e feciono pigliar lui e due suoi famigli, e feciollo collare: e per sua confessione seppono delle cose, che a molti cittadini ne seguì vergogna assai e pericolo: e vennono in discordia, ché l'uno volea fusse più collato, e l'altro no. Uno di loro, che avea nome Piero Manzuolo, il fe' un'altra volta tirar su: il perché confessò avere ricevuta una testimonanza falsa per messer Niccola Acciaiuoli; il perché nol condannò: e funne fatto nota. Sentendolo messer Niccola, ebe paura non si palesasse più: èbbene consiglio con messer Baldo Aguglioni, giudice sagacissimo e suo advocato; il quale dié modo avere gli atti dal notaio per vederli, e ràsene quella parte venìa contro a messer Niccola. E dubitando il notaio degli atti avea prestati, se erano tocchi, trovò il raso fatto. Accusolli: fu preso messer Niccola, e condannato in lire IIIm; messer Baldo si fuggì, ma fu condannato in lire IIm. e confinato per uno anno. In molta infamia caddono i reggenti; e molti furono, che cercorono i malifìci si trovassono, che ne furono malcontenti, per esser colpevoli. Messer Monfiorito fu messo in prigione. Più volte lo mandorono i Padovani a domandare: nol vollono rendere per amore né per grazia. Poi si fuggì di prigione, perché una moglie d'uno degli Arrigucci, che avea il marito in prigione ove lui, fece fare lime sorde e altri ferri, co' quali ruppono le prigioni, e fuggirono.
CAPITOLO XX
Principio della nuova divisione fra cittadini (1300): nimicizie tra i Cerchi e i Donati (1280 - 1297...).
La città, retta con poca giustizia, cadde in nuovo pericolo, perché i cittadini si cominciorono a dividere per gara d'ufici, abbominando l'uno l'altro. Intervenne che una famiglia che si chiamavano i Cerchi (uomini di basso stato, ma buoni mercatanti e gran ricchi, e vestivano bene, e teneano molti famigli e cavalli, e aveano bella apparenza), alcuni di loro comperorono il palagio de' conti, che era presso alle case de' Pazzi e de' Donati, i quali erano più antichi di sangue, ma non sì ricchi: onde, veggendo i Cerchi salire in altezza (avendo murato e cresciuto il palazzo, e tenendo gran vita), cominciorono avere i Donati grande odio contra loro. Il quale crebbe assai, perché messer Corso Donati, cavaliere di grande animo, essendoglisi morta la moglie, ne ritolse un'altra figliuola che fu di messer Accierito da Gaville, la quale era reda; ma non consentendo i parenti di lei, perché aspettavano quella redità, la madre della fanciulla, vedendolo bellissimo uomo, contro alla volontà degli altri conchiuse il parentado. I Cerchi, parenti di messer Neri da Gaville, cominciorono a sdegnare, e a procurare non avesse la redità; ma pur per forza l'ebbe. Di che si generò molto scandolo e pericolo per la città e per speziali persone. E essendo alcuni giovani de' Cerchi sostenuti per una malleverìa nel cortile del Podestà come è usanza, fu loro presentato uno migliaccio di porco, del quale chi ne mangiò ebbe pericolosa infermità, e alcuni ne morirono; il perché nella città ne fu gran romore, perché eran molti amati: del quale malificio fu molto incolpato messer Corso. Non si cercò il malificio, però che non si potea provare; ma l'odio pur crebbe di giorno in giorno, per modo che i Cerchi li cominciorono a lasciare, e le raunate della Parte, e accostarsi a' popolani e reggenti. Da' quali erano ben veduti, sì perché erano uomini di buona condizione e umani, e sì perché erano molto serventi, per modo che da loro aveano quello che voleano; e simile da' rettori. E molti cittadini tirarono da loro, e fra gli altri messer Lapo Salterelli e messer Donato Ristori giudici, e altre potenti schiatte. I Ghibellini similmente gli amavano per la loro umanità, e perché da loro traevano de' servigi e non faceano ingiurie: il popolo minuto gli amava, perché dispiacque loro la congiura fatta contro a Giano. Molto furono consigliati e confortati di prendere la signoria, che agevolmente l'arebbono avuta per la loro bontà; ma mai non lo vollono consentire. Essendo molti cittadini un giorno, per seppellire una donna morta, alla piazza de' Frescobaldi, e essendo l'uso della terra a simili raunate i cittadini sedere basso in su stuoie di giunchi, e i cavalieri e dottori su alto sulle panche, e essendo a sedere, i Donati e i Cerchi, in terra (quelli che non erano cavalieri), l'una parte al dirimpetto all' altra, uno o per racconciarsi i panni o per altra cagione, si levò ritto. Gli adversari, per sospetto, anche si levorono, e missono mano alle spade; gli altri feciono il simile: e vennono a]la zuffa: gli altri uomini che v'erano insieme, li tramezorono, e non li lasciorono azuffare. Non si poté tanto amortare, che alle case de' Cerchi non andasse molta gente; la quale volentieri sarebbe ita a ritrovare i Donati, se non che alcuni de' Cerchi nollo consentì. Uno giovane gentile, figliuolo di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere, chiamato Guido, cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo studio, nimico di messer Corso, avea più volte diliberato offenderlo. Messer Corso forte lo temea, perché lo conoscea di grande animo; e cercò d'assassinarlo, andando Guido in pellegrinaggio a San Iacopo; e non li venne fatto. Per che, tornato a Firenze e sentendolo, inanimò molti giovani contro a lui, i quali li promisono esser in suo aiuto. E essendo un dì a cavallo con alcuni da casa i Cerchi, con uno dardo in mano, spronò il cavallo contro a messer Corso, credendosi esser seguìto da' Cerchi, per farli trascorrere nella briga: e trascorrendo il cavallo, lanciò il dardo, il quale andò in vano. Era quivi, con messer Corso, Simone suo figliuolo, forte e ardito giovane, e Cecchino de' Bardi, e molti altri, con le spade; e corsogli dietro: ma non lo giugnendo, li gittarono de' sassi; e dalle finestre gliene furono gittati, per modo fu ferito nella mano. Cominciò per questo l'odio a multiplicare. E messer Corso molto sparlava di messer Vieri, chiamandolo l'asino di Porta, perché era uomo bellissimo, ma di poca malizia, né di bel parlare; e però spesso dicea: "Ha raghiato oggi l'asino di Porta?"; e molto lo spregiava. E chiamava Guido, Cavicchia. E così rapportavano i giullari, e spezialmente uno si chiamava Scampolino, che rapportava molto peggio non si diceva, perché i Cerchi si movessero a briga co' Donati. I Cerchi non si moveano, ma minacciavano con l'amistà de' Pisani e delli Aretini. I Donati ne temeano, e diceano che i Cerchi aveano fatta lega co' Ghibellini di Toscana: e tanto l'infamarono, che venne a orecchi del Papa.
CAPITOLO XXI
Il Pontefice, insospettito de' Cerchi, come d'amici a' Ghibellini, manda a Firenze un Cardinale a paciaro. Sua mala riuscita. Confino de'principali delle due parti (1300,... - giugno...).
Sedea in quel tempo nella sedia di San Piero papa Bonifazio VIII, il quale fu di grande ardire e alto ingegno, e guidava la Chiesa a suo modo, e abbassava chi non li consentia. Erano con lui sua mercatanti gli Spini, famiglia di Firenze ricca e potente: e per loro stava là Simone Gherardi, uomo pratico in simile esercizio; e con lui era uno figliuolo d'uno affinatore d'ariento, fiorentino, si chiamava il Nero Canbi, uomo astuto e di sottile ingegno, ma crudo e spiacevole. Il quale tanto aoperò col Papa per abassare lo stato de' Cerchi e de' loro sequaci, che mandò a Firenze messer frate Matteo d'Aquasparta, cardinale Portuense, per pacificare i Fiorentini. Ma niente fece, perché dalle parti non ebbe la commessione volea, e però sdegnato si partì di Firenze. Andando una vilia di San Giovanni l'Arti a offerere, come era usanza, e essendo i consoli innanzi, furono manomessi da certi grandi, e battuti, dicendo loro: "Noi siamo quelli che demo la sconfitta in Campaldino; e voi ci avete rimossi degli ufici e onori della nostra città". I Signori, sdegnati, ebbono consiglio da più cittadini, e io Dino fui uno di quelli. E confinorono alcuni di ciascuna parte: cioè, per la parte de' Donati, messer Corso e Sinibaldo Donati, messer Rosso e messer Rossellino della Tosa, messer Giachinotto e messer Pazino de' Pazi, messer Geri Spini, messer Porco Manieri, e loro consorti, al Castel della Pieve; e per la parte de' Cerchi, messer Gentile e messer Torrigiano e Carbone de' Cerchi, Guido Cavalcanti, Baschiera della Tosa, Baldinaccio Adimari, Naldo Gherardini, e de' loro consorti, a Sarezano, i quali ubidirono e andorono a' confini. Quelli della parte de' Donati non si voleano partire, mostrando che tra loro era congiura. I rettori li voleano condannare. E se non avessono ubidito e avessono presa l'arme, quel dì avrebbono vinta la terra; però che i Lucchesi, di conscienzia del Cardinale, veniano in loro aiuto con grande esercito d'uomini. Vedendo i Signori che i Lucchesi veniano, scrissono loro, non fussono arditi entrare su loro terreno; e io mi trovai a scrivere la lettera: e alle villate si comandò pigliassono i passi. E per studio di Bartolo di messer Iacopo de' Bardi tanto si procurò, che ubidirono. Molto si palesò allora la volontà dcl Cardinale, che la pace, che egli cercava, era per abbassare la parte de' Cerchi e inalzare la parte de' Donati. La quale volontà, per molti intesa, dispiacque assai. E però si levò uno di non molto senno, il quale con uno balestro saettò uno quadrello alla finestra del vescovado (dove era il Cardinale), il quale si ficcò nell'asse: e per paura si partì di quindi, e andò a stare oltrarno a casa messer Tommaso per più sicurtà. I Signori, per rimediare allo sdegno avea ricevuto, gli presentorono fiorini MM nuovi. E io gliel portai in una coppa d'ariento, e dissi: "Messere, non li disdegnate perché siano pochi, perché sanza i consigli palesi non si può dare più moneta". Rispose gli avea cari; e molto li guardò, e non li volle.
CAPITOLO XXII
Quale era stato il fatto, che determinò la nimicizia fra le due parti de' Cerchi e de' Donati: quali famiglie tennero per gli uni o per gli altri (1300 maggio).
Perché i giovani è più agevole a ingannare che i vecchi, il diavolo, accrescitore de' mali, si fece da una brigata di giovani che cavalcavano insieme: i quali, ritrovandosi insieme a cena una sera di calendimaggio, montarono in tanta superbia, che pensarono scontrarsi nella brigata de' Cerchi e contro a loro usare le mani e i ferri. In tal sera, che è il rinovamento della primavera, le donne usano molto per le vicinanze i balli. I giovani de' Cerchi si riscontrorono con la brigata de' Donati, tra' quali era uno nipote di messer Corso, e Bardellino de' Bardi, e Piero Spini, e altri loro compagni e seguaci, i quali assalirono la brigata de' Cerchi con armata mano. Nel quale assalto fu tagliato il naso a Ricoverino de' Cerchi da uno masnadiere de' Donati, il quale si disse fu Piero Spini, e in casa sua rifuggirono. Il quale colpo fu la distruzione della nostra città, perché crebbe molto odio tra i cittadini. I Cerchi non palesoron mai chi si fusse, aspettando farne gran vendetta. Divisesi di nuovo la città, negli uomini grandi, mezani e piccolini; e i religiosi non si poterono difendere che con l'animo non si dessono alle dette parti, chi a una chi a una altra. Tutti i Ghibellini tennono co i Cerchi, perché speravano avere da loro meno offesa; e tutti quelli che erano dell'animo di Giano della Bella, però che parea loro fussono stati dolenti della sua cacciata. Fu ancora di loro parte Guido di messer Cavalcante Cavalcanti, perché era nimico di messer Corso Donati; Naldo Gherardini, perché era nimico de' Manieri, parenti di messer Corso; messer Manetto Scali e suoi consorti, perché erano parenti de' Cerchi; messer Lapo Salterelli, loro parente; messer Berto Frescobaldi, perché avea ricevuti da loro molti danari in prestanza; messer Goccia Adimari, per discordia avea co' consorti; Bernardo di messer Manfredi Adimari, perché era loro compagno; messer Biligiardo, e 'l Baschiera, e Baldo dalla Tosa, per dispetto di messer Rosso loro consorto, perché da lui furono abbassati degli onori. I Mozi, i Cavalcanti (il maggior lato), e più altre famiglie e popolani, tennono con loro. Con la parte di messer Corso Donati tennono messer Rosso messer Arrigo e messer Nepo e Pinuccio dalla Tosa, per grande usanza e amicizia; messer Gherardo Ventraia, messer Geri Spini e suoi consorti, per l'offesa fatta; messer Gherardo Sgrana e messer Bindello per usanza e amicizia; messer Pazino de' Pazi e suoi consorti, i Rossi, la maggior parte de' Bardi, i Bordoni, i Cerretani, Borgo Rinaldi, il Manzuolo, il Pecora beccaio, e molti altri. E di popolani furono co' Cerchi, Falconieri, Ruffoli, Orlandini, quelli delle Botte, Angiolieri, Amuniti, quelli di Salvi del Chiaro Girolami, e molti altri popolani grassi.
CAPITOLO XXIII
Degli sbanditi, alcuni rompono il confino, altri sono richiamati. Consiglio de' Donati in Santa Trinita (1301, aprile - giugno...).
Essendo messer Corso Donati a' confini a Massa Trebara, gli ruppe, e andossene a Roma, e non ubbidì; il perché fu condannato nell'avere e nella persona. E col Nero Cambi che era compagno degli Spini in Corte, per mezzo di messer Iacopo Guatani, parente del Papa, e d'alcuni Colonnesi, con grande stanzia pregavano il Papa volesse rimediare, perché la parte guelfa periva in Firenze, e che i Cerchi favoreggiavano i Ghibellini. Per modo che il Papa fece citare messer Vieri de' Cerchi; il quale andò a Roma molto onorevolmente. Il Papa, a petizione degli Spini suoi mercatanti e de' sopradetti amici e parenti, lo richiese facesse pace con messer Corso; il che non volle consentire, mostrando non facea contro a parte guelfa; il perché da lui fu licenziato, e partissi. La parte de' Cerchi, che era confinata, tornò in Firenze. Messer Torrigiano e Carbone e Vieri di messer Ricovero de' Cerchi, messer Biligiardo dalla Tosa, e Carbone e Naldo Gherardini, e messer Guido Scimia de' Cavalcanti, e gli altri di quella parte, stavano chetamente. Ma messer Geri Spini, messer Porco Manieri, messer Rosso dalla Tosa, messer Pazino de' Pazi, Sinibaldo di messer Simone Donati, capi dell'altra parte, non contenti di loro tornata, co' loro seguaci si raunorono un dì in Santa Trinita, diliberati di cacciare i Cerchi e loro parte. E feciono gran consiglio, assegnando molte false ragioni; e dopo lunga disputa, messer Bondalmonte, savio e temperato cavaliere, disse che era gran rischio, e che troppo male advenire ne potea, e che al presente non si sofferisse. E a questo consiglio concorse la maggior parte; però che messer Lapo Salterelli avea promesso a Bartolo di messer Iacopo de' Bardi (a cui era data gran fede), le cose s'acconcerebbono per buono modo. E sanza niente fare si partirono.
CAPITOLO XXIV
Dino s'intromette, per la pace della città, fra la Signoria e i Donati. I Cerchi gridano contro: e si scuopre e punisce una congiura ordinata dai Donati pel Consiglio di Santa Trinita (1301, aprile - giugno...).
Ritrovandomi in detto consiglio io Dino Compagni, disideroso di unità e pace fra' cittadini, avanti si partissono dissi: "Signori, perché volete voi confondere e disfare una così buona città? Contro a chi volete pugnare? contro a' vostri fratelli? Che vettoria arete? non altro che pianto". Risposono che il loro consiglio non era che per spegnere scandalo e stare in pace. Udito questo, m'accozai con Lapo di Guaza Ulivieri, buono e leale popolano, e insieme andamo a' priori, e conducemovi alcuni erano stati al detto consiglio, e tra i priori e loro fumo mezani, e con parole dolci raumiliamo i Signori: e messer Palmieri Altoviti, che allora era de' Signori, fortemente li riprese sanza minaccie. Fu loro risposto che di quella raunata niente più si farebbe; e che alcuni fanti eran venuti a loro richiesta, fussono lasciati andare sanza esser offesi. E così fu da' signori priori comandato. La parte adversa continuamente stimolava la Signoria gli punisse, perché aveano fatto contro agli Ordini della Giustizia, per lo consiglio tenuto in Santa Trinita, per fare congiura e trattato contra il reggimento. Ricercando il segreto della congiura, si trovò che il Conte da Battifolle mandava il figliuolo con suoi fedeli e con arme a petizione de' congiurati: e trovaronsi lettere di messer Simone de' Bardi, per le quali scrivea facessono fare gran quantità di pane, acciò che la gente che venia avesse da vivere. Il perché chiaramente si comprese la congiura ordinata per lo consiglio tenuto in Santa Trinita; onde il Conte e 'l figliuolo e messer Simone furono condannati in grave pena. Scopertisi gli odii e le malivolenzie d'amendue le parti, ciascuno procurava offendere l'altro: ma troppo più baldanzosamente si scopriano i Donati che i Cerchi, nello sparlare, e di niente temeano.
CAPITOLO XXV
I Cerchi si afforzano in Pistoia. Parte nera e Parte bianca de' Cancellieri. Capitaneria di Cantino Cavalcanti. Condizioni della cittadinanza pistoiese. Capitaneria di Andrea Gherardini. Cacciata de' Neri (... - estate del 1301).
I Cerchi procuravano avere i Pistolesi dalla loro parte; i quali aveano data giuridizione a' Fiorentini vi mandassono podestà e capitano. E essendovi mandato Cantino di messer Amadore Cavalcanti per capitano, uomo poco leale, ruppe una legge aveano i Pistolesi, che era che i loro Anziani si eleggessono per amendue le parti loro, cioè Neri e Bianchi. Queste due parti, Neri e Bianchi, naquono d'una famiglia che si chiamano Cancellieri, che si divise: per che alcuni più congiunti si chiamorono Bianchi, e gli altri Neri; e così fu divisa tutta la città: e così eleggeano gli Anziani. Questo Cantino ruppe la loro legge, e fece chiamare tutti gli Anziani di parte bianca. Il quale, essendone ripreso, dicea per sua scusa averlo di comandamento da' Signori di Firenze. E non dicea la verità. I Pistolesi, malcontenti, viveano in gran tribulazioni, ingiuriandosi e uccidendosi l'uno l'altro; e da' rettori erano spesso condannati e male trattati, a diritto e a torto; fu loro tratti di mano molti danari. Però che naturalmente i Pistolesi sono uomini discordevoli, crudeli e salvatichi. Messer Ugo Tornaquinci, podestà, di simili condannagioni ne trasse fiorini IIIm; e così molti altri cittadini fiorentini, furono là rettori. Giano della Bella era stato là capitano: il quale lealmente li resse; ma crudele fu, perché arse a loro case di fuori, dove riteneano sbanditi, e non ubidiano. In Pistoia era uno pericoloso cavaliere della parte de' Cancellieri neri, che avea nome messer Simone da Pantano, uomo di meza statura, magro e bruno, spiatato e crudele, rubatore e fattore d'ogni male; e era con la parte di messer Corso Donati: e con la parte adversa era uno altro chiamato messer Schiatta Amati, uomo più vile che savio, e meno crudele; il quale era parente de' Cerchi bianchi. In questo tempo i Fiorentini mandorono per capitano a Pistoia Andrea Gherardini, il quale fu fatto cavaliere. E in quel tempo li fu mostro come i Lucchesi veniano a Pistoia per pigliare la terra. Onde il detto messer Andrea confinò molti cittadini: i quali, per suo comandamento, non si vollono partire, anzi s'afforzorono, e cercorono di difendersi, credendo avere soccorso; e il detto messer Simone invitò più suoi amici e fanti forestieri. Il podestà assegnò loro termine a partire, e non ubidirono: onde sdegnò; e punigli con l'arme e col fuoco, avendo aiuto da Firenze, e i loro seguaci fece ribelli. Alcuni dissono, il detto messer Andrea n'avea avuti fiorini IIIIm, e alcuni dissono gli furono dati dal Comune di Firenze, per rispetto della nimicizia ne avea acquistata.
CAPITOLO XXVI
Deplorevoli conseguenze, alla città di Pistoia, della cacciata de' Neri. Accenno all'assedio che poi i Neri di Firenze posero a Pistoia nel 1306.
Quanta bella e utile città e abbondevole si confonde! Piangano i suoi cittadini, formati di bella statura oltre a' Toscani, posseditori di così ricco luogo, attorniato di belle fiumane e d'utili alpi e di fini terreni; forti nell'armi, discordevoli e salvatichi, il perché tal città fu quasi morta. Però che ivi a picciol tempo si cambiò fortuna; e furono da' Fiorentini assediati; in tanto che davano la carne per cibo, e lasciavansi tagliare le membra per recare alla terra vittuaglia, e a tanto si condussono, che altro che pane non mangiavano fino all'ultimo dì. A' quali Iddio glorioso provide, che per accordo furono ricevuti (nol sappiendo i loro adversari) con patti fatti di loro salvezza: i quali osservati non furono; perché, poi che l'ebbono avuta, le belle mura della città furono dirupinate. Cessata la pistolenza e la crudeltà del tagliare i nasi alle donne che usciano della terra per fame (e agli uomini tagliavano le mani), non perdonarono alla bellezza della città, che come villa disfatta rimase. Del loro assedio, e del loro pericolo e fame, e delli assalimenti, e delle prodeze che feciono coloro che dentro vi si rinchiusono, né di loro belle castella che perderono per tradimento, non intendo scrivere, però che altri più certamente ne scriverrà; il quale se con piatà le scriverrà, farà gli uditori piangere dirottamente.
CAPITOLO XXVII
I Cerchi non sanno profittare in Firenze della vittoria procurata a Parte bianca in Pistoia. Schiatta Cancellieri Capitano di guerra in Firenze. Prime arti de' Donati contro i Cerchi: divisioni di Parte guelfa (estate del 1301 - ...).
Finito l'uficio di detto messer Andrea, la parte bianca, non sappiendosi reggere perché non avea capo (perché i Cerchi schifavano non volere il nome della signoria, più per viltà che per piatà, perché forte temeano i loro adversari), chiamorono messer Schiatta Amati, de' Cancellier bianchi, per loro capitano di guerra; e dieronli tanta balìa, che i soldati rispondeano a lui, mandava i bandi da sua parte, e pene imponea, e cavalcate contra i nimici, sanza alcuno consiglio. Era il detto cavaliere uomo molto piatoso e temoroso; la guerra non li piacea; e tutto era contrario al suo consorto, messer Simone da Pontano de' Cancellier neri. Non prese il detto capitano la città, come dovea; il perché i nimici nol temeano. I soldati non erano pagati; danari non aveano, né ardimento da porne: e fortezza niuna non prese, e confinati non fece. Dicea parole minaccevoli; e facea viste assai; ma con effetto nulla seguia. E quelli che nol conosceano li teneano ricchi, e potenti, e savi; e per questo stavano in buona speranza. Ma i savi uomini diceano: "E' sono mercatanti, e naturalmente sono vili; e i lor nimici sono maestri di guerra e crudeli uomini". I nimici de' Cerchi cominciorono ad infamarli a' Guelfi, dicendo che si intendevano con li Aretini e co' Pisani e co' Ghibellini. E questo non era vero. E con molta gente si volsono loro contro, appognendo loro il falso; però che con loro niuno trattato aveano, né loro amicizia; ma a chi ne li riprendeano, non lo negavano, credendo esserne più temuti e con questo batterli, dicendo: "E' ci temeranno più, dubitando che noi non ci accostiamo a loro e i Ghibellini più ci ameranno, avendo speranza in noi". E volendo i Cerchi signoreggiare, furono signoreggiati, come innanzi si dirà.
LIBRO II
CAPITOLO I
Ai Guelfi Neri di Firenze.
Levatevi, o malvagi cittadini pieni di scandoli, e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani, e distendete le vostre malizie. Palesate le vostre inique volontà e i pessimi proponimenti; non penate più; andate e mettete in ruina le belleze della vostra città. Spandete il sangue de' vostri fratelli, spogliatevi della fede e dello amore, nieghi l'uno all'altro aiuto e servizio. Seminate le vostre menzogne, le quali empieranno i granai de' vostri figliuoli. Fate come fe' Silla nella città di Roma, che tutti i mali che esso fece in X anni, Mario in pochi dì li vendicò. Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? pur quella del mondo rende una per una. Guardate a' vostri antichi, se ricevettono merito nelle loro discordie: barattate gli onori ch'eglino acquistorono. Non vi indugiate, miseri ché più si consuma in un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace; e picciola è quella favilla, che a distruzione mena un gran regno.
CAPITOLO II
Papa Bonifazio VIII fa paciaro in Toscana Carlo di Valois, a danno de' Guelfi bianchi (1301, autunno).
Divisi così i cittadini di Firenze, cominciarono a infamare l'uno l'altro per le terre vicine, e in Corte di Roma a papa Bonifazio, con false informazioni. E più pericolo feciono le parole falsamente dette, in Firenze, che le punte de' ferri. E tanto feciono col detto Papa, dicendo che la città tornava in mano de' Ghibellini, e ch'ella sarebbe ritegno de' Colonnesi; e la gran quantità de' danari mischiata con le false parole, che, consigliato d'abbattere il rigoglio de' Fiorentini, promise di prestare a' Guelfi neri la gran potenzia di Carlo di Valos de' reali di Francia, il quale era partito di Francia per andare in Cicilia contro a Federigo d'Araona. Al quale scrisse, lo volea fare paciaro in Toscana contra i discordanti dalla Chiesa. Fu il nome di detta commissione molto buono, ma il proponimento era contrario; perché volea abattere i Bianchi e innalzare i Neri, e fare i Bianchi nimici della casa di Francia e della Chiesa.
CAPITOLO III
Ambascerie de'Neri e de'Bianchi di Firenze a Carlo in Bologna, e suo passaggio dinanzi a Pistoia (1301, agosto).
Essendo già venuto messer Carlo di Valos a Bologna, furono a lui imbasciadori de' Neri di Firenze, usando queste parole: "Signore, merzè per Dio, noi siamo i Guelfi di Firenze, fedeli della casa di Francia: per Dio, prendi guardia di te e della tua gente, perché la nostra città si regge da Ghibellini". Partiti gli anbasciadori de' Neri, giunsono i Bianchi, i quali con grandissima reverenzia li feciono molte proferte, come a loro signore. Ma le maliziose parole poterono più in lui, che le vere: perché li parve maggior segno d'amistà il dire "guarda come tu vai", che le proferte. Fu consigliato che venisse per lo cammino di Pistoia, per farlo venire in isdegno co' Pistolesi; i quali si maravigliarono facesse la via di là, e per dubbio fornirono le porti della città con celate armi e con gente. I seminatori degli scandali li diceano: "Signore, non entrare in Pistoia, perché e' ti prenderanno, però ch'eglino hanno la città segretamente armata, e sono uomini di grande ardire e nimici della casa di Francia". E tanta paura li misono, che venne, fuori di Pistoia, per la via d'un piccolo fiumicello, mostrando contro a Pistoia maltalento. E qui s'adenpié la profezia d'uno antico villano, il quale lungo tempo innanzi avea detto: "Verrà di ponente un signore su per l'Onbroncello, il qual farà gran cose: il perché gli animali che portano le some, per cagione della sua venuta, andranno su per le cime delle torri di Pistoia".
CAPITOLO IV
Carlo di Valois in Corte di Roma. Ambasceria de' Guelfi Bianchi al Pontefice (1301, settembre - ottobre).
Passò messer Carlo in Corte di Roma, sanza entrare in Firenze; e molto fu stimolato, e molti sospetti li furono messi nell'animo. Il signore non conoscea i Toscani né le malizie loro. Messer Muciatto Franzesi, cavaliere di gran malizia, picciolo della persona, ma di grande animo, conoscea ben la malizia delle parole erano dette al signore: e perché anche lui era corrotto, li confermava quello che pe' seminatori degli scandoli gli era detto, che ogni dì gli erano dintorno. Aveano i Guelfi bianchi inbasciadori in Corte di Roma, e i Sanesi, in loro compagnia, ma non erano interi. Era tra loro alcuno nocivo uomo: fra' quali fu messer Ubaldino Malavolti giudice, sanese pieno di gavillazioni, il quale ristette per cammino per raddomandare certe giuridizioni d'uno castello il quale teneano i Fiorentini, dicendo che a lui appartenea; e tanto impedì a' compagni il cammino, che non giunsono a tempo. Giunti li anbasciadori in Roma, il Papa gli ebbe soli in camera, e disse loro in segreto: Perché siete voi così ostinati? Umiliatevi a me: e "io vi dico in verità, che io non ho altra intenzione che di vostra pace. Tornate indietro due di voi; e abiano la mia benedizione, se procurano che sia ubidita la mia volontà".
CAPITOLO V
Nuova Signoria in Firenze, la quale tenta invano e con soverchia dolcezza la pacificazione delle parti. Pessima disposizione de' Guelfi neri (1301, ottobre).
In questo stante furono in Firenze eletti nuovi Signori, quasi di concordia d'amendue le parti, uomini non sospetti e buoni, di cui il popolo minuto prese grande speranza; e così la Parte bianca, perché furono uomini uniti e sanza baldanza, e aveano volontà d'acomunare gli ufici, dicendo: "Questo è l'ultimo rimedio". I loro adversari n'ebbono speranza, perché li conosceano uomini deboli e pacifici; i quali sotto spezie di pace credeano leggiermente poterli ingannare. I Signori furono questi, che entrorono a dì XV d'ottobre 1301: Lapo del Pace Angiolieri, Lippo di Falco Canbio, e io Dino Compagni, Girolamo di Salvi del Chiaro, Guccio Marignolli, Vermiglio d'Iacopo Alfani, e Piero Brandini Gonfaloniere di Giustizia; i quali come furono tratti, n'andarono a Santa Croce, però che l'uficio degli altri non era compiuto. I Guelfi neri incontanente furono accordati andarli a vicitare a quattro e a sei insieme, come a loro accadeva, e diceano: "Signori, voi sete buoni uomini, e di tali avea bisogno la nostra città. Voi vedete la discordia de' cittadini vostri: a voi la conviene pacificare, o la città perirà. Voi sete quelli che avete la balìa; e noi a ciò fare vi proferiamo l'avere e le persone, di buono e leale animo". Risposi io Dino per commessione de' compagni, e dissi: "Cari e fedeli cittadini, le vostre profferte noi riceviamo volentieri, e cominciare vogliamo a usarle: e richieggiànvi che voi ci consigliate, e pognate l'animo, a guisa che la nostra città debba posare". E così perdemo il primo tempo, che non ardimo a chiudere le porti, né a cessare l'udienza a' cittadini: benché di così false profferte dubitavamo, credendo che la loro malizia coprissono con loro falso parlare. Demo loro intendimento di trattare pace, quando convenìa arrotare i ferri. E cominciamoci da' Capitani della Parte guelfa, i quali erano messer Manetto Scali e messer Neri Giandonati, e dicemo loro: "Onorevoli capitani, dimettete e lasciate tutte l'altre cose, e solo v'aoperate di far pace nella parte della Chiesa; e l'uficio nostro vi si dà interamente in ciò che domanderete". Partironsi i capitani molto allegri e di buono animo, e cominciarono a convertire gli uomini e dire parole di piatà. Sentendo questo, i Neri subito dissono che questo era malizia e tradimento, e cominciorono a fugir le parole. Messer Manetto Scali ebbe tanto animo, che si mise a cercar pace tra i Cerchi e li Spini, e tutto fu riputato tradimento. La gente, che tenea co' Cerchi, ne prese viltà: "Non è da darsi fatica, ché pace sarà". E i loro adversari pensavano pur di compiere le loro malizie. Niuno argomento da guerra si fece, perché non poteano pensare che a altro che a concordia si potesse venire, per più ragioni. La prima, per piatà di parte, e per non dividere gli onori della città: la seconda, perché cagion non v'era altro che di discordia, però che l'offese non erano ancora usate tante, che concordia esser non vi dovesse, raccomunando gli onori. Ma pensorono che coloro che aveano fatta l'offesa non potessoro campare, se i Cerchi non fussono stati distrutti e i loro sequaci: e questo male si potea fare sanza la distruzione della terra, tanto era grande la loro potenzia.
CAPITOLO VI
Carlo viene a Siena, e manda a Firenze ambasciatori, che sono ricevuti dalla Signoria (1301, ottobre).
Ordinorono e procurorono i Guelfi neri, che messer Carlo di Valos, che era in Corte, venisse in Firenze: e fecesi il diposito, pel soldo suo e de' suoi cavalieri, di fiorini LXXm; e condussollo a Siena. E quando fu quivi, mandò anbasciadori a Firenze messer Guiglielmo francioso, cherico, uomo disleale e cattivo, quantunque in apparenza paresse buono e benigno, e uno cavaliere provenzale che era il contrario, con lettere del loro signore. Giunti in Firenze, visitorono la Signoria con gran reverenzia, e domandarono parlare al gran Consiglio; che fu loro concesso. Nel qual per loro parlò uno advocato da Volterra, che con loro aveano, uomo falso e poco savio: e assai disordinatamente parlò: e disse che il sangue reale di Francia era venuto in Toscana, solamente per metter pace nella parte di santa Chiesa, e per grande amore che alla città portava e a detta parte; e che il Papa li mandava, siccome signore che se ne potea ben fidare, però che il sangue della casa di Francia mai non tradì né amico né nimico; il perché dovesse loro piacere, venisse a fare il suo uficio. Molti dicitori si levarono in piè, affocati per dire e magnificare messer Carlo, e andarono alla ringhiera tosto ciascuno per esser il primo; ma i Signori niuno lasciorono parlare. Ma tanti furono che gli anbasciadori s'avidono che la parte che volea messer Carlo era maggiore e più baldanzosa che quella non lo volea: e al signore scrissono, che aveano inteso che la parte de'Donati era assai innalzata, e la parte de' Cerchi era assai abbassata. I Signori dissono agli anbasciadori, risponderebbono al loro signore per anbasciata; e intanto preson loro consiglio: perché, essendo la novità grande, niente voleano fare sanza il consentimento de' loro cittadini.
CAPITOLO VII
La Signoria, richiesto prima il Consiglio di Parte guelfa e delle Arti, manda ambasciatori a Carlo, a fargli giurare la sicurezza della città.I Neri ne affrettano la venuta (1301, ottobre).
Richiesono adunque il Consiglio generale della Parte guelfa e delli LXXII mestieri d'Arti, i quali avean tutti consoli, e inposono loro, che ciascuno consigliasse per scrittura, se alla sua arte piacea se messer Carlo di Valos fosse lasciato venire in Firenze come paciaro. Tutti risposono, a voce e per scrittura, fusse lasciato venire, e onorato fusse come signore di nobile sangue: salvo i fornai, che dissono che né ricevuto né onorato fusse, perché venìa per distruggere la città. Mandoronsi gli anbasciadori, e furono gran cittadini di popolo, dicendoli che potea liberamente venire: commettendo loro, che da lui ricevessono lettere bollate, che non acquisterebbe contro a noi niuna giuridizione, né occuperebbe niuno onore della città, né per titolo d'Inperio né per altra cagione, né le leggi della città muterebbe né l'uso. Il dittatore fu messer Donato d'Alberto Ristori, con più altri giudici in compagnia. Fu pregato il cancelliere suo, che pregasse il signore suo che non venisse il dì d'Ognissanti, però che il popolo minuto in tal dì facea festa con i vini nuovi, e assai scandoli potrebbono incorrere, i quali, con la malizia de' rei cittadini, potrebbono turbare la città: il perché diliberò venire la domenica sequente, stimando che per bene si facesse lo indugio. Andorono gli anbasciadori più per avere la lettera innanzi la sua venuta, che per altra cagione; avisati che, se avere non si potesse come promesso avea, prendessono di lui ria fidanza, e a Poggi Bonizi gli negassono il passo, il quale era ordinato d'afforzare per salveza della terra; e commessione n'ebbe, di vietarli la vivanda, messer Bernardo de' Rossi, che era vicario. In questo tempo la lettera venne, e io la vidi e feci copiare, e tennila fino alla venuta del signore: e quando fu venuto, io lo domandai, se di sua volontà era scritta; rispose: "Sì, certamente". Quelli che 'l conduceano s'affrettarono: e di Siena il trassono quasi per forza; e donaronli fiorini XVIIm per avacciarlo, però che lui temea forte la furia de' Toscani, e venìa con gran riguardo. I conducitori lo confortavano, e la sua gente, e diceano: "Signore, e' sono vinti, e domandano indugio di tua venuta per alcuna malizia, e fanno congiure"; e altre sospinte gli davano. Ma congiura alcuna non si facea.
CAPITOLO VIII
Dino raduna i cittadini in San Giovanni, esortandoli alla concordia e alla difesa della città. Falsi giuramenti e maligne parole (1301, ottobre).
Stando le cose in questi termini, a me Dino venne un santo e onesto pensiero, immaginando: "Questo signore verrà, e tutti i cittadini troverrà divisi; di che grande scandalo ne seguirà". Pensai, per lo uficio ch'io tenea e per la buona volontà che io sentia ne' miei compagni, di raunare molti buoni cittadini nella chiesa di San Giovanni; e così feci. Dove furono tutti gli ufici; e quando mi parve tempo, dissi: "Cari e valenti cittadini, i quali comunemente tutti prendesti il sacro baptesmo di questo fonte, la ragione vi sforza e strigne ad amarvi come cari frategli; e ancora perché possedete la più nobile città del mondo. Tra voi è nato alcuno sdegno, per gara d'ufici, li quali, come voi sappete, i miei compagni e io con saramento v'abiamo promesso d'accomunarli. Questo signore viene, e conviensi onorare. Levate via i vostri sdegni e fate pace tra voi, acciò che non vi trovi divisi: levate tutte l'offese e ree volontà state tra voi di qui adietro; siano perdonate e dimesse, per amore e bene della vostra città. E sopra questo sacrato fonte, onde traesti il santo battesimo, giurate tra voi buona e perfetta pace, acciò che il signore che viene truovi i cittadini tutti uniti". A queste parole tutti s'accordorono, e così feciono, toccando il libro corporalmente, e giurorono ottenere buona pace e di conservare gli onori e giurisdizion della città. E così fatto, ci partimo di quel luogo. I malvagi cittadini, che di tenereza mostravano lagrime, e baciavano il libro, e che mostrarono più acceso animo, furono i principali alla distruzion della città. De' quali non dirò il nome per onestà: ma non posso tacere il nome del primo, perché fu cagion di fare seguitare agli altri, il quale fu il Rosso dello Stroza; furioso nella vista e nell'opere; principio degli altri; il qual poco poi portò il peso del saramento. Quelli che aveano maltalento, dicevano che la caritevole pace era trovata per inganno. Se nelle parole ebbe alcuna fraude, io ne debbo patire le pene; benché di buona intenzione ingiurioso merito non si debba ricevere. Di quel saramento molte lagrime ò sparte, pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia.
CAPITOLO IX
Arrivo di Carlo di Valois in Firenze, e suo ricevimento (I novembre 1301).
Venne il detto messer Carlo ne la città di Firenze domenica addì IV di novembre, e da' cittadini fu molto onorato, con palio e con armeggiatori. La gente comune perdé il vigore; la malizia si cominciò a stendere. Vennono i Lucchesi, dicendo che veniano a onorare il signore: i Perugini, con CC cavalli; messer Cante d'Agobbio con molti cavalieri sanesi e con molti altri, a VI e a X per volta, adversarii de' Cerchi: a Malatestino e a Mainardo da Susinana non si negò l'entrata, per non dispiacere al signore. E ciascuno si mostrava amico. Sì che co' cavalli di messer Carlo, che erano VIIIc, e con quelli de' paesani d'attorno venuti, vi si trovarono cavalli MCC al suo comandamento. Il signore smontò in casa i Frescobaldi. Assai fu pregato smontasse dove il grande e onorato re Carlo smontò, e tutti i grandi signori che nella città venìano, però che lo spazio era grande, e il luogo sicuro; ma i suoi conducitori non lo feciono, anzi providono afforzarsi con lui oltrarno, imaginando: "Se noi perdiamo il resto della città, qui rauneremo nostro sforzo".
CAPITOLO X
La Signoria elegge cittadini d'ambedue le parti, e si consiglia con loro della salute della città. Proposta di una nuova Signoria mista di Bianchi e di Neri; Perché non potuta accettare da' Priori dell'ottobre (fra gli ultimi dell'ottobre e i primi del novembre 1301).
I signori Priori elessono XL cittadini d'amendue le parti, e con loro si consigliavano della salveza della terra, acciò che da niuna delle parti non fussono tenuti sospetti. Quelli che aveano reo proponimento, non parlavano: gli altri aveano perduto il vigore. Bandino Falconieri, uomo vile, dicea: "Signori, io sto bene; perch'io non dormia sicuro"; mostrando viltà a' suoi adversari. Tenea la ringhiera impacciata mezo il dì; e eravamo ne' più bassi tempi dell'anno. Messer Lapo Salterelli, il quale molto temea il Papa per l'aspro processo avea fatto contro a lui, e per appoggiarsi co' suoi adversari, pigliava la ringhiera, e biasimava i signori, dicendo: "Voi guastate Firenze: fate l'uficio nuovo comune; recate i confinati in città". E avea messer Pazino de' Pazi in casa sua, che era confinato; confidandosi in lui che lo scampasse, quando fusse tornato in stato. Alberto del Giudice, ricco popolano, maninconico e viziato, montava in ringhiera biasimando i Signori, perché non s'affrettavano a fare i nuovi, e a fare ritornare i confinati. Messer Lotteringo da Monte Spertoli dicea: "Signori, volete voi esser consigliati? fate l'uficio nuovo, ritornate i confinati a città, traete le porti de' gangheri; ciò è, se voi fate queste due cose, potete dire d'abbattere la chiusura delle porti". Io domandai messer Andrea da Cerreto, savio legista, d'antico ghibellino fatto guelfo nero, se fare si potea uficio nuovo sanza offendere gli Ordini della Giustizia. Rispose che non si potea fare. E io, che n'era stato accusato, e appostomi che io avea offesi quelli Ordini, proposimi observarli, e non lasciare fare l'uficio contro alle leggi.
CAPITOLO XI
Tornano da Roma due degli ambasciatori. La Signoria si rimette nella volontà del pontefice, e, segretamente, chiede un suo legato. Lo risanno i Neri: loro timori e supposizioni. Com'era internamente ordinata Parte nera (... - primi di novembre 1301).
In questo tempo tornorono i due anbasciadori rimandati indietro dal Papa: l'uno fu Maso di messer Ruggierino Minerbetti, falso popolano, il quale non difendea la sua volontà ma seguiva quella d'altri; l'altro fu il Corazza da Signa, il quale tanto si riputava guelfo, che appena credea che nell'animo di niuno fusse altro che spenta. Narrarono le parole del Papa: onde io a ritrarre sua anbasciata fui colpevole: missila ad indugio, e feci loro giurare credenza; e non per malizia la indugiai. Appresso raunai sei savi legisti, e fecila innanzi loro ritrarre, e non lasciai consigliare: di volontà de' miei compagni, io propuosi e consigliai e presi il partito, che a questo signore si volea ubidire, e che subito li fusse scritto che noi eravamo alla sua volontà, e che per noi addirizare ci mandasse messer Gentile da Montefiore cardinale. Intendi questo signore per Papa e non per messer Carlo. Colui, che le parole lusinghevoli da una mano usava e da l'altra producea il signore sopra noi, spiando chi era nella città, lasciò le lusinghe e usò le minacce. Uno falso anbasciadore palesò la imbasciata, la quale non aveano potuto sentire. Simone Gherardi avea loro scritto di Corte, che il Papa gli avea detto: "Io non voglio perdere gli uomini per le femminelle". I Guelfi neri sopra ciò si consigliarono, e stimarono per queste parole che l'inbasciadori fussono d'accordo col Papa, dicendo: "Se sono d'accordo, noi siamo vacanti". Pensarono di stare a vedere che consiglio i Priori prendessono, dicendo: "Se prendono il no, noi siam morti: se pigliano il sì, pigliamo noi i ferri, sì che da loro abbiamo quello che avere se ne può". E così feciono. Incontanente che udirono che al Papa per li rettori si ubbidia, subito s'armorono, e missonsi a offendere la città col fuoco e' ferri, a consumare e struggere la città. I Priori scrissono al Papa segretamente: ma tutto seppe la Parte nera; però che quelli che giurarono credenza non la tennono. La Parte nera avea due priori, segreti di fuori: e durava il loro uficio sei mesi; de' quali l'uno era Noffo Guidi, iniquo popolano e crudele, perché pessimamente aoperava per la sua cittÓ, e avea in uso che le cose, facea in segreto, biasimava, e in palese ne biasimava i fattori: il perché era tenuto di buona temperanza, e di malfare traeva sustanza.
CAPITOLO XII
I Priori acconsentono alla proposta di una nuova Signoria mista. L'arroganza de' Neri ne impedisce l'esecuzione. Animosa onestà di Dino (... - primi di novembre 1301).
I signori erano molto stimolati da' maggiori cittadini, che facessono nuovi signori. Benché contro alla Legge della Giustizia fusse, perché non era il tempo da eleggerli, accordamoci di chiamarli, più per piatà della città che per altra cagione. E nella cappella di San Bernardo fui io in nome di tutto l'uficio, e ebbivi molti popolani, i più potenti, perché sanza loro fare non si potea. Ciò furono Cione Magalotti, Segna Angiolini, Noffo Guidi, per Parte nera: messer Lapo Falconieri, Cece Canigiani, e 'l Corazza Ubaldini, per Parte bianca. E a loro umilmente parlai, con gran tenereza, dello scampo della città, dicendo: "Io voglio fare l'uficio comune, da poi che per gara degli ufici è tanta discordia". Fumo d'accordo, e eleggemo sei cittadini comuni, tre de' Neri e tre de' Bianchi. Il settimo, che dividere non si potea, eleggemo di sì poco valore, che niuno ne dubitava. I quali, scritti, posi su l'altare. E Noffo Guidi parlò, e disse: "Io dirò cosa, che tu mi terrai crudele cittadino". E io li dissi che tacesse; e pur parlò, e fu di tanta arroganza, che mi domandò, che mi piacesse far loro parte, nell'ufficio, maggiore che l'altra: che tanto fu a dire, quanto "disfa' l'altra parte", e me porre nel luogo di Giuda. E io li risposi che innanzi io facessi tanto tradimento, dare' i miei figliuoli a mangiare a' cani. E così da collegio ci partimo.
CAPITOLO XIII
Insidie di Carlo contro i Priori: parlamento in Santa Maria Novella (5 novembre). Consigli che vengon dati alla Signoria, e suoi provvedimenti (...primi di novembre 1301).
Messer Carlo di Valos ci facea spesso invitare a mangiare. Rispondavàlli, che per nostro saramento la legge ci costrignea che fare non lo potavamo (e ciò era vero), perché fra noi stimavamo che contro a nostra volontà ci arebbe ritenuti. Ma pure un giorno ci trasse di palazzo, dicendo che a Santa Maria Novella fuori della terra volea parlamentare per bene de' cittadini; e che piacesse alla Signoria esservi. Ma perché troppo sospetto mostrava il negarlo, diliberamo che tre di noi v'andassimo, e gli altri rimanesson in palazo. Messer Carlo fe' armare la sua gente, e posela alla guardia della città alle porti dentro e di fuori: però che i falsi consiglieri gli dissono che dentro non potrebbe tornare, e che la porta li sarebbe serrata. E sotto questo protesto aveano pensato malvagiamente che se la Signoria vi fusse ita tutta, d'ucciderci fuori della porta, e correre la terra per loro. E ciò non venne loro fatto, perchéè non ve ne andorono più che tre; a' quali niente disse, come colui che non volea parlare, ma sì uccidere. Molti cittadini si dolsono di noi per quella andata, parendo loro che andassono al martirio. E quando furono tornati, lodavano Iddio che da morte gli avea scanpati. I signori erano stimolati da ogni parte. I buoni diceano, che guardassono ben loro e la loro città: i rei li contendeano con questioni; e tralle domande e le risposte il dì se ne andava: i baroni di messer Carlo gli occupavano con lunghe parole. E così viveano con affanno. Venne a noi un santo uomo, un giorno, celatamente e chiuso, pregocci che di suo nome non parlassimo, e disse: "Signori, voi venite in gran tribulazione, e la vostra città. Mandate a dire al vescovo facci fare processione, e imponeteli che la non vada oltrarno: e del pericolo cesserà gran parte". Costui fu uomo di santa vita e di grande astinenzia e di gran fama, per nome chiamato frate Benedetto. Seguitammo il suo consiglio; e molti ci schernirono, dicendo che meglio era arrotare i ferri. Facemmo, pe' consigli, leggi aspre e forti, e demo balìa a' rettori contro a chi facesse rissa o tumulto, e pene personali imponemo, e che mettessero il ceppo e la mannaia in piaza, per punire i malifattori e chi contrafacesse. A messer Schiatta Cancellieri capitano di guerra crescemo balìa, e confortamo di ben fare; come che niente valse, però che i messi, famigli e berrovieri lo tradirono. E trovossi che XX berrovieri de' loro doveano avere fiorini M e ucciderli, li quali misono fuori del palazzo. Molto si studiavano difendere la città dalla malizia de' loro adversari; ma niente giovò, perché usoron modi pacifici, e voleano esser repenti e forti. Niente vale l'umiltà contro alla grande malizia.
CAPITOLO XIV
Minacce e apparecchio de' Neri; impaccio e dappocaggine de' Bianchi (primi di novembre 1301).
I cittadini di Parte nera parlavano sopra mano, dicendo: "Noi abiamo il signore in casa; il Papa è nostro protettore; gli adversari nostri non sono guerniti né da guerra né da pace; danari non ànno; i soldati non sono pagati". Eglino aveano messo in ordine tutto ciò che a guerra bisognava, per accogliere tutte le loro amistà nel sesto d'Oltrarno; nel quale ordinorono tenere Sanesi, Perugini, Lucchesi, Saminiatesi, Volterrani, Sangimignanesi. Tutti i vicini avean corrotti: e avean pensato tenere il ponte a Santa Trinita, e dirizare su due palagi alcuno edificio da gittare pietre: e aveano inviati molti villani dattorno, e tutti gli sbanditi di Firenze. I Guelfi bianchi non ardivano mettersi gente in casa, perché i priori gli minacciavano di punire e chi raunata facesse: e così teneano in paura amici e nimici. Ma non doveano gli amici credere che gli amici loro gli avessono morti, perché procurassono la salvezza di loro città, benché il comandamento fusse. Ma non lasciarono tanto per tema della legge, quanto per l'avarizia; perché a messer Torrigiano de' Cerchi fu detto: "Fornitevi, e ditelo agli amici vostri".
CAPITOLO XV
I Neri cominciano scandalo. Primo sangue, per mano de' Medici. Gli Ordinamenti di Giustizia rimangono senza effetto. La città si arma (4 novembre 1301...).
I Neri, conoscendo i nimici loro vili e che aveano perduto il vigore, s'avacciorono di prendere la terra; e uno sabato a dì [...] di novenbre s'armorono co' loro cavalli coverti, e cominciorono a seguire l'ordine dato. I Medici, potenti popolani, assalirono e fedirono uno valoroso popolano chiamato Orlanduccio Orlandi, il dì, passato vespro, e lascioronlo per morto. La gente s'armò, a piè e a cavallo, e vennono al palagio de' priori. E uno valente cittadino chiamato Catellina Raffacani disse: "Signori, voi sete traditi. E' viene verso la notte: non penate, mandate per le vicherìe; e domattina all'alba pugnate contro a' vostri adversari". Il podestà non mandò la sua famiglia a casa il malfattore: né il gonfaloniere della giustizia non si mosse a punire il malificio, perché avea tenpo X dì. Mandossi per le vicherìe. E vennono, e spiegorono le bandiere: e poi nascosamente n'andorono dal lato di Parte nera, e al Comune non si appresentorono. Non fu chi confortasse la gente che si accogliesse al palagio de' signori, quantunque il gonfalone della giustizia fusse alle finestre. Trassonvi i soldati, che non erano corrotti, e altre genti: i quali, stando armati al palagio, erano alquanto seguiti. Altri cittadini ancora vi trassono a piè e a cavallo, amici; e alcuni nimici, per vedere che effetto avessono le cose. I signori, non usi a guerra, occupati da molti che voleano esser uditi: e in poco stante si fe' notte. Il podestà non vi mandò sua famiglia, né non si armò: lasciò l'uficio suo a' priori; ché potea andare alla casa de' malfattori con arme, con fuoco e con ferri. La raunata gente non consigliò. Messer Schiatta Cancellieri capitano non si fece innanzi a operare e a contastare a' nimici, perché era uomo più atto a riposo e a pace che a guerra; con tutto che per li volgare si dicesse, che si dié vanto d'uccidere messer Carlo: ma non fu vero. Venuta la notte, la gente si cominciò a partire; e le loro case afforzorono con asserragliare le vie con legname, acciò che trascorrere non potesse la gente.
CAPITOLO XVI
Pratiche di conciliazione fra potenti famiglie di Parte biance e di Parte nera: come questo fatto noccia ai Bianchi (...primi di novembre).
Messer Manetto Scali (nel quale la Parte bianca avea gran fidanza, perché era potente d'amici e di séguito) cominciò afforzare il suo palagio, e fecevi edificii da gittar pietre. Li Spini aveano il loro palazo grande incontro al suo, e eransi proveduti esser forti: perché sapeano bene che quivi era bisogno riparare, per la gran potenzia che si stimava della casa degli Scali. Infra il detto tempo cominciorono le dette parti a usare nuova malizia, ché tra loro usavano parole amichevoli. Li Spini diceano alli Scali: "De', perchè facciamo noi così? Noi siamo pure amici e parenti, e tutti Guelfi: noi non abiamo altra intenzione che di levarci la catena di collo che tiene il popolo a voi e a noi; e saremo maggiori che noi non siamo. Mercè, per Dio; siamo una cosa, come noi dovemo essere". E così feciono i Buondalmonti a' Gherardini, e i Bardi a' Mozi, e messer Rosso dalla Tosa al Baschiera suo consorto: e così feciono molti altri. Quelli che riceveano tali parole, s'ammollavano nel cuore per piatà della parte: onde i loro seguaci invilirono; i Ghibellini, credendo con si fatta vista esser ingannati e traditi da coloro in cui si confidavano, tutti rimasono smarriti. Si che poca gente rimase fuori, altro che alcuni artigiani, a cui commisono la guardia.
CAPITOLO XVII
Carlo chiede alla Signoria la guardia della terra e delle porte: la quale, per Oltrarno, gli è, però senza le chiavi, concessa. Sua malafede. Ritorno degli sbanditi, e violenza de' Tornaquinci. Smarrimento della Signoria (...5 novembre e notte seguente).
I baroni di messer Carlo e il malvagio cavaliere messer Muciatto Franzesi sempre stavano intorno a' signori, dicendo che la guardia della terra e delle porti si lasciasse a loro, e spezialmente del sesto d'Oltrarno; e che al loro signore aspettava la guardia di quel sesto: e che volea che de' malfattori si facesse aspra giustizia. E sotto questo nascondeano la loro malizia; per acquistare più giuridizione nella terra il faceano. Le chiavi gli furono negate, e le porti d'Oltrarno li furono raccomandate; e levati ne furono i Fiorentini, e furonvi messi i Franciosi. E messer Guiglielmo cancelliere e 'l maniscalco di messer Carlo giurorono nella mani a me Dino, ricevente per lo Comune, e dieronmi la fede del loro signore, che ricevea la guardia della terra sopra sé, e guardarla e tenerla a pitizione della nostra signoria. E mai credetti che uno tanto signore, e della casa reale di Francia, rompesse la sua fede: perché passò piccola parte della seguente notte, che per la porta, che noi gli demo in guardia, dié l'entrata a Gherarduccio Bondalmonti, che avea bando, accompagnato con molti altri sbanditi. I signori domandati da uno valente popolano, che avea nome Aglione di Giova Aglioni, e disse: "Signori e' sarà bene a fare rifermare più forte la porta a San Brancazio". Fulli risposto, che la facesse fortificare come li paresse; e mandoronvi i maestri con la loro bandiera. I Tornaquinci, potente schiatta, i quali erano bene guerniti di masnadieri e d'amici, assalirono i detti maestri e fedironli e missonli in rotta; e alcuni fanti, che erano nelle torri, per paura l'abbandonorono. Laonde i priori, per l'una novella e per l'altra, vidono che riparare non vi poteano. E questo seppono da uno che fu preso una notte, il quale, in forma d'uno venditore di spezie, andava invitando le case potenti, avisandoli che innanzi giorno si dovessono armare. E così tutta loro speranza venne meno; e diliberorono, quando i villani fussono venuti in loro soccorso, prendere la difesa. Ma ciò venne fallito: ché i malvagi villani gli abbandonarono, e le loro insegne celavano spiccandole dall'asti; e i loro famigli li tradirono; e i gentili uomini da Lucca, essendo rubati da' Bordoni, e tolte loro le case dove abitavano, si partirono e non si fidarono; e molti soldati si volsono a servire i loro adversari. Il podestà non prese arme, ma con parole andava procurando in aiuto di messer Carlo di Valos.
CAPITOLO XVIII
Simulazione di Carlo verso la Signoria. Corso Donati in Firenze. Carlo chiede alla Signoria statichi in due parti, e manca vituperosamente di fede a quelli di Parte bianca (...6 novembre 1301).
Il giorno seguente i baroni di messer Carlo, e messer Cante d'Agobbio, e più altri, furono a' priori, per occupare il giorno e il loro proponimento con lunghe parole. Giuravan che il loro signore si tenea tradito e ch'elli facea armare i suoi cavalieri, e che piacesse loro la vendetta fusse grande, dicendo: "Tenete per fermo, che se il nostro signore non à cuore di vendicare il misfatto a vostro modo, fateci levare la testa". E questo medesimo dicea il podestà, che venia da casa messer Carlo, che gliele avea udito giurare di sua bocca che farebbe impiccare messer Corso Donati. Il quale (essendo sbandito) era entrato in Firenze la mattina con XII compagni, venendo da Ognano: e passò Arno, e and= lungo le mura fino a San Piero Maggiore, il quale luogo non era guardato da' suoi adversari, e entrò nella città come ardito e franco cavaliere. Non giurò messer Carlo il vero, perché di sua saputa venne. Entrato messer Corso in Firenze, furono i Bianchi avisati della sua venuta, e con lo sforzo poterono gli andorono incontro. Ma quelli che erano bene a cavallo, non ardirono a contrastarli; gli altri, veggendosi abbandonati, si tirorono adietro: per modo che messer Corso francamente prese le case de' Corbizi da San Piero, e posevi su le sue bandiere; e ruppe le prigioni, per modo che gli incarcerati n'uscirono; e molta gente il seguì, con grande sforzo. I Cerchi si rifuggirono nelle loro case, stando con le porti chiuse. I procuratori di tanto male falsamente si mossono, e convertirono messer Schiatta Cancellieri e messer Lapo Salterelli; i quali vennoro a' priori, e dissono: "Signori, voi vedete messer Carlo molto crucciato: e vuole che la vendetta sia grande, e che 'l Comune rimanga signore. E per tanto a noi pare che si eleggano d'amendue le parti i più potenti uomini, e mandinsi in sua custodia; e poi si faccia la esecuzione della vendetta, grandissima". Le parole erano di lunge dalla verità. Messer Lapo scrisse i nomi: messer Schiatta comandò a tutti quelli che erano scritti che andassono a messer Carlo, per più riposo della città. I Neri v'andarono con fidanza, e i Bianchi con temenza; messer Carlo li fece guardare: i Neri lasciò partire, ma i Bianchi ritenne presi quella notte, sanza paglia e sanza materasse, come uomini micidiali. O buono re Luigi, che tanto temesti Iddio, ove è la fede della real casa di Francia, caduta per mal consiglio, non temendo vergogna? O malvagi consiglieri, che avete il sangue di così alta corona fatto non soldato ma assassino, imprigionando i cittadini a torto, e mancando della sua fede, e falsando il nome della real casa di Francia! Il maestro Ruggieri, giurato alla detta casa, essendo ito al suo convento, gli disse; "Sotto di te perisce una nobile città". Al quale rispose che niente ne sapea.
CAPITOLO XIX
La Signoria, dopo chiamati inutilmente i cittadini alla difesa, incominciandosi la distruzione della città, esce d'ufficio. Riforma dello Stato con una nuova Signoria di Priori Neri. Elezione di nuovo Potestà (6 - 9 novembre 1301).
Ritenuti così i capi di Parte bianca, la gente sbigottita si cominciò a dolere. I priori comandorono che la campana grossa fusse sonata, la quale era su il loro palazo: benché niente giovò, perché la gente, sbigottita, non trasse. Di casa i Cerchi non uscì uomo a cavallo né a piè, armato. Solo messer Goccia e messer Bindo Adimari, e loro fratelli e figliuoli, vennono al palagio; e non venendo altra gente, ritornorono alle loro case, rimanendo la piaza abandonata. La sera apparì in cielo un segno maraviglioso; il qual fu una croce vermiglia, sopra il palagio de' priori. Fu la sua lista ampia più che palmi uno e mezo; e l'una linea era di lungheza braccia XX in apparenza, quella attraverso un poco minore; la qual durò per tanto spazio, quanto penasse un cavallo a correre due aringhi. Onde la gente che la vide, e io che chiaramente la vidi, potemo comprendere che Iddio era fortemente contro alla nostra città crucciato. Gli uomini che temeano i loro adversari, si nascondeano per le case de' loro amici; l'uno nimico offendea l'altro: le case si cominciavano ad ardere: le ruberie si faceano; e fuggivansi gli arnesi alle case degli impotenti: i Neri potenti domandavano danari a' Bianchi: maritavansi fanciulle a forza: uccideansi uomini. E quando una casa ardea forte, messer Carlo domandava: "Che fuoco è quello?". Erali risposto che era una capanna, quando era un ricco palazzo. E questo malfare durò giorni sei; ché così era ordinato. Il contado ardea da ogni parte. I priori per piatà della città, vedendo multiplicare il malfare, chiamorono merzè a molti popolani potenti, pregandoli per Dio avessono pietà della loro città; i quali niente ne vollono fare. E però lasciorono il priorato. Entrorono i nuovi priori a dì VIII di novembre 1301: e furono Baldo Ridolfi, Duccio di Gherardino Magalotti, Neri di messer Iacopo Ardinghelli, Ammannato di Rota Beccannugi, messer Andrea da Cerreto, Ricco di ser Compagno degli Albizi, Tedice Manovelli gonfaloniere di giustizia; pessimi popolani, e potenti nella loro parte. Li quali feciono leggi, che i priori vecchi in niuno luogo si potessono raunare, a pena della testa. E compiuti i sei dì utili stabiliti a rubare, elessono per podestà messer Cante Gabrielli d'Agobbio; il quale riparò a molti mali e a molte accuse fatte, e molte ne consentì.
CAPITOLO XX
Corso Donati; Carlo di Valois; Donati, Rossi, Tornaquinci, Bostichi: loro ruberie e malefizi (novembre 1301 - ...).
Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, addorno di belli costumi, sottile d'ingegno, con l'animo sempre intento a malfare, col quale molti masnadieri si raunavano e gran séguito avea, molte arsioni e molte ruberie fece fare, e gran dannaggio a' Cerchi e a' loro amici; molto avere guadagnò, e in grande alteza salì. Costui fu messer Corso Donati, che per sua superbia fu chiamato il Barone; che quando passava per la terra, molti gridavano: "Viva il Barone"; e parea la terra sua. La vanagloria il guidava, e molti servigi facea. Messer Carlo di Valos, signore di grande e disordinata spesa, convenne palesasse la sua rea intenzione, e cominciò a volere trarre danari da' cittadini. Fece richiedere i priori vecchi, i quali tanto avea magnificati, e invitati a mangiare, e a cui avea promesso, per sua fede e per sue lettere bollate, di non abbattere gli onori della città e non offendere le leggi municipali; volea da loro trarre danari, opponendo gli aveano vietato il passo, e preso l'uficio del paciaro, e offeso Parte guelfa, e a Poggi Bonizi aveano cominciato a far bastìa, contro all'onore del re di Francia e suo: e così gli perseguitava, per trarre danari. E Baldo Ridolfi, de' nuovi priori, era mezano, e dicea: "Vogliate più tosto darli de' vostri danari, che andarne presi in Puglia". Non ne dierono alcuno; perch tanto crebbe il biasimo per la città, ch'egli lasciò stare. Era in Firenze un ricco popolano e di gran bontà, chiamato per nome Rinuccio di Senno Rinucci, il quale avea molto onorato messer Carlo a uno suo bel luogo, quando andava a uccellare co' suoi baroni. Il quale fece pigliare e poseli di taglia fiorini IIIjm, o lo manderebbe preso in Puglia. Pur, per preghiere di suoi amici, lo lasciò per fiorini VIIjc. E per simil modo ritrasse molti danari. Grandissimi mali feciono i Donati, i Rossi, i Tornaquinci, e i Bostichi: molta gente sforzarono e ruborono. E spezialmente i figliuoli di Corteccione Bostichi: i quali presono a guardare i beni d'un loro amico, ricco popolano chiamato Geri Rossoni, e ebbono da lui per la guardatura fiorini C°; e poi furono pagati, eglino il rubarono. Di che dolendosene, il padre loro gli disse che, delle sue possessioni, gli darebbe tante delle sue terre egli sarebbe soddisfatto; e vollegli dare uno podere avea a San Sepolcro, che valea più che non gli aveano tolto. E volendo il soprapiù che valea, in danari contanti, Geri li rispose: "Dunque vuoi tu ch'io ti dia danari, acciò che i figliuoli tuoi mi tolgano la terra? questo non voglio io fare, ché sarebbe mala menda". E così rimase. Questi Bostichi feciono moltissimi mali, e continuaronli molto. Collavano gli uomini in casa loro, le quali erano in Mercato Nuovo nel mezo della città; e di mezo dì li metteano al tormento. E volgarmente si dicea per la terra: "Molte corti ci sono"; e anoverando i luoghi dove si dava tormento, si dicea: "A casa i Bostichi in Mercato".
CAPITOLO XXI
Vittoria de' Neri. Difesa de' vecchi Priori Bianchi.
Molti disonesti peccati si feciono: di femmine vergini; rubare i pupilli; e uomini impotenti, spogliati de' loro beni; e cacciavanli della loro città. E molti ordini feciono, quelli che voleano, e quanto e come. Molti furono accusati; e convenia loro confessare aveano fatta congiura, che non l'aveano fatta, e erano condannati in fiorini M per uno. E chi non si difendea, era accusato, e per contumace era condannato nell'avere e nella persona: e chi ubidia, pagava; e dipoi, accusati di nuove colpe, eran cacciati di Firenze sanza nulla piatà. Molti tesori si nascosono in luoghi segreti: molte lingue si cambiorono in pochi giorni: molte villanie furono dette a' priori vecchi a gran torto, pur da quelli che poco innanzi gli aveano magnificati; molto gli vituperavano per piacere agli adversari: e molti dispiaceri ebbono. E chi disse mal di loro mentirono: perché tutti furono disposti al bene comune e all'onore della republica; ma il combattere non era utile, perché i loro adversari erano pieni di speranza, Iddio gli favoreggiava, il Papa gli aiutava, messer Carlo avean per campione, i nimici non temeano. Sì che, tra per la paura e per l'avarizia, i Cerchi di niente si providono; e erano i principali della discordia: e per non dar mangiare a' fanti, e per loro viltà, niuna difesa né riparo feciono nella loro cacciata. E essendone biasimati e ripresi, rispondeano che temeano le leggi. E questo non era vero; però che venendo a' signori messer Torrigiano de' Cerchi per sapere di suo stato, fu da loro in mia presenza confortato che si fornisse e apparecchiassesi alla difesa, e agli altri amici il dicesse, e che fusse valente uomo. Nollo feciono, però che per viltà mancò loro il cuore: onde i loro adversari ne presono ardire, e inalzorono. Il perché dierono le chiavi della città a messer Carlo.
CAPITOLO XXII
Ai cittadini colpevoli della distruzione della città.
O malvagi cittadini, proccuratori della distruzione della vostra città, dove l'avete condotta! E tu, Amannato di Rota Beccannugi, disleale cittadino, iniquamente ti volgesti a' priori e con minacce studiavi le chiavi si dessono, guardate le vostre malizie dove ci hanno condotto! O tu, Donato Alberti, che con fastidio facevi vivere i cittadini, dove sono le tue arroganze, che ti nascondesti in una vile cucina di Nuto Marignolli? E tu, Nuto, proposto e anziano del sesto tuo, che per animosità di Parte guelfa ti lasciasti ingannare? O messer Rosso dalla Tosa, empi il tuo animo grande; che per avere signoria dicesti che grande era la parte tua, e schiudesti i fratelli della parte loro. O messer Geri Spini, empi l'animo tuo: diradica i Cerchi, acciò che possi delle fellonie tue viver sicuro. O messer Lapo Salterelli, minacciatore e battitore de' rettori che non ti serviano nelle tue questioni: ove t'armasti? in casa i Pulci, stando nascoso. O messer Berto Frescobaldi, che ti mostravi così amico de' Cerchi e faceviti mezano della questione, per avere da loro in presto fiorini XIjm, ove li meritasti? ove comparisti? O messer Manetto Scali, che volevi esser tenuto sì grande e temuto, credendoti a ogni tenpo rimanere signore, ove prendesti l'arme? ove è il séguito tuo? ove sono li cavalli coverti? Lasciastiti sottomettere a coloro, che di niente erano temuti appresso a te. O voi, popolani, che disideravate gli ufici, e succiavate gli onori, e occupavate i palagi de' rettori, ove fu la vostra difesa? nelle menzogne, simulando e dissimulando, biasimando gli amici e lodando i nimici, solamente per campare. Adunque piangete sopra voi e la vostra città.
CAPITOLO XXIII
Caduta e sperpero dei Guelfi bianchi (novembre 1301 - ...).
Molti nelle rie opere divennoro grandi, i quali avanti nominati non erano: e nelle crudeli opere regnando, cacciarono molti cittadini, e feciolli ribelli, e sbandeggiorono nell'avere e nella persona. Molte magioni guastorono, e molti ne puniano, secondo che tra loro era ordinato e scritto. Niuno ne campò che non fusse punito: non valse parentado, né amistà; né pena si potea minuire né cambiare a coloro, a cui determinate erano: nuovi matrimoni niente valsero: ciascuno amico divenne nimico: i fratelli abbandonavano l'un l'altro, il figliuolo il padre: ogni amore, ogni umanità, si spense. Molti ne mandorono in esilio di lunge LX miglia dalla città: molti gravi pesi imposono loro e molte imposte, e molti danari tolson loro: molte riccheze spensono. Patto, pietà, né mercè, in niuno mai si trovò. Chi più diceano: "Muoiano, muoiano i traditori! ", colui era il maggiore. Molti di Parte bianca, e antichi Ghibellini per lunghi tempi, furono ricevuti da' Neri in compagnia, solo per loro malfare; fra' quali fu messer Betto Brunelleschi, messer Giovanni Rustichelli, messer Baldo d'Aguglione, e messer Fazio da Signa, e più altri; i quali si dierono a distruggere i Bianchi. E oltre agli altri, messer Andrea e messer Aldobrando da Cerreto, che oggi si chiamano Cerretani, per antico d'origine ghibellina, e diventorono di Parte nera.
CAPITOLO XXIV
Valore e lealtà del giovane Baschiera Tosinghi.
Baschiera Tosinghi era uno giovane figliuolo d'un partigiano, cavaliere, nominato messer Bindo del Baschiera, il quale molte persecuzioni sofferì per Parte guelfa, e nel castello di Fucecchio perdé uno occhio per uno quadrello gli venne, e nella battaglia cogli Aretini fu fedito e morì. Questo Baschiera rimase dopo il padre: dovendo avere degli onori della città, come giovane che 'l meritava, ne era privato, però che i maggiori di casa sua prendevano gli onori e l'utile per loro e non li accomunavano. Costui acceso nell'animo di Parte guelfa, quando la terra si volse nella venuta di messer Carlo, vigorosamente s'armò; e contro a' suoi consorti e adversari pugnava con fuoco e con ferri, con la compagnia de' fanti che avea seco. I fanti, che il Comune avea a soldo, di Romagna, vedendo perdere la terra, l'abbandonorono; e andorono al palagio per avere le loro paghe, e chiesonle per avere cagione di partirsi. I priori accattorono fiorini cento da Baldone Angielotti, e dieronli a' fanti; e colui che li prestò, volle i fanti stessono appresso a lui per guardia della casa sua: e così perdé il Baschiera i fanti che erano con lui. Di tanto vigore fussono stati gli altri cittadini di sua parte, che non arebbono perduto! ma vanamente pensorono, dandosi a credere non esser offesi.
CAPITOLO XXV
Andata di Carlo a Roma (febbraio 1302). Inique e fraudolenti condanne di Bianchi, dopo il suo ritorno (marzo 1302) in Firenze. Proscrizione d'aprile 1302.
Poi che messer Carlo di Valos ebbe rimesso Parte nera in Firenze, andò a Roma: e domandato danari al Papa, gli rispose che l'avea messo nella fonte dell'oro. Indi a pochi dì si disse, che alcuni di Parte bianca teneano trattato con messer Piero Ferrante di Linguadoco, barone di messer Carlo, e carte de' patti se ne trovorono, che dovea a loro petizione uccidere messer Carlo. Il quale, tornato da Corte, raunò in Firenze uno consiglio segreto di XVII cittadini, una notte; nel quale si trattò di far prendere certi che nominavano colpevoli, e fare loro tagliare la testa. Il detto consiglio si recò a minor numero, perché se ne partirono VII, e rimason X: e fecionlo, perché i nominati fuggisson e lasciasson la terra. Feciono cessare la notte segretamente messer Goccia Adimari e 'l figliuolo, e messer Manetto Scali, che era a Calenzano e andonne a Mangona: e poco poi messer Muccio da Biserno, soldato con gran masnada, e messer Simone Cancellieri, nimico di detto messer Manetto, giunsono a Calenzano credendolo trovare; e cercando di lui, fino la paglia de' letti con ferri fororono. Il giorno seguente messer Carlo gli fece richiedere, e più altri; e per contumaci e per traditori gli condannò, e arse loro le case, e' beni publicò in comune per l'uficio del paciaro. I quali beni messer Manetto fece ricomperare a' suoi compagni fiorini Vm, acciò che i libri della compagnia di Francia non li facesse tòrre; e difesonsi per la detta compagnia. Messer Giano di messer Vieri de' Cerchi, giovane cavaliere, era in palagio di messer Carlo, richiesto, e dato in guardia a due cavalieri franciosi, che onestamente lo teneano per la casa. Messer Paniccia degli Erri e messer Berto Frescobaldi, sentendolo, andorono nel palagio, che era loro, e misonsi tra il cavaliere e le due guardie, parlando con loro, e a lui feciono cenno di partirsi; e così segretamente si partì. Dissesi, che tolti gli arebbe danari assai e poi la persona. Il simile advenne a più richiesti, che partiti erano: gli condannava nell'avere e nella persona, e i beni confiscava in comune. Per modo che dal Comune ebbe fiorini XXIIIjm, e e'gli finì tutto ciò che e'gli avea applicato sotto il titolo del paciaro. Del mese d'aprile 1302, avendo fatti richiedere molti cittadini ghibellini, e guelfi di Parte bianca, condannò gli Uberti, la famiglia degli Scolari, de' Lamberti, delli Abati, Soldanieri, Rinaldeschi, Migliorelli, Tebaldini: e sbandì e confinò tutta la famiglia de' Cerchi; messer Baldo, messer Biligiardo, Baldo di messer Talano e Baschiera Tosinghi; messer Goccia e 'l figliuolo, Corso di messer Forese, e Baldinaccio Adimari; messer Vanni de' Mozi, messer Manetto e Vieri Scali, Naldo Gherardini, i Conti da Gangalandi, messer Neri da Gaville, messer Lapo Salterelli, messer Donato di messer Alberto Ristori, Orlanduccio Orlandi, Dante Allighieri che era anbasciadore a Roma, i figliuoli di Lapo Arrighi, i Ruffoli, gli Angelotti, gli Ammuniti, Lapo del Biondo e' figliuoli, Giovangiacotto Malispini, i Tedaldi, il Coraza Ubaldini, ser Petracca di ser Parenzo dall'Ancisa, notaio alle Rinformagioni; Masino Cavalcanti e alcuno suo consorto; messer Betto Gherardini, Donato e Teghia Finiguerri, Nuccio Galigai e Tignoso de' Macci; e molti altri: che furno più di uomini DC, i quali andorono stentando per lo mondo, chi qua e chi là.
CAPITOLO XXVI
La signoria della città rimane ai Guelfi neri.
Rimase la signoria della città a messer Corso Donati, a messer Rosso dalla Tosa, a messer Pazino de' Pazi, a messer Geri Spini, a messer Betto Brunelleschi, a' Buondalmonti, agli Agli, a' Tornaquinci, a parte de' Gianfigliazi, a' Bardi, a parte de' Frescobaldi, a' Rossi, a parte de' Nerli, a' Pulci, a' Bostichi, a' Magalotti, a' Manieri, a' Bisdomini, agli Uccellini, a' Bordoni, agli Strozi, a' Rucellai, agli Acciaiuoli, agli Altoviti, agli Aldobrandini, a' Peruzi, e a' Monaldi, a Borgo Rinaldi e 'l fratello, a Palla Anselmi, a Manno Attaviani, al Nero Canbi, a Noffo Guidi, a Simone Gherardi, a Lapo Guaza; e a molti altri, cittadini e contadini. De' quali niuno si può scusare che non fusse guastatore della città: e non possono dire che alcuna nicissità gli strignesse, altro che superbia e gara degli ufici; però che gli odii non eran tanti tra i cittadini, che per guerra di loro la città se ne fusse turbata, se i falsi popolani non avessono avuto l'animo corrotto a malfare, per guadagnare, anzi rubare, e per tenere gli ufici della città. Uno giovane chiamato Bertuccio de' Pulci tornato di Francia, trovando i suoi compagni sbandeggiati fuori della terra, lasciò i suoi consorti in signoria, e co' suoi compagni stette fuori: e questo advenne per grande animo.
CAPITOLO XXVII
I Neri conducono (dicembre 1301) Carlo anche contro Pistoia, tenuta sempre da' Cancellieri bianchi. Vani tentativi. Solamente più tardi i Pistoiesi perdono le castella di Seravalle (1302) e del Montale (1303).
Messer Schiatta Cancellieri capitano (della cui casa naquono le due maledette parti in Firenze ne' Guelfi) se ne tornò a Pistoia, e cominciò a armare e fornire le castella, e spezialmente il Montale dalla parte di Firenze, e Serravalle dalla parte di Lucca. La Parte nera di Firenze furono subito con messer Carlo di Valois, inducendolo a prendere Pistoia, e promettendoli dargliene molti danari: e con questa intenzione vel feciono cavalcare con la sua gente, assai male ordinata. La città era forte, e di buone mure guernita e di gran fossi e di pro' cittadini; e più volte vi fu menato: per modo che Maynardo da Susinana il riprese, dicendoli che follemente andava. E per esser mal guidato, a tempo di piove, si condusse ne' pantani, sé e sua gente, in luogo che, se i Pistolesi avessono voluto, l'arebbono preso: ma temendo la sua grandeza, il lasciarono andare. I Fiorentini e' Lucchesi posono l'assedio a Serravalle, sappiendo non era fornito; perché parlando messer Schiatta con messer Geri Spini e con messer Pazino de' Pazi, più savi di lui, disse loro non era fornito. Onde il castello s'arrendé a patti, salve le persone: i quali non furono loro attesi, perché i Pistolesi andarono presi. Il Montale, per trattato tenea con chi v'era dentro messer Pazino de' Pazi, quivi vicino, a Palugiano, fu dato per fiorini 3000 n'ebbono da' Fiorentini, e fu disfatto.
CAPITOLO XXVIII
Carlo di Valois parte di Firenze per la impresa di Sicilia. Persecuzione de' Neri contro gli usciti Bianchi, i quali si rifugiano in Arezzo presso Uguccione della Faggiuola, in Forlì, in Siena. Loro disavventura al castello di Piantavigne (1302, aprile - giugno). I Neri di Firenze, volendo più tosto la città guasta che perdere la signoria, partito messer Carlo di Valos che n'andò in Puglia per fare la guerra di Cicilia, si misono a distruggere i loro aversari in ogni modo. I Bianchi n'andarono ad Arezo dove era podestà Uguccione dalla Faggiuola, antico ghibellino, rilevato di basso stato. Il quale, corrotto da vana speranza datali da papa Bonifazio, di fare uno suo figliuolo cardinale, a sua petizione fece loro tante ingiurie, convenne loro partirsi. E buona parte se ne andorono a Furlì, dove era vicario per la Chiesa Scarpetta degli Ordalaffi, gentile uomo di Furlì. A parte bianca e ghibellina accorsono molte orribili disaventure. Egli aveano in Valdarno un castello in Pian di Sco, nel quale era Carlino de' Pazi con LX cavalli e pedoni assai. I Neri di Firenze vi posono l'assedio. Dissesi che Carlino li tradì per denari ebbe; il perché i Neri vi misono le masnade loro, e presono gli uomini, e parte n'uccisono, e il resto feciono ricomperare: e fra gli altri, uno figliuolo di messer Donato di messer Alberto Ristori, chiamato Alberto, feciono ricomperare lire IIjm. E due degli Scolari, e due Bogolesi, e uno de' Lanberti, e uno de' Migliorelli, feciono impiccare, e alcuni altri. I Ghibellini e Bianchi, che erano rifuggiti in Siena, non si fidavano starvi, per una profezia che dicea: "La lupa puttaneggia", ciò è Siena, che è posta per la lupa; la quale quando dava il passo, e quando il toglieva. E però diliberarono nonne starvi.
CAPITOLO XXIX
I Bianchi e i Ghibellini, aiutati dagli Ubaldini e da' Pisani, guerreggiano in Mugello (estate del 1302). Seconda sventura, per imprudenza d'uno della parte (...gennaio 1303).
Con l'aiuto degli Ubaldini, i Bianchi e Ghibellini cominciorono guerra in Mugello; ma prima vollono esser sicuri di loro danni. E i Pisani li sicurorono: ma Vannuccio Bonconti pisano tenea per moneta con Parte nera; e però da lui niuno aiuto ebbono o favore. Messer Tolosato degli Uberti, tornato di Sardigna, sentendo questa discordia, s'acconciò co' Pisani, e soccorse parte ghibellina, e in Bologna e in Pistoia personalmente fu; e molti altri della casa degli Uberti. I quali più di XL anni erano stati rubelli di loro patria, né mai merzè né misericordia trovorono; stando sempre fuori in grande stato; e mai non abbassorono di loro onore, però che sempre stettono con re, e con signori stettono, e a gran cose si dierono. La Parte nera passò l'alpe; ville e castella arsono; e furono nel Santerno, nell'Orto degli Ubaldini, e arsollo. E niuno con arme si levò alla difesa! Che s'eglino avessono tagliati pur de' legni che v'erano, e messigli in terra e intraversati agli stretti passi, dei loro adversarii niuno ne sarebbe canpato. Ebbono i Bianchi una altra ria fortuna, per simplicità d'uno cittadino rubello di Firenze, chiamato Gherardino Diedati: il quale stando in Pisa e confidandosi ne' consorti suoi, scrisse loro che i confinati stavano in speranza di mese in mese essere in Firenze per forza; e così scrisse a alcuno suo amico. Le lettere furono trovate: il perché due giovani suoi nipoti, figliuoli di Finiguerra Diedati, e Masino Cavalcanti, bel giovane, furono presi, e tagliata loro la testa; e Tignoso de' Macci fu messo alla colla, e quivi morì; e fu tagliato il capo a uno de' Gherardini. De' quanto fu la dolorosa madre de' due figliuoli ingannata! che con abbondanza di lagrime, scapigliata, in mezo della via, ginocchione si gittò in terra innanzi a messer Andrea da Cerreto giudice, pregandolo con le braccia in croce per Dio s'aoperasse nello scampo de' suoi figliuoli. Il quale rispose, che però andava a palazo: e di ciò fu mentitore, perché andò per farli morire. Pe' sopradetti malifici i cittadini che aveano speranza che la città si riposasse, la perderono; però che fino a quel dì non era sparto sangue, il perché la città posare non dovesse.
CAPITOLO XXX
Terza disavventura de' Bianchi, respinti dalla spedizione di Puliciano tentata insieme coi Ghibellini. Ne rimangono presi e morti: il che rafforza e assicura l'amicizia tra Ghibellini e Bianchi (1303, febbraio, marzo...).
La terza disaventura ebbono i Bianchi e Ghibellini (la quale gli accomunò, e i due nomi si ridussono in uno) per questa cagione: che essendo Folcieri da Calvoli podestà di Firenze, i Bianchi chiamorono Scarpetta degli Ordalaffi loro capitano, uomo giovane e temperato, nimico di Folcieri. E sotto lui raunorono loro sforzo, e vennono a Pulicciano apresso al Borgo a San Lorenzo, sperando avere Monte Accenico, edificato dal cardinale degli Ubaldini, messer Attaviano, con tre cerchi di mura. Quivi s'ingrossorono con loro amici, credendo prendere Pulicciano, e quindi venire alla città. Folcieri vi cavalcò con pochi cavalli. I Neri v'andorono con grande riguardo: i quali, vedendo che i nimici non assalirono il podestà, che era con pochi, ma tagliarono i ponti e afforzaronsi, presono cuore ingrossandosi. A' Bianchi parea esser presi; e però si levorono male in ordine; e chi non fu presto a scampare, rimase; però che i villani de' conti d'attorno furono subito a' passi, e presonne e uccisonne molti. Scarpetta con più altri de' maggiori rifuggirono in Monte Accinico. E fu l'esercito de' Bianchi e Ghibellini cavalli VIIc e pedoni IIIIm. E quantunque la partita non fusse onorevole, fu più savia che la venuta. Messer Donato Alberti tanto fu lento che fu preso, e uno valente giovane nominato Nerlo di messer Goccia Adimari, e due giovani degli Scolari. E Nanni Ruffoli fu morto da Chirico di messer Pepo dalla Tosa. Fu menato messer Donato vilmente su uno asino, con una gonnelletta d'uno villano, al podestà. Il quale, quando il vide, lo domandò: "Siete voi messer Donato Alberti?". Rispose: "Io sono Donato. Così ci fusse innanzi Andrea da Cerreto, e Niccola Acciaiuoli, e Baldo d'Aguglione, e Iacopo da Certaldo, che ànno distrutta Firenze ". Allora lo pose alla colla, e accomandò la corda allo aspo, e così ve 'l lasciò stare: e fe' aprire le finestre e le porti del palagio, e fece richiedere molti cittadini sotto altre cagioni, perché vedessono lo strazio e la derisione facea di lui. E tanto procurò il podestà, che li fu conceduto di tagliarli la testa. E questo fece, perché la guerra gli era utile, e la pace dannosa: e così fece di tutti. E questa non fu giusta diliberazione: ma fu contro alle leggi comuni, però che i cittadini cacciati, volendo tornare in casa loro, non debbono esser a morte dannati; e contro all'uso della guerra, ché tenere li dovean presi. E perché i Guelfi bianchi, presi, furon parimente morti co' Ghibellini, s'assicurorono insieme: ché fino a quel dì sempre dubitarono, che d'intero animo fussono con loro.
CAPITOLO XXXI
La divisione di Parte guelfa è compiuta. I nomi di Guelfo e Ghibellino, divenuti Ghibellini i Bianchi già Guelfi, si confondono strananmente.
O messer Donato, quanto la fortuna ti si volse in contrario! ché prima ti presono il figliuolo, e ricomperastilo lire IIIm; e te ànno decapitato! Chi te lo à fatto? I Guelfi, che tu tanto amavi, e che in ogni tua diceria dicevi uno colonnello contro a' Ghibellini. Come ti poté esser tolto il nome di guelfo per li falsi volgari? come da' Guelfi fosti giustiziato tra i Ghibellini? Chi tolse il nome a Baldinaccio Adimari e al Baschiera Tosinghi, d'esser Guelfi, che tanto i padri loro feciono per Parte guelfa? Chi ebbe balìa di tòrre e dare in picciol tempo, che i Ghibellini fussono detti guelfi, e i grandi Guelfi detti ghibellini? Chi ebbe tal privilegio? Messer Rosso dalla Tosa e suoi seguaci, che niente operava ne' bisogni della parte, anzi nulla appo i padri di coloro, a cui il nome fu tolto. E però in ciò parlò bene un savio uomo guelfissimo, vedendo fare ghibellini per forza, il qual fu il Corazza Ubaldini da Signa, che disse: "E' sono tanti gli uomini che sono ghibellini e che vogliono essere, che il farne più per forza non è bene".
LIBRO III
CAPITOLO I
Elezione del nuovo potefice, Benedetto XI; e sue qualità. Suoi primi atti: nomina del Cardinale da Prato a paciaro in Toscana (ottobre 1303 - gennaio 1304).
Nostro Signore Iddio, il quale a tutte le cose provede, volendo ristorare il mondo di buono pastore, provide alla necessità de' cristiani. Perché chiamato fu nella sedia di san Piero papa Benedetto, nato di Trevigi, frate Predicatore e priore generale, uomo di pochi parenti e di picciolo sangue, constante e onesto, discreto e santo. Il mondo si rallegrò di nuova luce. Cominciò a fare opere piatose: perdonò a' Colonnesi, e restituilli ne' beni. Nelle prime digiuna fece due cardinali: l'uno, inghilese; l'altro fu il vescovo di Spuleti, nato del castello di Prato, e frate Predicatore, chiamato messer Niccolao, di piccioli parenti ma di grande scienzia, grazioso e savio, ma di progenie ghibellina: di che molto si rallegrorono i Ghibellini e' Bianchi; e tanto procurorono, che papa Benedetto il mandò paciaro in Toscana.
CAPITOLO II
Discordie tra' Neri in Firenze:Rosso dalla Tosa col popolo grasso, e Corso Donati co' Grandi e popolo minuto (...1304, febbraio...).
Innanzi alla sua venuta, si palesò una congiura ordinata da messer Rosso dalla Tosa; il quale tutto ciò che facea e procurava nella città, era per avere la signoria a guisa de' signori di Lombardia. E molti guadagni lasciava, e molte paci facea, per avere gli animi degli uomini pronti a quello che egli disiderava. Messer Corso Donati nonne scusava moneta; ogni uno, chi per paura, chi per minaccie, gli dava del suo; non lo chiedeva, ma facea senbiante di volere. I due nimici si guardavano a' fianchi. Messer Rosso temea l'abbominio de' Toscani, se contro a messer Corso avesse procurato; temea i nimici di fuori, e procurava d'abbassarli prima che contro a messer Corso mostrasse sua nimistà; e temea il nome che avea della Parte, che il popolo non si turbasse: teneasi col popolo grasso, però ch'erano le sue tanaglie, e pigliavano il ferro caldo. E messer Corso, per l'animo grande che avea, alle piccole cose non attendea e non si dichinava, e non avea l'amore di cotali cittadini per sdegno. Sì che, lasciando il popolo grasso, co' grandi si congiurò, mostrando molte ragioni come eglino erano prigioni e in servitù d'una gente di popolani grassi, anzi cani, che gli signoreggiavano e togliènsi gli onori per loro: e così parlando, raccolse tutti i gran cittadini che si teneano gravati, e tutti si giurarono. Nella qual fu messer Lottieri dalla Tosa, vescovo di Firenze, e messer Baldo, suo nipote, in però che messer Rossellino suo consorto si tenea uno suo castello e' fedeli; e non se ne osava dolere, mentre che papa Bonifazio visse. E furonvi i Rossi, i Bardi, i Lucardesi, i Cavalcanti, i Bustichi, i Giandonati, i Tornaquinci quasi tutti, i Manieri, e parte degli Adimari; e molti popolani vi furono. E in tutti, tra di famiglie e popolani, furno XXXII i giurati; e diceano, sopra il grano venuto di Puglia che si dava per bocche al popolo:"I popolani sono gravati, e tolto il loro colle grandi inposte, e poi convien loro mangiare le stuoie", dicendo che le tagliavano nel grano, perché la misura crescesse. Il popolo grasso cominciò a temere, gli amici di messer Corso montarono: ma non tanto; ché ne' consigli e nelle raunate smentivano messer Corso: molto il perseguitavano i Bordoni, che erano popolani arditi e arroganti; e più volte lo smentirono, e non guardavano a maggioranza d'aversari, né che advenire ne potesse; del Comune traevano assai guadagno, e le lode gli sormontavano. Non però i seguaci di messer Rosso gli lasciavano molestare. Posono in uno mese il grano a soldi XII, e feciono la libra, e poson MCC cavagli a fiorini L per cavallo, sanza niuna piatà. E allora mandorono gente e feciono un battifolle presso a Monte Accinico, e misonvi uomini a guardia.
CAPITOLO III
Intervento de' Lucchesi, chiamati dal Comune per pacificatori. Le due fazioni vengono alle mani. Corso assale il palagio della Signoria. Si rinnova l'ufficio. Baldanza de' Grandi: esecuzione degli Ordinamenti di Giustizia contro i Tornaquinci (1303, dicembre; 1304, febbraio - aprile).
La congiura di messer Corso pure parlando sopramano, l'altra parte mandò pe' Lucchesi; i quali con parole mezane credettono tòrre forteze tenea: e assegnatoli tempo a renderle, il condannorono, se non le desse a' Lucchesi. Messer Corso, non volendosi lasciare sforzare, richiese gli amici suoi; e molti sbanditi raccolse; e venne in suo aiuto messer Neri da Lucardo, valente uomo d'arme. E armato a cavallo venne in piaza, e con balestra e con fuoco combatté il palagio de' Signori aspramente. L'altra parte, di cui era capo messer Rosso dalla Tosa, insieme con la maggior parte de' consorti, co' Pazi, Frescobaldi, Gherardini, Spini, e il popolo e molti popolani, vennono alla difesa del palagio, e feciono gran zuffa: nella quale fu morto d'uno quadrello messer Lotteringo Gherardini; che ne fu gran danno, ché era valente. Messer Rosso dalla Tosa e i suoi seguaci chiamorono il nuovo uficio de' priori, e misonli la notte in palagio sanza suoni di tronbe o altri onori. I serragli erano fatti per la terra; e circa un mese stettono sotto l'arme. I Lucchesi, che erano venuti in Firenze per mettere pace, ebbono gran balìa dal Comune. E molto si scopersono i grandi, e voleano si rompessono le leggi contra i grandi. Raddoppiossi il numero de' Signori: e nondimeno la parte de' grandi rimase in gran superbia e baldanza. Accadde in quelli dì che il Testa Tornaquinci, e un figliuolo di Bingieri suo consorto, in Mercato Vecchio fediron e per morto lasciorono uno popolano loro vicino; e niuno ardia a soccorrerlo, per tema di loro. Ma il popolo rassicurato si crucciò, e con la insegna della giustizia armati andorono a casa i Tornaquinci, e misono fuoco nel palagio, e arsollo e disfeciono, per la loro baldanza.
CAPITOLO IV
Giunge in Firenze il cardinale da Prato, paciaro. Pacificazione de' Neri tra loro. Pacificazione di Neri con Bianchi e Ghibellini; mal veduta dai Neri, specialmente dalla parte di Rosso. Loro atti per impedire che proceda innanzi. La Signoria dà commissione per l'esecuzione della pace (1304, 10 marzo - maggio).
Il cardinale Niccolao da Prato, segretamente domandato da' Bianchi e Ghibellini di Firenze a papa Benedetto per Legato in Toscana, giunse in Firenze a dì X di marzo 1303; e grandissimo onore li fu fatto dal popolo di Firenze, con rami d'ulivo e con gran festa. E posato in Firenze alcun dì, trovando i cittadini molto divisi, domandò balìa dal popolo di potere constrignere i cittadini a pace; la quale li fu concessa perfino a calendi maggio 1304, e poi prolungata per uno anno. E fece più paci tra cittadini dentro: ma dipoi la gente raffreddò, e molte gavillazioni si trovorono. Il vescovo di Firenze favoreggiava la pace, perché con seco recava giustizia e dovizia, e a petizione del Cardinale si pacificò con messer Rosso suo consorto. Rifermò i gonfaloni delle compagnie: gli amici di messer Corso n'ebbono parte, e egli fu chiamato Capitano di Parte. Ciascuno favoreggiava il Cardinale, e elli con speranza tanto gli umiliò con dolci parole, che gli lasciarono chiamare sindachi: che furono, per la parte dentro, messer Ubertino dello Stroza e ser Bono da Ognano; e per la parte di fuori, messer Lapo Ricovero e ser Petracca di ser Parenzo dall'Ancisa. A dì XXVI d'aprile 1304, raunato il popolo sulla piaza di Santa Maria Novella, nella presenzia de' Signori, fatte molte paci, si baciarono in bocca per pace fatta, e contratti se ne fece; e puosono pene a chi contrafacesse: e con rami d'ulivo in mano pacificorono i Gherardini con gli Amieri. E tanto parea che la pace piacesse a ogni uno, che vegnendo quel dì una gran piova, niuno si partì, e non parea la sentissono. I fuochi furono grandi, le chiese sonavano, rallegrandosi ciascuno: ma il palagio de' Gianfigliazzi, che per le guerre facea gran fuochi, la sera niente fece; e molto se ne parlò per li buoni, che diceano non era degno di pace. Andavano le compagnie del popolo, faccendo gran festa sotto il nome del Cardinale, con le 'nsegne avute da lui sulla piaza di Santa Croce. Messer Rosso dalla Tosa rimase con grande sdegno, però che troppo gli parve che la pace fusse ita innanzi a quello ch'egli volea: e però pensò d'avacciare suo intendimento con gli altri suoi, però che a lui lasciavano fare, e a lui si mostravano amichevoli. E tutto faceano per avere Pistoia, della quale forte dubitavano; però che la teneano i loro adversarii, e eravi dentro messer Tolosato degli Uberti. E intanto i cavalieri e' pedoni de' Bianchi, tornando a Monte Accinico dal soccorso di Furlì, per questo i Guelfi dentro cominciorono a parlare viziatamente e perturbare la pace: e dopo molte altre cose, richiesono i Buondalmonti a pacificarsi con li Uberti; onde molti consigli se ne fece, per indugiarlo, ché era cosa impossibile. A dì VI di maggio 1304 i Priori commisono nel Cardinale e in quattro chiamati pel Papa, a dare essecuzione alla pace universale; ciò è a messer Martino dalla Torre da Milano, a messer Antonio da Fostierato da Lodi, a messer Antonio de' Brusciati da Brescia, e a messer Guidotto de' Bugni da Bergamo.
CAPITOLO V
In questo mezzo i Neri inducono maliziosamente il Cardinale a uscire di Firenze per assicurarsi di Pistoia: sua andata a Prato e a Pistoia. Tornando a vuoto da quest'ultima città, Prato gli si rivolge contro (maggio 1304).
I contrarii alla volontà del Papa, non volendo più sostenere il fascio del Cardinale, né lasciare più abbarbicare la pace, feciono tanto con false parole, che rimossono il Cardinale di Firenze, dicendogli: "Monsignore, anzi che andiate più avanti con la esecuzione della pace, fateci certi che Pistoia ubidisca: perché faccendo noi pace, e Pistoia rimanesse a' nostri adversari, noi saremo ingannati". E questo non diceano, perché avendo Pistoia volessono la pace, ma per prolungare il trattato della pace. E tanto con colorate parole il mossono, che a dì VIII di maggio 1304 si partì di Firenze, e per la via da Campi albergò a un bel riparo di Rinuccio di Senno Rinucci. L'altro dì cavalcò a Prato, donde nato era, e dove mai non era stato: e quivi con molto onore e gran dignità fu ricevuto, e con rami d'ulivo, e cavalieri con bandiere e stendardo di zendado, il popolo e le donne ornate, e le vie coperte, con balli e con stormenti, gridando: "Viva il signore". Ma tosto gliel cambiorono in onta, siccome i Giudei feciono a Cristo, come di sotto si dirà. In quel dì cavalcò a Pistoia, e parlò co' maggiori e reggenti della terra: e con lui cavalcò messer Geri Spini, il quale avea fatti gli arnesi, credendo avere la signoria della terra. E furono da messer Tolosato degli Uberti e dal popolo ricevuti con grande onore, e fugli data certa balìa dal popolo, ma non che desse la città a altri. Il perché vedendo che la terra si tenea con molti scalterimenti perdé la speranza d'averla; e però se ne ritornò inverso Prato: dove credendo potere entrare con la forza de' parenti e degli amici suoi, non poté.
CAPITOLO VI
Ritorno del Cardinale a Firenze e scomunica de'Pratesi. L'esercito fiorentino esce contro Prato, che tratta accordo. Intanto in Firenze le discordie di Parte nera fra popolani grassi e i Grandi e il popolo minuto si fanno più gravi (maggio 1304).
Sentendo ciò che in Prato contro a lui era ordinato, di subito si partì e ritornò a Firenze; e sbandì e scomunicò i Pratesi, e bandì loro la croce adosso, dando perdono a chi contro a loro facea danno alcuno. E i parenti e amici suoi furono disfatti, e cacciati di Prato. Il podestà di Firenze con le cavallate e co' soldati del Comune cavalcorono sul contado di Prato, e schieraronsi nel greto di Bisenzo all'Olmo a Mezano, e stettonvi fino passata nona. Di Prato uscirono alcuni per trattare accordo, scusandosi al Cardinale, e profferendo fare ciò che egli volea; tanto che cessoron il furore: perché molti ve ne erano, che volentieri arebbono dato loro il guasto e provatisi di vincere la terra, cioè quelli ch'erano del volere del Cardinale. Gli altri capi di Parte nera e i loro seguaci molte parole diceano piene di scandolo. E stando schierati i cavalieri, e' fu presso che finita la guerra; tanto scandolo nacque tra quelle genti: il quale se fusse ito innanzi, i grandi e il popolo, a cui piacea la pace, amici del Cardinale, n'arebbono avuto il migliore, secondo che le volontà si dimostravano. E quelli della casa de' Cavalcanti molto se ne mostrarono favorevoli. Partissi l'oste, e vennene a Campi: e quivi dimorò tutto quel dì. L'altro giorno si partì, però che il Cardinale si lasciò menare per le parole, credendo fare il meglio della pace. Ma i parenti suoi, che con onta ne furono cacciati, non tornarono in Prato, e non si fidarono, e poi furono fatti rubelli.
CAPITOLO VII
Il Cardinale affretta la pace. Venuta di capi di Parte bianca e ghibellina in Firenze, sotto sicurtà. Slealtà de' Neri, e poco animo de' Bianchi e de' Cavalcanti. I Bianchi e Ghibellini si partono. Il Cardinale, temendo offesa, lascia sdegnato la città, e torna al Pontefice (1304, giugno).
Attese il Cardinale ad avacciare la pace, e a darvi esecuzione. E prese per consiglio, per concordare le differenzie, di far venire de' capi degli usciti di fuori, e elessene XIIII°: i quali vennono in Firenze sotto licenzia e sicurtà, e stettono oltre Arno in casa i Mozi, e fecionvi chiuse di legname e posonvi guardie per non potere esser offesi. I nomi d'alcuni sono: messer [...] de' Conti da Gangalandi, Lapo di messer Azolino degli Uberti, Baschiera di messer Bindo dalla Tosa, Baldinaccio Adimari, Giovanni de' Cerchi, e Naldo di messer Lottino Gherardini, e più altri. E la Parte nera, che erano in Firenze, i nomi d'alcuni: messer Corso Donati, messer Rosso dalla Tosa, messer Pazino de' Pazi, messer Geri Spini: messer Maruccio Cavalcanti, e messer Betto Brunelleschi, e più altri. Quando quelli di Parte bianca vennono in Firenze, furon molto onorati dalla gente minuta. Molti antichi Ghibellini, uomini e femmine, baciavano l'arme degli Uberti e Lapo di messer Azolino fu molto guardato da' Grandi loro amici, perché mnlti odii mortali avean quelli di casa sua con molti cittadini guelfi. Il Baschiera dalla Tosa fu anche molto onorato: e egli onorò messer Rosso in parole e in vista. E grande speranza ne prese il popolo; perché i Bianchi e' Ghibellini si proposono lasciarsi menare a' Neri, e di consentire ciò che domandavano, acciò non avesson cagione di fuggire la pace. Ma i Neri non aveano voglia di pace: menaronli tanto con parole, che i Bianchi furono consigliati si riducessono a casa i Cavalcanti, e quivi farsi forti d'amici, e non lasciare la città loro; e molti savi uomini dissono, che se fatto l'avessono, erano vincitori. Ma mandarono messaggi a' Cavalcanti, per parte del Cardinale e di loro, a richiederli; i quali ne tennono consiglio, e accordoronsi non riceverli. Il quale fu mal consiglio per loro, secondo i volgari; perchéÚ gran danno venne sopra loro e le lor case, di fuoco e d'altre cose, come innanzi si dirà. I Bianchi, da poi che da' Cavalcanti non furono ricevuti, e vedendo i dubbiosi senbianti de' loro adversari e le parole che usavano, furono consigliati che si partissono; e così feciono a dì VIII di giugno 1304. Il Cardinale rimase. Quelli che volentieri non lo vedeano, feciono senbiante d'offenderlo: e una famiglia chiamata i Quaratesi, vicini de' Mozi, e al palagio dove abitava il Cardinale, feciono vista di saettarlo. Il perché dolendosene, fu consigliato si partisse: onde temendo, si partì a dì VIIII di giugno, lasciando la terra in male stato; e andossene a Perugia, ove era il Papa.
CAPITOLO VIII
La città riprende le armi.Neri e Cavalcanti. Incendio spaventoso, attaccato da' Neri, confuoco lavorato. Cacciata de' Cavalcanti (1304, giugno).
I buoni cittadini rimasono molto crucciosi e disperati di pace. I Cavalcanti si doleano, e molti altri; e tanto s'accesono gli animi, che la gente s'armò e comincioronsi a offendere. Quelli della Tosa e i Medici vennono armati in Mercato Vecchio con le balestra, saettando verso il Corso degli Adimari e giù per Calimala: e uno serraglio combatterono nel Corso, e abbatteronlo, il quale era guardato da gente che avea più animo a vendetta che a pace. Messer Rossellino dalla Tosa, con sua brigata, venne a casa i Sassetti, per mettervi fuoco: i Cavalcanti soccorsono, e altre genti; e in quello trarre, Nerone Cavalcanti scontrò messer Rossellino, al quale bassò la lancia, e posegliele a petto, per modo lo gittò da cavallo. I capi di Parte nera aveano ordinato un fuoco lavorato, pensando bene che a zuffa conveniano venire: e intesonsi con uno ser Neri Abati priore di San Piero Scheraggio, uomo reo e dissoluto, nimico de' suoi consorti, al quale ordinorono che mettesse il primo fuoco. E così mise a dì X di giugno 1304, in casa i consorti suoi in Orto San Michele. Di Mercato Vecchio si saettò fuoco in Calimala; il quale multiplicò tanto, per non esser difeso, che, aggiunto col primo, che arse molte case e palagi e botteghe. In Orto San Michele era una gran loggia con uno oratorio di Nostra Donna, nel quale per divozione eran molte immagini di cera: nelle quali appreso il fuoco, aggiugnendovisi la caldeza dell'aria, arsono tutte le case erano intorno a quel luogo, e i fondachi di Calimala e tutte le botteghe erano intorno a Mercato Vecchio fino in Mercato Nuovo e le case de' Cavalcanti, e in Vacchereccia e in Porta Santa Maria fino al Ponte Vecchio; ché si disse arsono più che 1900 magioni: e niuno rimedio vi si poté fare. I ladri publicamente si metteano nel fuoco a rubare e portarsene ciò che poteano avere: e niente era lor detto. E chi vedea portarne il suo, non osava domandarlo, perché la terra in ogni cosa era mal disposta. I Cavalcanti perderono quel dì il cuore e il sangue, vedendo ardere le loro case e palagi e botteghe, le quali per le gran pigioni, per lo stretto luogo, gli tenean ricchi. Molti cittadini, temendo il fuoco, isgombravano i loro arnesi in altro luogo, ove credeano che dal fuoco fussono sicuri; il quale si stese tanto, che molti li perderono per volerli campare, e rimasono disfatti. Acciò che di tal malificio si sappi il vero, e per che cagione fu fatto detto fuoco e dove, i capi di Parte nera, a fine di cacciare i Cavalcanti di quel luogo, i quali temeano perché erano ricchi e potenti, ordinarono il detto fuoco a Ognissanti: ed era composto per modo, che quando ne cadea in terra, lasciava uno colore azurro. Il quale fuoco ne portò il detto ser Neri Abati in una pentola, e miselo in casa i consorti: e messer Rosso dalla Tosa e altri il saettorono in Calimala. Sinibaldo di messer Corso Donati, con un gran viluppo di detto fuoco, a modo d'un torchio acceso, venne per metterlo nelle case de' Cavalcanti in Mercato Nuovo; e Boccaccio Adimari con suoi seguaci, per Corso degli Adimari fino in Orto San Michele. I Cavalcanti si feciono loro incontro, e ripinsongli nel Corso, e tolsono loro il serraglio che avean fatto. Allora mison fuoco in casa i Macci nella Corte delle Badesse. Il podestà della terra con sua famiglia e con molti soldati venne in Mercato Nuovo; ma aiuto né difensione alcuna non fece. Guardavano il fuoco, e stavansi a cavallo, e davano impedimento per lo ingombrìo faceano, che impedivano i fanti e gli andatori. I Cavalcanti e molti altri guardavano il fuoco, e non ebbono tanto ardire che andassono contro a' nimici, poi che 'l fuoco fu spento; ché vincere gli poteano, e rimanere signori. Ma messer Maruccio Cavalcanti e messer Rinieri Lucardesi consigliorono, che prendessono le lumiere accese, e andassono a ardere le case de' nimici che aveano arse le loro. Non fu seguìto tal consiglio; che se seguìto l'avessono, perché niuna difensione facea l'altra parte, sarebbono stati vincenti. Ma tristi e dolenti se n'andarono alle case de' parenti loro; e i nimici presono ardire, e caccioronli della terra: e chi andò a Ostina, chi alle Stinche a loro possessioni, e molti a Siena, perché da' Sanesi ebbono speranza di riconciliargli. E così passò il tempo, e non furono riconciliati, e da ciascun riputati vili.
CAPITOLO IX
Sbigottimento de' cittadini.I capi di Parte nera vanno a Perugia a scusarsi al Papa. Morte di Benedetto XI (1304, giugno - luglio).
Rimasono i cittadini in Firenze smagati per lo pericoloso fuoco e sbigottiti, perché non ardivano a lamentarsi di coloro che messo ve l'aveano, perché tirannescamente teneano il reggimento; con tutto che anche di loro arnesi assai ne perdessono quelli che reggeano. I caporali de' reggenti, sappiendo di certo che abbominati sarebbono al Santo Padre, diliberarono andare a Perugia, dove era la Corte. Quelli che v'andorono: messer Corso Donati, messer Rosso dalla Tosa, messer Pazino de' Pazi, messer Geri Spini, e messer Betto Brunelleschi, con alcuni Lucchesi e Sanesi; credendosi, con colorate parole e con danari e con forza d'amici, annullare l'oltraggio fatto al Cardinale, legato e paciaro in Toscana, e la grande infamia aveano del fuoco crudelissimamente messo nella terra. Giunsono in Corte, dove cominciarono a seminare del seme portorono. A dì XXII di luglio 1304 morì in Perugia Papa Benedetto XI, di veleno, messo in fichi freschi li furono mandati.
CAPITOLO X
Ardito disegno de' fuorusciti per rientrare in Firenze; e come fallisce loro per colpa del Baschiera (luglio 1304).
Dimorando i detti in Perugia, per li usciti di Firenze si fe' un franco pensiero: che fu, che celatamente invitorono tutti quelli di loro animo, che un giorno posto dovessono esser tutti con armata mano in certo luogo: e sìý segretamente menorono il trattato, che quelli che erano rimasi in Firenze niente ne sentirono. E messo in ordine, subito furono alla Lastra presso a Firenze a due miglia, con MCC uomini d'arme a cavallo, con sopraveste bianche: e furonvi Bolognesi, Romagnoli, Aretini, e altri amici, a cavallo e a piè. Il grido fu grande per la città. I Neri temeano forte i loro adversari, e cominciavano a dire parole umili. E molti se ne nascosono ne' munisteri, e molti si vestivano come frati per paura di loro nimici: ché altro riparo non aveano, perché non erano proveduti. I Bianchi e Ghibellini stando alla Lastra, una notte molti loro amici della città gli andorono a confortare del venire presto. Il tenpo era di luglio, il dì di Santa Maria Maddalena a dì XXI, e il caldo grande. E la gente che vi dovea esser non v'era ancor tutta; però che i primi che vennono, si scopersono due dì innanzi. Messer Tolosato degli Uberti co' Pistolesi non era ancor giunto, perché non era il dì diputato. I Cavalcanti, i Gherardini, i Lucardesi, gli Scolari di Val di Pesa, non erano ancora scesi. Ma il Baschiera, che era quasi capitano, vinto più da volontà che da ragione, come giovane, vedendosi con bella gente e molto incalciato, credendosi guadagnare il pregio della vittoria, chinò giù co' cavalieri alla terra, poi che scoperti si vedeano. E questo non dovean fare, perché la notte era loro più amica che 'I dì, sì per lo calore del dì, e sì perché gli amici sarebbono iti a loro di notte della terra, e sì perché ruppono il termine dato agli amici loro; i quali non si scopersono, perché non era l'ora determinata. Vennono da San Gallo, e nel Cafaggio del Vescovo si schierarono, presso a San Marco, e con le insegne bianche spiegate, e con ghirlande d'ulivo, e con le spade ignude, gridando "pace", sanza fare violenzia o ruberia a alcuno. Molto fu bello ad vederli, con segno di pace, stando schierati. Il caldo era grande, sì che parea che l'aria ardesse. I loro scorridori a piè e a cavallo si strinsono alla città, e vennono alla porta degli Spadai, credendo il Baschiera avervi amici e entrarvi sanza contesa: e però non vennono ordinati, con le scure né con l'armi da vincere la porta. I serragli del borgo furono loro contesi: pur li ruppono, e fedirono e uccisono molti Gangalandesi erano quivi alla guardia. Giunsono alla porta, e per lo sportello molti entrarono nella città. Quelli dentro, che aveano loro promesso, non obtennono loro i patti; come furono i Pazi, i Magalotti, e messer Lambertuccio Frescobaldi, i quali erano co' loro sdegnati, chi per oltraggi e onte ricevute, pel fuoco messo nella città e altre villanie loro fatte: anzi feciono loro contro, per mostrarsi non colpevoli; e più si sforzavano offenderli che gli altri; con balestra a tornio vennono saettando a Santa Reparata. Ma niente valea, se non fusse stato uno fuoco che fu messo in uno palagio allato alla porta della città. Onde coloro che già erano entrati nella terra, dubitarono esser traditi e volsonsi indietro; e portoronsene lo sportello della porta, e giunsono alla schiera grossa, la quale non si movea: ma il fuoco forte crescea. Così stando, il Baschiera sentì che quelli che lo dovean favoreggiare lo nimicavano; e però volse i cavalli e tornò indietro. E la speranza e l'allegrezza tornò loro in pianto: ché i loro adversarii vinti divennero vincitori, e presono cuore come lioni; e scorrendo li seguivano, ma con grande riguardo: e i pedoni, vinti dalla calura del sole, si gittavano per le vigne e per le case nascondendosi, e molti ne trafelarono. Il Baschiera si gittò nel monasterio di San Domenico, e per forza ne trasse due sue nipoti che erano molto ricche, e menòllene seco. E però Iddio gliene fece male. A casa Carlettino de' Pazi rimasono molti gentili uomini per ricogliere i loro, e per danneggiare i loro nemici; che scorrevano loro dietro: e più non li seguitorono. Poco lontano dalla terra scontrorono messer Tolosato degli Uberti, il quale co' Pistolesi venìa per esser al dì nominato. Vollegli rivolgere, e non poté. Il perché con gran dolore se ne tornò in Pistoia; e ben conobbe che la giovaneza del Baschiera gli tolse la terra. Molti degli usciti ne furono morti, che si trovorono nascosi; e molti poveri infermi uccisono, i quali traevano degli spedali. Bolognesi e Aretini furon presi assai, e tutti gl'inpiccarono. Ma quelli che eran maliziosi, l'altro giorno, levarono una falsa voce, dicendo che messer Corso Donati e messer Cante de' Gabrielli d'Agobbio avean preso Arezo per tradimento: onde i loro nimici ne dubitorono tanto, che ne perderono il vigore e non s'ardirono a muovere.
CAPITOLO XI
Giudizi e osservazioni su questo tentativo de' fuorusciti.
E così si perdé la città riguadagnata, per gran fallo: e molti dissono, che da qualunque altra porta fussono venuti, acquistavano la città. Ché difenditori non aveano, se non alcuni giovani, che non s'ariano messi tanto innanzi che perire potessono: come fece Gherarduccio di messer Bondalmonte, che tanto li seguitò, che uno si volse indietro, e aspettollo, e poseli la lancia, e miselo in terra. Il pensiero degli usciti fu savio e vigoroso: ma folle fu la venuta, perché fu troppo sùbita e innanzi al dì ordinato. Gli Aretini ne portorono del legno dello sportello, e i Bolognesi; che a grande onta se 'l recoron i Neri. Molte volte i tempi sono paragone degli uomini, i quali non per virtù, ma per loro volgari, sono grandi. E ciò si vide in quel giorno che i Bianchi vennero alla terra, che molti cittadini mutarono lingua, abito e modi. Pur quelli che più superbamente soleano parlare contro agli usciti, mutarono il parlare, dicendo per le piaze e per gli altri luoghi che degna cosa era che tornassono nelle loro case. E questo facea dir loro la paura più che la volontà o che la ragione. E molti ne fuggirono tra i religiosi, non per umiltà ma per cattiva e misera viltà, credendo che la terra si perdesse. Ma poi che i Bianchi si furono partiti, ricomincioron a usare le prime parole inique, accese e mendaci.
CAPITOLO XII
Elezione del nuovo pontefice, francese, col nome di Clemente V: sua incoronazione: sue relazioni col re di Francia (1305, giugno - novembre).
La divina giustizia, la quale molte volte punisce nascosamente, e toglie i buoni pastori a' popoli rei che non ne sono degni, e dà loro quello che meritano alla loro malizia, tolse loro papa Benedetto. I cardinali, per volontà del re di Francia e per industria de' Colonnesi, elessono messer Ramondo dal Gotto, arcivescovo di Bordea di Guascognia, di giugno 1305, il quale si chiamò papa Clemente V; il quale non si partì d'oltramonti e non venne a Roma, ma fu consecrato a Lione del Rodano. Dissesi che alla sua consecrazione rovinò il luogo ove era, e che la corona gli cadde di capo, e che il re di Francia non volea si partisse di là. Più cardinali oltramontani fece a sua petizione, e ordinamenti di decime, e altre cose: ma richiesto publicasse eretico papa Bonifazio, mai il volle fare.
CAPITOLO XIII
I Neri, che già avevano tentato d'aver Pistoia per mezzo del Cardinale di Prato, vi rivolgono novamente le mire, e le pongono assedio (1305, ...maggio).
Il cardinale Niccolao da Prato, che molto avea favoreggiata la sua elezione, era molto in sua grazia. E essendo stato Legato in Toscana, come è detto, avendo avuta balìa da' Pistolesi di chiamare signoria sopra loro per IIII° anni, acciò ch'egli avesse balìa, nella pace, di ciò che di Pistoia si domandava. Ché Parte nera volea, che gli usciti Guelfi tornassono in Pistoia, dicendo: "Noi non faremo pace, se Pistoia non si racconcia, però che, pacificati noi, i Ghibellini terrebbono Pistoia, perché messer Tolosato ne è signore, e così saremo ingannati"; e Pistoia si dicea esser data alla Chiesa. E la promessa del Cardinale non valse, perché di Firenze fu cacciato, come è stato detto. Perduta i Neri ogni speranza d'avere Pistoia, diliberorono averla per forza: e con l'aiuto de' Lucchesi vi vennon e posonvi l'assedio, e afforzoronvisi, e steccaronla, e fecionvi bertesche spesse con molte guardie. La città era nel piano, piccioletta, e ben murata e merlata, con forteze e con porti da guerra, e con gran fossi d'acqua; sì che per forza avere non si potea, ma attesono ad affamarla; perché soccorso avere non potea: i Pisani loro amici gli aiutavano con danari, ma non con le persone; i Bolognesi erano poco loro amici.
CAPITOLO XIV
Assedio di Pistoia (maggio 1305 - primi mesi del 1306).
I Neri elessono per loro capitano di guerra Ruberto duca di Calavria, figliuolo primogenito del re Carlo di Puglia. Il quale venne in Firenze con CCC cavalli: e insieme co' Lucchesi vi stettono buon pezo a assedio; perché i Pistolesi uomini valenti della persona, spesso uscivano fuori alle mani co' nimici e faceano di gran prodeze. Molti uomini uccisono, contadini di Firenze e di Lucca; e tenean la terra con poca gente, perché per povertà molti se ne erano usciti. E non pensando essere assediati, non si providono di vittuaglia; e poi che l'assedio vi fu, non poterono: e però la fame gli assalia. Gli uficiali che avean la guardia della vittuaglia, saviamente la stribuivano per modo segreto. Le femmine e uomini di poco valore, di notte, passavano per lo campo nascosamente, e andavano per vittuaglia alla Sanbuca, e altri luoghi ed altre castella di verso Bologna, e agevolmente la conduceano in Pistoia. Il che sentendo i Fiorentini, s'afforzarono da quella parte, per modo che poca ve ne poteano mettere. Pur con moneta e furtivamente vi se ne mettea; infino che 'l fosso non fu richiuso e fatte le bertesche: e dipoi più non vi se ne poté mettere; però che chi ve ne portava era preso, e tagliatoli il naso, e a chi i piedi. E per questo sbigottirono per modo, che niuno vittuaglia più mettervi non ardiva. I signori e governatori della terra non la voleano abbandonare, siccome uomini che speravano difendersi. I Pisani gli aiutavano con danari, ma non con persone. Messer Tolosato Uberti e Agnolo di messer Guiglielmino, rettori, per mancamento di vittuaglia ne mandorono fuori tutti i poveri, e fanciulli, e donne vedove, e quasi tutte l'altre donne, di vile condizione. Dè quanto fu, questa, crudelissima cosa a sostenere nell'animo de' cittadini! vedersi condurre le loro donne alle porti della città, e metterle nelle mani de' nimici, e serrarle di fuori! E chi non avea di fuori potenti parenti, o che per gentileza fusse ricolta, era da nimici vituperata. E gli usciti di Pistoia, conoscendo le donne e' figliuoli de' loro nemici, ne vituperorono assai: ma il Duca molte ne difese. Il nuovo papa Clemente V° a petizione del cardinale Niccolao da Prato, comandò al duca Ruberto e a' Fiorentini si levassono dall'assedio di Pistoia. Il duca ubbidì e partissi: i Fiorentini vi rimasono, e elessono per capitano messer [...] de' Gabrielli d'Agobbio; il quale niuna piatà avea de' cittadini di Pistoia. I quali, dentro alla terra, constrigneano le lagrime e non dimostravano le loro doglie, perché vedeano era di bisogno di così fare per non morire. Sfogavansi contro a' loro adversari: quando alcuno ne prendeano, crudelmente l'uccideano. Ma la gran piatà era di quelli eran guasti nel campo: che co' piè mozzi li ponieno appiè delle mura, acciò che i loro padri, fratelli o figlioli li vedessono: e non li poteano ricevere né aiutare, perché la Signoria non li lasciava, acciò che gli altri non ne sbigotissono, né non li lasciavano di sulle mura vedere da' loro parenti e amici. E così morivano i buoni cittadini pistolesi, che da' nimici erano smozzicati e cacciati verso la loro tribolata e afflitta città. Molta migliore condizione ebbe Soddoma e Gomorra, e l'altre terre, che profondarono in un punto e morirono gli uomini, che non ebbono i Pistolesi morendo in così aspre pene. Quanto gli assalì l'ira d'Iddio! Quanti e quali peccati poteano avere a così repente giudicio? Quelli che erano all'assedio, di fuori, sosteneano male assai per lo tenpo cattivo, e per lo male terreno, e per le spese grandi: e i loro cittadini gravavano forte, e spogliavano i Ghibellini e' Bianchi di moneta, per modo che molti ne consumorono. E per avere moneta ordinorono uno modo molto sottile, che fu una taglia che puosono a' cittadini, che si chiamò la Sega. E poneano a' Ghibellini e a' Bianchi tanto per testa il dì; a alcuni lire III, a altri lire II, a chi lire I, secondo che parea loro che potesse sopportare: e così avea la sua taglia colui che era a' confini, come chi era nella città. E a tutti i padri, che aveano figliuoli da portare arme, feciono certa taglia, se fra dì XX non si rappresentassono nell'oste. Mandavavi la città a sesti, e a mute di XX dì in XX dì. E tanto feciono i Fiorentini e' Lucchesi, che molti loro contadini distrussono, tenendoli senza paga; però che erano poveri, e convenìa loro stare con l'arme allo assedio di Pistoia. I governatori di Pistoia, che sapeano il segreto della vittuaglia, sempre la celavano, e a' forestieri, che serviano la terra con arme, ne davano, e agli altri utili uomini, discretamente, come bisogno n'aveano: perché si vedeano venire alla morte per fame. Quelli che sapeano la strettezza della vittuaglia, aveano duri partiti: e il loro pensiero era tenersi fino all'estremo, e allora dirlo al popolo, e armarsi tutti; come disperati gittarsi co' ferri in mano adosso a' nimici, e "O noi morremo per niente; o forse mancherà loro il cuore, e nasconderannosi, e gitteransi in fuga o in altri vili rimedi". E così diliberarono fare, quando al fine della vittuaglia si vedessono venire: e non lasciarono però la speranza dello scampo loro.
CAPITOLO XV
Gli amici de' Pistoiesi impetrano dal Pontefice la venuta di un Cardinale Legato in Toscana, che è Napoleone Orsini. Ciò determina i Neri a trattare con la città; la quale, ridotta agli estremi, si rende a patti, che poi non sono osservati. Sdegno del Legato, che va a Bologna (1306... - aprile).
Significarono i Pistolesi al Cardinale da Prato la loro miseria, e a altri loro segreti amici di fuori, li quali per loro procuravano. E tanto feciono, che in Corte fu eletto messer Napoleone Orsini cardinale, Legato in Toscana e nel Patriarcato d'Aquilea: e ciò si fece per soccorrere Pistoia, come terra di Chiesa. Il quale Cardinale subito si partì, e fra pochi dì giunse in Lonbardia. Iddio glorioso, il quale i peccatori batte e gastiga, e in tutto non li confonde, si mosse a pietà, e mandò nel cuore de' Fiorentini questo pensiero: "Questo signore ne viene, e giunto dirà: Questa terra è della Chiesa. E vorrà entrarvi; e noi verremo a scandolo con la Chiesa". E pensarono a venire a' rimedii. Perchè le cose si temono più da lunge che da presso, e pensa l'uomo molte cose; sì come quando una forteza o un castello si fa, molti sono che per diversi pensieri la temono, e poi che è fatta e compiuta, gli animi sono rassicurati e niente la temono; così da lunge temerono i Fiorentini il Cardinale, e da presso poco il curarono: benché ragionevolmente temere si dovea, sì per l'alteza della Chiesa, sì per la sua dignità, e sì perché era grande in Roma, e sì per la grande amicizia avea di Signori e di Comuni. E tanto temerono la sua venuta, che disposono cercare accordo in questo modo. Che eglino ebbono uno savio e buono frate di Santo Spirito, il quale mandorono a Pistoia a messer [...] de' Vergellesi, de' principali cittadini, assai suo amico. E parlando con lui, il frate li fece molte promesse speziali e generali per parte della Signoria di Firenze, profferendoli la terra rimarrebbe libera e salda nelle sue belleze, e le persone salve e le loro castella. Quando il cavaliere sentì questo, lo manifestò agli Anziani, i quali, udendo il frate e la balìa avea, conchiusono l'accordo; non sanza volontà di Dio, che le grandi e piccole cose dispone, e non volle in tutto disfare quella città. O pietosa clemenzia, come gli conducesti in estremo fine! ché solo uno dì aveano vittuaglia da vivere, e poi si convenìa la morte per fame palesare a' cittadini. Di ciò sia tu, santissima Maestà, in eterno lodata! ché il pane che mangiavano i buoni cittadini, i porci l'arebbono sdegnato! Fatto l'accordo innanzi la venuta del Cardinale, la porta s'aperse a dì X d'aprile 1306; e tal cittadino vi fu, che per fame patita mangiò tanto, ch'egli scoppiò. I Neri di Firenze presono la terra, e non observorono loro i patti: perché tanto li strinse la paura che a loro non convenisse renderla, che subito sanza alcuno intervallo gittorono le mura in terra, che eran bellissime. Il Cardinale Legato, udite le novelle di Pistoia, fortemente si turbò; perché si credea esser tale, che rimedio v'arebbe posto. Andossene a Bologna, e quivi fece sua risidenzia.
CAPITOLO XVI
Condizioni di Parte guelfa di là dell'Appennino, dopo aver Gilberto da Correggio, signore di Parma, procurata (gennaio 1306) la ribellione di Reggio e Modena al marchese di Ferrara.
Parma, Reggio e Modona s'erano rubellate dal marchese di Ferrara; il quale, per troppa tirannia facea loro, Idio non lo vi volle più sostenere: ché quando fu più inalzato, cadde. Perché avea tolto per moglie la figliuola del re Carlo di Puglia; e perché condiscendesse a dargliele, la comperò, oltre al comune uso, e fecele di dota Modona e Reggio: onde i suoi fratelli e i nobili cittadini sdegnorono entrare in altrui fedeltà: e più vi s'aggiunse la nimistà d'uno potente cavaliere di Parma, chiamato messer Ghiberto, il quale il Marchese cercava cacciare per tradimento; ma il cavaliere dié gran conforto a' cittadini di quelle due terre di rubellarsi, e con gente e con arme li liberò di servitù.
CAPITOLO XVII
Bologna, già (marzo 1306) divenuta nera e cacciati i Bianchi e i Ghibellini, caccia poco stante lo stesso Legato. Questi, dopo tentati inutilmente i Neri di Firenze, fa in Arezzo una radunata di forze bianche e ghibelline, la quale, per sua o dappocaggine o tristizia, va a male, ed è l'ultima che i fuorusciti facciano (maggio 1306 - luglio 1397).
Stando il Legato in Bologna, i Bolognesi rivolti cacciorono fuori i loro nimici. Credette pacificarli. I Fiorentini con danari e con conforto feciono tanto, che gli apposono colpa d'uno trattato, e di tradimento; e vilmente e con vergogna lo cacciorono di Bologna, e morto vi fu un suo cappellano. Andò in Romagna per entrare in Furlì: i Fiorentini gliel negorono. Andossene ad Arezo, e con lettere e imbasciate cercò umiliarli, e non poté. Il Cardinale, essendo in Arezo, raunò gente assai e fecevisi forte, perché intese i Neri di Firenze v'andrebbono a oste. Vennevi in suo aiuto il Marchese della Marca, e molti gentili uomini di là, e molti Guelfi bianchi e Ghibellini di Firenze, e molti cavalli da Roma e da Pisa e da molti cherici di Lombardia; che in tutto si ragionava che fossono cavalli IjmCCCC° scelti. Andoronvi i Neri di Firenze, ma con molto sospetto; ma non si advicinorono ad Arezo: tennono la via in verso Siena; poi si rivoltorono per una montagna, e entrorono su quel d'Arezo, dove disfeciono molte fortezze degli Ubertini. Al piano non discesono, perché i passi poteano esser loro contesi; e battaglia non si prese, perché i Neri forte ne dubitavano. I nimici loro confortavano il Cardinale si pigliasse la battaglia, mostrando avere gran vantaggio e la vittoria certa. Il Cardinale mai nol consentì, né che andassono a prendere i passi, o tòrre loro vittuaglia al partire: e però i Neri, senza alcuno dubbio o offesa, se ne tornorono a Firenze. Molto fu biasimato il Cardinale, de l'averli lasciati andare sicuri; e per molti si disse che l'avea fatto per danari, o per promessa li fusse fatta da loro d'ubbidirlo e d'onorarlo: o vero, che messer Corso Donati gli avesse promessi fiorini IIIjm e darli la terra; et egli venisse da quella parte con la sua gente, per poterli levare da oste, e avere i danari e non li dare la terra. La gente che in aiuto erano venuti al Cardinale, sconsolati si partirono, perché vedeano il partito vinto; e aveano speso assai sanza alcuno frutto, credendosi racquistare la terra loro. E mai si raunoron più.
CAPITOLO XVIII
Il Cardinale, abbandonato dai Bianchi, è dileggiato dai Neri e da essi tenuto a bada con finti negoziati di pace, finché vien rimosso dalla legazione. Discordie di Parte ghibellina in Arezzo (ultimi del 1307 - 1308).
I Neri, beffando il Cardinale, cercorono per più vie vituperarlo, mostrando volerli ubbidire. E ritornati in Firenze, vi mandorono ambasciadori messer Betto Brunelleschi e messer Geri Spini; i quali il faceano volgere e girare a lor modo, traendo da lui grazie, e pareano i signori della sua corte. E tanto li feciono mandare a' Signori un frate Ubertino, e tanti modi e tante cagioni trovavano e opponeano da un punto a un altro, che aspettorono i nuovi Signori, che speravano fussono loro più favorevoli. Alcuni diceano che il Legato tenea i Neri giusti uomini, e fermamente dicea agli amici che pace sarebbe. Non fu mai femmina da ruffiani incantata e poi vituperata, come costui da quelli due cavallieri: e del più giovane fu detto, che più sottilmente seguitava l'opera, tenendo il Cardinale a parole, seguendo trattati di pace: nel quale buon pezzo dimororono, per lo parlare che facea. Infine, per infamia data in Corte al Cardinale, fu rimosso dalla legazione; e con poco onore, andò a Roma. I savi uomini s'avidono che gl'inbasciadori stavano in Arezo per mettere scandolo tra gli Aretini. E Uguccione da Faggiuola co' Magalotti e con molti nobili seminorono tanta discordia in Arezo, che come nimici stavano i potenti Ghibellini; ma pur poi s'atutorono.
CAPITOLO XIX
Si riaccendono le discordie de' Neri fiorentini, tra la fazione di Corso Donati e quella di Rosso della Tosa. Corso si apparecchia alle offese (1308, ...ottobre).
Sì come nasce il vermine nel saldo pome, così tutte le cose che sono create a alcun fine, conviene che cagione sia in esse che al loro fine termini. Fra i Guelfi neri di Firenze, per invidia e per avarizia, una altra volta nacque grande scandolo. Il qual fu, che messer Corso Donati, parendoli avere fatta più opera nel racquistare la terra, gli parea degli onori e degli utili avere piccola parte o quasi nulla: però che messer Rosso dalla Tosa, messer Pazino de' Pazi, messer Betto Brunelleschi e messer Geri Spini, con loro seguaci, di popolo, prendevano gli onori, servivano gli amici, e davano i risponsi, e faceano le grazie: e lui abbassarono. E così vennono in grande sdegno negli animi: e tanto crebbe, che venne in palese odio. Messer Pazino de' Pazi fece un dì pigliare messer Corso Donati, per danari dovea avere da lui. Molte parole villane insieme si diceano, per volere la signoria sanza lui; perché messer Corso era di sì alto animo e di tanta operazione, che ne temeano, e parte contentevole non credevano che dare gli si potesse. Onde messer Corso raccolse gente a sé di molte guise. Gran parte ebbe de' Grandi, però che odiavano i popolani pe' forti Ordinamenti della Giustizia fatti contro a loro; i quali promettea annullare. Molti n'accolse, che speravano venire sì grandi con lui che in signoria rimarrebbono; e molti con belle parole, le quali assai bene colorava; e per la terra diceva: "Costoro s'appropriano tutti gli onori; e noi altri, che siamo gentili uomini e potenti, stiamo come strani: costoro ànno gli scherigli, i quali li seguitano: costoro ànno i falsi popolani, e partonsi il tesoro, del quale noi, come maggiori, dovremo esser signori". E così svolse molti degli adversari, e recò a suo animo; de' quali furono i Medici e' Bordoni, i quali li soleano esser nimici, e sostenitori di messer Rosso dalla Tosa. Quando rifatta ebbe sua congiura, cominciarono a parlare più superbamente nelle piazze e ne' consigli; e se niuno si opponea loro, li faceano senbiante di nimico. E tanto s'accese il fuoco, che, di concordia della congiura, i Medici e i Bordoni, e altri a ciò ordinati, assalirono lo Scambrilla per ucciderlo, e fedironlo nel viso in più luoghi: onde gli adversarii tennon che fatto fusse in loro dispetto; molto il vicitarono, e molte parole dissono; e guarito che fu, li dierono fanti alle spese del Comune, confortandolo che gran vendetta ne facesse. Questo Scambrilla era potente della persona, e per l'amistà di coloro cui egli seguiva: non era uomo di grande stato, ché era stato soldato. Crescendo l'odio per le superbe parole erano tra quelli della congiura e gli altri, si cominciò per ogni parte a invitare gente e amici. I Bordoni aveano gran seguito da Carmignano, e da Pistoia, e dal Monte di sotto, e da Taio di messer Ridolfo grande uomo di Prato, e dagli uomini di sua casa e di suo animo, tanto che a' congiurati prestò grande aiuto. Messer Corso avea molto inanimati i Lucchesi, mostrando le rie opere de' suoi adversarii e i modi ch'eglino usavano; i quali, veri o non veri, lui sapea ben colorare. Tornato in Firenze, ordinò che un giorno nominato fussono tutti armati, e andassono al palagio de' Signori, e dicessono che al tutto voleano che Firenze avesse altro reggimento; e con queste parole, venire all'arme.
CAPITOLO XX
La Parte di Rosso si solleva. La Signoria cita e sbandisce i Donati e i Bordoni. Essi si afforzano e sono combattuti. Loro fuga (6 ottobre 1308).
Messer Rosso e' suoi seguaci sentirono le invitate, e le parole si diceano, e aparecchiare l'arme: con irato animo, tanto s'accesono col parlare, che non si poterono ritrarre dal furore. E una domenica mattina, andorono a' Signori; i quali raunorono il Consiglio, e presono l'arme, e feciono richiedere messer Corso e' figliuoli e i Bordoni. La richiesta e il bando si fece a un tratto; e subito condannati. E il medesimo dì, a furore di popolo, andorono a casa messer Corso. Il quale alla piaza di San Piero Maggiore s'asserragliò e afforzò con molti fanti; e corsonvi i Bordoni, con gran seguito, vigorosamente, e con pennoni di loro arme. Messer Corso era forte di gotti aggravato, e non potea l'arme; ma con la lingua confortava gli amici, lodando e inanimando coloro che valentemente si portavano. Gente avea poca, ché non era il dì ordinato. Gli assalitori erano assai, perché v'erano tutti i gonfaloni del popolo, co' soldati e con li sgarigli a' serragli, e con balestra, pietre e fuoco. I pochi fanti di messer Corso si difendeano vigorosamente, con lancie, balestra e pietre, aspettando che quelli della congiura venisson in loro favore: i quali erano i Bardi, i Rossi, i Frescobaldi, e quasi tutto il Sesto d'Oltrarno; i Tornaquinci, i Bondalmonti salvo messer Gherardo; ma niuno si mosse, né fece vista. Messer Corso, vedendo che difendere non si potea, diliberò partirsi. I serragli si ruppono: gli amici suoi si fuggivano per le case; e molti si mostravano essere degli altri, che erano di loro. Messer Rosso, e messer Pazino, e messer Geri, e Pinaccio, e molti altri, pugnavano vigorosamente a piè e a cavallo. Piero e messer Guiglielmino Spini, giovane cavalier novello, armato alla catalana, e Boccaccio Adimari e' figliuoli e alcun suo consorto, seguitandoli forte, giunsono Gherardo Bordoni alla Croce a Gorgo: assalironlo; lui cadde boccone; eglino, smontati, l'uccisono; e il figliuolo di Boccaccio gli tagliò la mano, e portossela a casa sua. Funne da alcuno biasimato; e disse lo facea, perché Gherardo avea operato contro a loro a petizione di messer Tedice Adimari, loro consorto e cognato del detto Gherardo. I fratelli scanparono; e il padre rifuggì in casa i Tornaquinci, ché era vecchio.
CAPITOLO XXI
Morte di Corso Donati. Sue qualità (6 ottobre 1308...).
Messer Corso, infermo per le gotti, fuggìa verso la badìa di San Salvi, dove già molti mali avea fatti e fatti fare. Gli sgarigli il presono, e riconobberlo: e volendolne menare, si difendeva con belle parole, sì come savio cavaliere. Intanto sopravenne uno giovane cognato del mariscalco. Stimolato da altri d'ucciderlo, nol volle fare; e ritornandosi indietro, vi fu rimandato: il quale la seconda volta li dié d'una lancia catelanesca nella gola, e uno altro colpo nel fianco; e cadde in terra. Alcuni monaci ne 'l portorono alla badia; e quivi morì, a dì [...] di settenbre 1307, e fu sepulto. La gente cominciò a riposarsi, e molto si parlò della sua mala morte in varii modi, secondo l'amicizia e inimicizia: ma parlando il vero, la sua vita fu pericolosa, e la morte reprensibile. Fu cavaliere di grande animo e nome, gentile di sangue e di costumi, di corpo bellissimo fino alla sua vecchieza, di bella forma con dilicate fattezze, di pelo bianco; piacevole, savio e ornato parlatore, e a gran cose sempre attendea; pratico e dimestico di gran signori e di nobili uomini, e di grande amistà, e famoso per tutta Italia. Nimico fu de' popoli e de' popolani, amato da' masnadieri, pieno di maliziosi pensieri, reo e astuto. Morto fu da uno straniero soldato così vilmente; e ben seppono i consorti chi l'uccise, ché di subito da' suoi fu mandato via. Coloro che uccidere lo feciono furon messer Rosso dalla Tosa e messer Pazino de' Pazi, che volgarmente per tutti si dicea: e tali li benediceano, e tali il contrario. Molti credettono, che i due detti cavalieri l'avesson morto; e io, volendo ricercare il vero, diligentemente cercai e trovai così esser vero.
CAPITOLO XXII
Relazioni in che trovavasi, a questo punto, il Comune di Firenze con la Chiesa; scomunica della città; elezione di nuovo vescovo, e maneggi de' Neri per essa (... - estate del 1309).
La santa Chiesa di Roma, la quale è madre de' cristiani quando i rei pastori non la fanno errare, divenuta in basseza per la reverenzia de' fedeli minuita, richiese i Fiorentini, e fermò processo di scomunicazione, e sentenzia dié contro a loro; e scomunicò gli uficiali, e intradisse la terra, e tolse l'uficio santo a' secolari. I Fiorentini mandoro ambasciadori al Papa. Morì il vescovo Lottieri dalla Tosa: chiamato ne fu per simonia uno altro, di vile nazione, animoso in parte guelfa, e nel vulgo del popolo, ma non di santa vita. Molto ne fu biasimato il Papa, e a gran torto, perché i mali pastori son alcuna volta conceduti da Dio pe' peccati del popolo, secondo il filosafo. Molto si procurò in Corte con promesse e con denari: altri ebbe le voci, e altri la moneta; ma lui ebbe il vescovado. Uno calonaco fu eletto vescovo da' calonaci. Messer Rosso e gli altri Neri lo favoreggiavano, perché era di loro animo, pensando volgerlo a suo modo. Andò in Corte, e spese danari assai, e il vescovado non ebbe.
CAPITOLO XXIII
Vacando l'Impero, la Chiesa, per iscuoter da sé la tirannide del re di Francia, e lo scredito che questa le attira, procura la elezione d'un buon Imperatore. E' eletto Arrigo conte di Lussemburgo (... - 27 novembre 1308).
Vacante lo Imperio per la morte di Federigo secondo, coloro, che a parte d'Imperio attendeano, tenuti sotto gravi pesi, e quasi venuti meno in Toscana e in Cicilia, mutate le signorie, la fama e le ricordanze dello Imperio quasi spente, lo Imperadore del cielo provide e mandò nella mente del Papa e de' suoi Cardinali, di riconoscere come erano invilite le braccia di santa Chiesa, che i suoi fedeli quasi non la ubbidivano. Il re di Francia, montato in superbia perché da lui era proceduta la morte di papa Bonifazio; credendo che la sua forza da tutti fusse temuta; faccendo per paura eleggere i cardinali a suo modo, addomandando l'ossa di papa Bonifazio fussono arse, e lui sentenziato per eretico; tenendo il Papa quasi per forza; opponendo e disertando i giudei, per tòrre la loro moneta; appognendo a' Tempieri resìa, minacciandoli; abassando gli onori di santa Chiesa; sì che per molte cose rinnovate nelle menti degli uomini la Chiesa non era ubbidita; e non avendo braccio né difenditore, pensarono fare uno imperadore, uomo che fusse giusto, savio e potente figliuolo di santa Chiesa, amatore della fede. E andavano cercando chi di tanto onore fusse degno: e trovarono uno che in Corte era assai dimorato, uomo savio, di nobile sangue, giusto e famoso, di gran lealtà, pro' d'arme e di nobile schiatta, uomo di grande ingegno e di gran temperanza; cioè Arrigo conte di Luzimborgo di Val di Reno della Magna, d'età d'anni XL, mezano di persona, bel parlatore, e ben fazionato, un poco guercio. Era stato questo conte in Corte, per procacciare un grande arcivescovado della Magna per un suo fratello. Il quale, avuto il detto beneficio, si partì: il quale arcivescovado avea una delle sette voci dello 'mperio. L'altre voci, per volontà di Dio, s'accordorono; e eletto fu Imperadore: il quale, per lunga vacazione dello Imperio, quasi si reputò niente a poter essere re.
CAPITOLO XXIV
Arrigo, tuttoché sconsigliato per opera de' Fiorentini, discende in Italia e si avvicina a Milano (novembre 1308 - dicembre 1310)
Il Cardinale da Prato, il quale molto avea favoreggiata la elezione sua credendo aiutare gli amici suoi e gastigare i nimici e gli adversari suoi, lasciò ogni altra speranza per minore, e attese all'altezza di costui. La cui elezione fu fatta a dì XVj di luglio 1309, e la confermazione, e bollate le lettere nel detto anno. Il quale, eletto e confermato, passò la montagna, giurato e promesso di venire per la corona all'agosto prossimo, come leale signore volendo observare suo saramento. Nel primo consiglio fu offeso da' Fiorentini, perché a' preghi loro l'arcivescovo di Maganza lo consigliava che non passasse, e che li bastava esser re della Magna, mettendoli in gran dubbio e pericolo il passare in Italia. Idio onnipotente, il quale è guardia e guida de' prencipi, volle la sua venuta fusse per abbattere e gastigare i tiranni che erano per Lombardia e per Toscana, infino a tanto che ogni tirannia fusse spenta. Fermossi l'animo dello Imperadore d'observare sua promessa, come signore che molto stimava la fede; e con pochi cavalli passò la montagna, per le terre del conte di Savoia, sanza arme, in però che il paese era sicuro; sì che al tenpo giurato, giunse in Asti. E là raccolse gente, e prese l'arme, e ammunì i suoi cavalieri; e venne giù, discendendo di terra in terra, mettendo pace come fusse uno agnolo di Dio, ricevendo la fedeltà fino presso a Milano; e fu molto impedito dal re Ruberto era in Lombardia.
CAPITOLO XXV
Arrigo, incamminato verso Pavia, è indotto da Matteo Visconti a rivolgersi a Milano, con poca sodisfazione di Guido della Torre (dicembre 1310).
Giunto lo Imperadore su uno crocicchio di due vie, che l'una menava a Milano, l'altra a Pavia, uno nobile cavaliere, chiamato messer Maffeo Visconti da Milano, alzò la mano e disse: "Signore, questa mano ti può dare e tòr Milano: vieni a Milano, dove sono gli amici miei, però che niuno ce la può tòrre: se vai verso Pavia, tu perdi Milano". Era messer Maffeo stato più anni rubello di Milano, e era capitano quasi di tutta Lombardia; uomo savio e astuto più che leale. Di Melano era allora capitano e signore messer Guidotto dalla Torre leale signore, ma non così savio. Quelli dalla Torre erano gentili uomini e d'antica stirpe; e per loro arme portavan una torre nella metà dello scudo dal lato ritto, e dall'altro lato due gigli incrocicchiati; e eran nimici de' Visconti. Il signore mandò un suo maliscalco a Milano, che era nato di quelli dalla Torre, e molte parole amichevoli usò con messer Guidotto, mostrandoli la buona volontà del signore: ma messer Guidotto pur dubitava della sua venuta, e temea di perdere la signoria, e non li parea per sua difesa pigliare la guerra. Fece tutti i suoi soldati vestire di partita di campo bianco e una lista vermiglia; fece disfare molti ponti di lunge dalla terra. Lo Imperadore, con piano animo, tenne il consiglio di messer Maffeo Visconti, e dirizossi verso Milano, e lasciò Pavia da man ritta. Il conte Filippone, signore di Pavia, con gran benivolenzia mostrava aspettarlo e onorarlo in Pavia. Lo Imperadore, tegnendo la via verso Milano, passò il Tesino a guado, e per lo distretto cavalcò sanza contasto. I Milanesi gli vennero incontro. Messer Guidotto, veggendo tutto il popolo andarli incontro, si mosse anche lui: e quando fu apresso a lui, gittò in terra la bacchetta, e smontò ad terra, e baciogli il piè; e come uomo incantato, seguitò il contrario del suo volere.
CAPITOLO XXVI
Arrigo entra e pacifica Milano. Sua incoronazione e corte (dicembre 1310 - gennaio 1311).
Con gran festa fu ricevuto dal popolo in Milano; e pacificò messer Guidotto e messer Maffeo, insieme co' loro seguaci, e molte altre belle cose fece e più parlamenti: e più lettere mandò nella Magna, avendo novelle che 'l suo figliuolo era coronato re di Buemia, e avea preso donna di nuovo, di che ebbe molta allegreza. Avea lo Imperadore per antica usanza di prendere la prima corona a Moncia: per amore de' Milanesi, e per non tornare indietro, prese la corona del ferro, lui e la donna sua, in Milano, nella chiesa di Santo Anbruogio, la mattina della pasqua di Natale a dì XXV di dicembre 1310. La quale corona era di ferro sottile, a guisa di foglie d'alloro, forbita e lucida come spada, e con molte perle grosse e altre pietre. Grande e orrevole corte tenne in Milano; e molti doni fece la Imperadrice la mattina di calen di gennaio 1310 ai suoi cavalieri. Parte guelfa o ghibellina non volea udire ricordare. La falsa fama l'accusava a torto: i Ghibellini diceano: "E' non vuole vedere se non Guelfi"; e i Guelfi diceano: "E' non accoglie se non Ghibellini": e così temeano l'un l'altro. I Guelfi non andavano più a lui: e i Ghibellini spesso lo visitavano, perché n'aveano maggior bisogno; per l'incarichi dello Imperio portati, parea loro dovere aver miglior luogo. Ma la volontà dello Imperadore era giustissima, perché ciascuno amava, ciascuno onorava, come suoi uomini. Quivi vennono i Cremonesi a fare la fedeltà in parlamento con animo chiaro: quivi i Genovesi, e presentaronlo; e per loro amore a gran festa mangiò in scodella d'oro. Il Conte Filippone stava in corte; messer Manfredi di Beccheria, messer Antonio da Foscieraco signore di Lodi, e altri signori e baroni di Lonbardia, gli stavano dinanzi. La sua vita non era in sonare, né in uccellare, né in sollazzi, ma in continui consigli, assettando i vicari per le terre, e a pacificare i discordanti.
CAPITOLO XXVII
Malcontento e tumulti in Milano. Cacciata de' Torriani; trionfo de' Visconti. L'Imperatore lascia la città, affidandola a Matteo Visconti e al Vicario imperiale (1311, gennaio - aprile).
I Milanesi aveano stanziati danari per donare allo Imperadore; e a raunarli, nel consiglio ebbe rampogne tra quelli dentro e gli usciti ritornati. Messer Guido avea due figliuoli, i quali si cominciavano a pentere di quanto il padre avea fatto, e udivano le parole de' lamentatori di lor parte. Lo Imperadore fece uno pensiero: di trarre alcuni dell'una parte e dell'altra de' più potenti, e menarsegli seco; e tali confinare. I figliuoli di messer Mosca, che l'uno era arcivescovo, cugini di messer Guidotto, divenuti nimici per gara, il perché lui li tenea in prigione, lo Imperadore gliene fece trarre, e rappacificogli insieme. Ma i figliuoli di messer Guidotto non ressono; e un dì appensatamente richiesono loro amici e, ricominciato l'odio, in uno consiglio si svillaneggiorono di parole; le quali ingrossorono per modo che presono l'arme e abbarroronsi nel Guasto di quelli dalla Torre. Il romore fu grande: il mariscalco dello Imperadore vi trasse, [e] messer Galeazzo figliuolo di messer Maffeo Visconti; e [messer Maffeo] trasse a piè con lo Imperadore. Il maliscalco andò al serraglio con LX cavalli, e ruppelo, e la gente mise in fuga. Messer Guidotto era malato di gotte; fu trasportato in altra parte: dissesi che scampato era nelle forze del Dalfino. I figliuoli rifuggirono a un loro castello presso a Como, e di lunge a Milano XX miglia. Tutti i loro arnesi furono rubati. E così si cambiò la festa; ma non l'amore dello Imperadore: però che volle loro perdonare; ma non se ne fidorono. E allor cominciò a sormontare messer Maffeo Visconti, e quelli dalla Torre e i loro amici abbassare. Il sospetto crebbe più che l'odio. Lo Imperadore raccomandò la terra a messer Maffeo, e per vicario vi lasciò messer Niccolò Salinbeni da Siena, savio e virile cavaliere, e addorno di belli costumi, magnanimo e largo donatore.
CAPITOLO XXVIII
Ribellione di Cremona dall'Imperatore, alla quale dànno aiuto i Neri di Firenze. Arrigo cavalca verso Cremona, v'entra, e imprigiona i ribelli (1311,... - maggio).
Il Nimico, che mai non dorme ma sempre semina e ricoglie, mise discordia in cuore a' nobili di Cremona di disubidire: e due fratelli, figliuoli del marchese Cavalcabò, n'erano signori, e messer Sovramonte degli Amati, un savio cavaliere quasi loro adversario per gara d'onori, vi s'accordorono; e a ciò lettere de' Fiorentini e falsi instigamenti: gridorono contro allo Imperadore, e cacciaron il suo vicario. Lo Imperadore, ciò sentendo, non cruccioso, come uomo di grande animo, gli citò; non l'ubbidirono, e rupponli fede e saramento. I Fiorentini vi mandorono subito uno anbasciadore per non lasciare spegnere il fuoco; il quale proferse loro aiuto di gente e di danari: il che i Cremonesi accettorono, e afforzorono la terra. Lo Imperadore cavalcò verso Cremona. Gli ambasciadori di là li furono a' piedi, dicendo come non potean portare l'incarichi eran loro posti, e che eran poveri, e che sanza vicario il voleano ubbidire. Lo Imperadore non rispondendo, furono ammaestrati per lettere segrete che se volessono perdono, vi mandassono assai de' buoni cittadini a domandare merzè, però che lo Imperadore volea onore. Mandoronne assai, e scalzi, con niente in capo, in sola gonnella, con la coreggia in collo, e dinanzi a lui furono a domandare merzè. A' quali non parlò: ma eglino senpre chieggendo perdono, lui sempre cavalcava verso la città: e giunto, trovò aperta la porta, nella quale entrò: e ivi si fermò, e mise mano alla spada e fuori la trasse, e sotto quella li ricevette. I grandi e potenti, colpevoli, e il nobile cavalier fiorentino messer Rinieri Buondalmonti, lì podestà, si partirono avanti che lo Imperadore venisse: il quale podestà vi fu mandato per mantenerli contro allo Imperadore. Il quale fece prendere tutti i potenti vi rimasono, e messer Sovramonte, che per troppo senno o per troppa sicurtà non fuggì, e prender fece tutti coloro che gli andarono a chiedere merzè; e ritenneli in prigione. La terra riformò, la condannagione levò loro, e' prigioni mandò a Riminingo.
CAPITOLO XXIX
Ribellione di Brescia, e assedio. Arrigo l'ha, dopo lunga guerra, a patti (1311, ... - ottobre).
Dimorando lo Imperadore in Cremona, i Bresciani, i quali avean fatti i suoi comandamenti e ricevuto il suo vicario, messer Tibaldo Brociati e messer Maffeo di Maggio capi ciascuno d'una parte, messer Maffeo, che prima tenea la terra, per ubidire dipose la signoria nella volontà dello Imperadore. Messer Tibaldo, che dallo Imperadore fu beneficiato, perché prima andava cattivando per Lonbardia, povero, co' suoi seguaci, e da lui fu rimesso nella città, il tradì. Perché, mandando da Cremona pe' cavalieri che venissono a ubidirlo, vi mandò della parte di messer Maffeo tutti quelli aveano ubbidito. Il quale, quando se ne avide, mandò per alcuni nominatamente; i quali non vennono: feceli citare sotto termine e pena; e anche non vennono. Lo Imperadore, intendendo la loro malizia, con pochi appresso uscì della camera, e fecesi cignere la spada, e dirizossi col viso verso Brescia, e la mano pose alla spada, e meza la trasse della guaina, e maladì la città di Brescia. E riformò la città di Cremona di vicario. A dì XII di maggio 1311 lo Imperadore con sua gente cavalcò a Brescia, e con gran parte de' Lonbardi, e conti e signori. E posevi l'assedio, perché così fu consigliato; ch'ella non si potea tenere, perché non erano proveduti di vittuaglia, e erano nella fine della ricolta: "e veggendo il campo posto, la gente si arrenderà tosto; e se tu la lasci, tutta la Lonbardia è perduta, e tutti i tuoi contrarii quivi faranno nidio; e questa fia vettoria da fare tutti gli altri temere". Fermò l'assedio: mandò per maestri; ordinò edificii e cave e coverte; e molti palesi segni fece da combattere. La città era fortissima e popolata di pro' gente, e dal lato del monte avea una forteza, e tagliato il poggio: la via non potea esser loro tolta d'andare a quella forteza; la città era forte a conbatterla. Quivi si stette un giorno, pensando assalirla di verso la Magna; però che avutala, la città era vinta. Messer Tibaldo, volendo soccorrere, andò là; e, per giustizia di Dio, il cavallo incespicò e cadde: e fu preso, e menato allo Imperadore, della cui presura molto si rallegrò. E fattolo esaminare, in su uno cuoio di bue il fe' strascinare intorno alla città, e poi li fe' tagliare la testa, e il busto squartare. E gli altri presi fece impiccare. Così incrudelirono quelli dentro inverso quelli di fuori: ché quando ne pigliavano uno, lo ponieno su' merli, acciò fusse veduto; e ivi lo scorticavano, e grande iniquità mostravano: e se presi erano di quelli dentro, erano da quelli di fuori impiccati. E così, con edificii e balestra, dentro e di fuori, guerreggiavano forte l'uno l'altro. La città non si potea tanto strignere con assedio, che spie non v'entrassono mandate da' Fiorentini, i quali con lettere gli confortavano, e mandavano danari. Un giorno messer Gallerano, fratello dello Imperadore, grande di persona, bello del corpo, cavalcava intorno alla terra per vederla, sanza elmo in testa, in uno giubbetto vermiglio. Il quale fu fedito d'un quadrello sul collo, per modo che pochi dì ne visse: acconcioronlo alla guisa de' signori, e a Verona fu portato, e quivi fu onorato di sepultura. Molti conti, cavalieri e baroni vi morirono, tedeschi e lonbardi: assai v'infermarono, perché l'assedio durò fino a dì XVIII di settembre. A dì XVIIII di settenbre 1311; perché il luogo dove era il campo era disagiato, e 'l caldo grande, la vettuaglia venìa di lunge, e' cavalieri erano gentili; e dentro alla terra ne morivano assai di fame e di disagio, per le guardie si convenia loro fare, e pe' sospetti grandi; per mezanità di tre cardinali, stati mandati dal Papa allo Imperadore, i quali furono messere d'Ostia, messere d'Albano e messere dal Fiesco, si praticò accordo tra lo Imperadore e i Bresciani, di darli la terra, salvo l'avere e le persone: e arrenderonsi a' detti cardinali. Lo imperadore entrò nella terra, e attenne loro i patti. Fece disfare le mura, e alquanti Bresciani confinò, e dall'assedio si partì con molti meno di suoi cavalieri, che vi morirono, e molti se ne tornoron indietro malati.
CAPITOLO XXX
Arrigo passa a Pavia e a Genova, dove è molto onorato; ivi gli muore la moglie (1311, ottobre -dicembre).
Partissi lo Imperadore da Brescia, e andonne a Pavia, per una discordia nata tra quelli di Beccheria e messer Riccardino, figliuolo del conte Filippone, per cagione che morì il vescovo di Pavia, e ciascun volea la nuova elezione; e tanta fu, che quelli di Beccheria uccisono IIII de' loro adversari. Il vicario con messer Riccardino pugnorono con quelli di Beccheria, per modo che li caccioron fuori della terra, e tolsono loro le loro castella di fuori. Lo imperadore, parendoli avere perduto assai tenpo, cavalcò inverso Genova, la quale tenea messer Branca d'Oria; dove giunse a dì XXI d'ottobre 1311. Dal quale onoratamente fu ricevuto; e giurò ubidienzia. Messer Obizino Spinola, capo dell'altra parte, che era rubello, li si fece innanzi, e con gran reverenzia l'onorò. Arbitrossi per li savi uomini, che la divisione delle due parti lo facesse tanto onorare, perché lo feciono a gara. Ma i Genovesi di loro natura sono molto altieri e superbi e discordanti tra loro; ché il re Carlo vecchio mai li poté raccomunare. Né non si credette mai che, non che lo ricevessono per signore, per loro superbia, ma che li dessono pure il passo: "perché i cittadini sono sdegnosi, la riviera è aspra, i Tedeschi sono dimestichi con le donne, i Genovesi ne sono ghignosi: zuffa vi sarà". Iddio, che regge e governa i principi e' popoli, gli ammaestrò: e inchinate le loro volontà, saviamente, come nobili uomini, l'onororono e ritennono in quella città più mesi. Nel qual tempo la morte, la quale a niuno non perdona né per lunga termine, per volontà di Dio partì dal mondo la nobile Imperadrice, con nobilissima fama di gran santità di vita onesta, ministra de' poveri di Cristo. La quale fu seppellita con grande onore, a dì XII di novenbre, nella chiesa maggiore di Genova.
CAPITOLO XXXI
Gilberto da Correggio, con l'aiuto de' Fiorentini, ribella Parma e Reggio all'Imperatore, e gli ritoglie Cremona, dove rauna fuorusciti di Milano e di Brescia. La Lombardia novamente sconvolta (ottobre 1311 - gennaio 1312).
I Fiorentini in tutto li si scopersono nimici in procurare la ribellione delle terre di Lonbardia. Corruppono per moneta e per promesse con lettere messer Ghiberto, signore di Parma, e dieronli fiorini XVm, perché tradisse lo Imperadore e rubellasseli la terra. Dè quanto male si mise a fare questo cavaliere, il quale da lui avea ricevute di gran grazie in così poco tempo! Ché donato gli avea il bel castello di san Donnino, e uno altro nobile castello, il quale tolse a' Cremonesi e dié a lui, il quale era sulla riva di Po; e la bella città di Reggio gli avea data in guardia, credendo che fusse fedele e leale cavaliere. Il quale, armato sulla piazza di Parma, gridò: "Muoia lo Imperadore!", e il suo vicario cacciò fuori della terra, e i nimici accolse. Coprivasi con false parole, dicendo che non per danari il facea, ma perché il marchese Palavisino avea rimesso in Cremona, il quale tenea per suo nimico. Premeano i Fiorentini i loro poveri cittadini, togliendo loro la moneta, la quale spendevano in così fatte derrate. E tanto procurorono, che messer Ghiberto rimise gli adversari dello Imperadore in Cremona; però che gli ritenea e afforzò sulla riva di Po: e un giorno cavalcò contro messer Galasso, che era alla guardia di Cremona in servigio de' Bresciani forse con C cavalli; e entrarono nella terra, e tanti con loro se ne appoggiorono, che pochi fedeli dello Imperadore vi rimasono: a' quali convenne votar la terra. Messer Guidotto dalla Torre co' cavalieri accolti di Toscana vi cavalcò. La terra afforzarono di fossi e di palizzi. Il conte Filippone contra lo Imperadore stava con animo iroso, e cercava parentado con messer Ghiberto e congiura e lega. Gli usciti di Brescia si raunorono con loro. Però che a quello che perdonò l'umiltà dello Imperadore, non perdonò Iddio: ché la parte di messer Tebaldo Bruciato, ricevuto il perdono dello Imperadore, una altra volta gli volle ritòrre la terra; onde l'altra parte, avuto più tosto il soccorso, con l'arme in mano, di Brescia e del contado gli cacciò. Dè quanta malizia multiplicò intra' Lonbardi in picciol tempo, in uccidersi tra loro, e rompere il saramento dato.
CAPITOLO XXXII
Artifizi e provvedimenti usati dai Neri Fiorentini contro l'Imperatore presso il Re di Francia e il Papa, servendosi specialmente presso quest'ultimo del cardinale Pelagrù, Legato pontificio a Bologna per la guerra di Ferrara (1312, 1311, 1310).
I Fiorentini che erano in Firenze, pieni di temenza e di paura, non attendeano a altro che a corrompere i signori de' luoghi con promesse e con danari; i quali traevano da' miseri cittadini, che per mantenere libertà se li lasciavano tòrre a poco a poco. Molti ne spesono in rie opere. La lor vita non era in altro che in simili cose. I Signori feciono messi segreti. Fra' quali fu uno frate Bartolomeo, figliuolo d'uno canbiatore, uomo astuto, uso in Inghilterra, e in sua giovineza costumato, e di sottile ingegno. Mandaronlo in Corte a tentare il papa e' cardinali. E con lettere portò messer Baldo Fini da Fighine, tentarono il re di Francia. Al quale disse il cardinale d'Ostia: "Quanto grande ardimento è quello de' Fiorentini, che con loro X lendini ardiscono tentare ogni signore!". Al Papa mandorono due anbasciadori, che furono messer Pino de' Rossi e messer Gherardo Bostichi, due valenti cavalieri: molti danari furono loro sottratti, e molti ne perderono, e dal Papa non ebbono cosa volessono. Il Cardinale Pelagrù, nato di Guascogna, nipote del Papa, fu mandato Legato a Bologna; perché, essendo morto il marchese di Ferrara, un suo figliuolo bastardo tenea la terra: la quale non potendo tenere, si patteggiò co' Viniziani, e vendella loro. I Viniziani vi vennono, e per forza la presono e tennono. Messer Francesco da Esti, fratello del Marchese, insieme co' Bolognesi e con messer Orso degli Orsini di Roma, s'accostorono con la Chiesa. Il Cardinale andò a Ferrara, e da' Viniziani non fu ubidito: il perché fermò loro processo addosso, e condannògli: bandì loro la croce addosso, e di più luoghi v'andò assai genti contro per lo perdono e per avere soldo. I Viniziani teneano una fortezza in Ferrara, la quale il Marchese v'avea fatta molto forte, a guisa d'uno cassero. I Viniziani vi vennono per acqua, e furonvi sconfitti, e presi e mortine assai: e fu sventurata fortuna per loro, ché molto vilmente perderono, perché i nobili che v'erano l'abbandonarono. Il Cardinale Pelagrù venne a Firenze, e con grandissimo onore fu ricevuto. Il carroccio e gli armeggiatori gli andorono incontro fino allo spedale di San Gallo; i religiosi con la processione: i gran popolani di quella parte a piè e a cavallo l'andoron a onorare. Giunse in Firenze: e i Fiorentini molto con lui si consigliorono; e bene lo informorono come procuravano col Papa, che tardasse la venuta dello Imperadore; e pregarono nel confortasse, e così promise fare. Donaronli danari, i quali volentieri accettò, e di quelli riscosse la sua legazione; e d'accordo con loro, di Firenze partì. Andossene il Cardinale allo Imperadore, il quale sapea i ragionamenti avea avuti co' Fiorentini, e però non li mostrò gran benivolenzia. Ritornossi al Papa: il quale, confortandolo di quanto da' Fiorentini era pregato, gli tenea in speranza, tanto che da loro ritrasse molti danari. E questo faceano, perché lo Imperadore si consumasse.
CAPITOLO XXXIII
Morte d'uno de' nunzi pontifici ad Arrigo, del Vescovo di Liegi, e de' due ambasciatori fiorentini al Papa (...1311...1312...).
Di tre cardinali avea mandati il Papa allo Imperadore, quando era ad assedio a Brescia, ne morì uno, ciò è quello d'Albano; il quale venne infermo a Lucca, e morì quivi. Il vescovo di Leggie anche vi morì, grande amico dello Imperadore: al quale avea donato Rezuolo, il quale è tra Reggio e Mantova; il quale i Mantovani di poi tolsono a colui a cui era rimaso. I due anbasciadori fiorentini erano in Corte, vi morirono: e prima messer Pino de' Rossi; e per premio di sua fatica furono fatti due suoi consorti e parenti cavalieri del popolo, e donato loro molti danari, di quelli togliean a' Ghibellini e a' Bianchi. E con tutto che i Bianchi tenessono alcuna vestigia di Parte guelfa, erano da loro trattati come cordiali nimici. Di poi morì messer Gherardo; e non furono i suoi onorati né di cavalleria né di danari, perché non era stato così fedele come l'altro.
CAPITOLO XXXIV
Condizioni politiche della Toscana durante la discesa di Arrigo. Lega Guelfa toscana contro l'Imperatore. Ricevimento che vi avevano trovato gli ambasciatori di lui. Disegni ch'egli avea fatto circa la via da tenere per venire in Toscana (1311...1310...).
I Fiorentini, acciecati dal loro rigoglio, si misono contro allo Imperadore, non come savi guerrieri, ma come rigogliosi, avendo lega co' Bolognesi, Sanesi, Lucchesi, e Volterrani, e Pratesi, e Colligiani, e con l'altre castella di lor parte. I Pistolesi, poveri, lassi, e di guerra affannati e distrutti, non teneano del tutto con loro: non perché non fussono d'uno animo, ma perché vi metteano podestà con sì grandi salari, che non poteano sostenere alle paghe. Il perché non arebbono potuto pagare la loro parte della taglia, però che pagavano al maliscalco e a' suoi fiorini XLVIIIm l'anno; e teneansi per loro, acciò che i Fiorentini non v'entrassono. I Lucchesi sempre aveano anbasciadori in corte dello Imperadore; e alcuna volta diceano d'ubbidirli, se concedesse loro lettere, che le terre tenieno dello Imperio potessono tenere, e non vi rimettesse gli usciti. Lo Imperadore niuno patto fe' con loro, né con altri: ma mandò messer Luigi di Savoia e altri ambasciadori in Toscana. I quali da' Lucchesi furono onoratamente ricevuti e presentati di zendadi e altro. I Pratesi li presentarono magnificamente, e tutte l'altre terre; scusandosi erano in lega co' Fiorentini. Siena puttaneggiava: ché in tutta questa guerra non tenne il passo a' nimici, né dalla volontà de' Fiorentini in tutto si partì. I Bolognesi si tennono forte co' Fiorentini contra lo Imperadore, perché temeano forte di lui: molto s'afforzorono, e steccarono la terra. Dissesi che contro a lui non aveano difesa alcuna, perchè dalla Chiesa avea il passo: ma perché li parve aspro cammino a entrare in Toscana, no 'l fece. Dissesi che i marchesi Malispini il voleano mettere per Lunigiana, e feciono acconciare le vie e allargare nelli stretti passi; e se quindi fusse venuto, entrato sarebbe tra i falsi fedeli; ma Iddio l'ammaestrò.
CAPITOLO XXXV
Venuta di Arrigo, per Genova, a Pisa. Firenze non gli manda ambasciatori, confermando per tal modo l'ostilità già mostratagli col dispregiare e disobbedire gli ambasciatori suoi. Guerra scoperta tra Firenze ed Arrigo (1311 - 1312...1310).
Andossene a Genova per venire a Pisa, tutta d'animo e di parte d'Imperio; che più speranza ebbe della sua venuta che niuna altra città, e che fiorini LXm gli mandò in Lonbardia, e fiorini LXm gli promise quando fusse in Toscana, credendo riavere le sue castella e signoreggiare i suoi adversarii: quella che la ricca spada in segno d'amore gli presentò; quella che delle sue prosperità festa e allegreza faceva; quella che più minaccie per lui ricevea; quella che diritta porta per lui è sempre stata, e per li nuovi signori, che venuti sono in Toscana per mare e per terra, che a loro parte attendano; quella che da' Fiorentini è molto raguardata, quando s'allegrano delle prosperità d'Imperio. Giunse lo Imperadore a Pisa a dì VI di marzo 1311 con XXX galee; dove fu con gran festa e allegreza ricevuto e onorato come loro signore. I Fiorentini non vi mandorono anbasciadori, per non esser in concordia i cittadini. Una volta gli elessono per mandarli, e poi non li mandorono, fidandosi più nella simonìa e in corrompere la corte di Roma che patteggiarsi con lui. Messer Luigi di Savoia, mandato anbasciadore in Toscana dallo Imperadore, venne a Firenze; e fu poco onorato da' nobili cittadini, e feciono il contrario di quello doveano. Domandò, ché anbasciadore si mandasse a onorarlo e ubbidirli come a loro signore: fu loro risposto per parte della Signoria da messer Betto Brunelleschi, "che mai per niuno signore i Fiorentini inchinarono le corna". E imbasciadore non vi si mandò, ché arebbono avuto da lui ogni buon patto; perché il maggior impedimento ch'avesse, eran i Guelfi di Toscana. Partito lo anbasciadore, se ne tornò a Pisa. E i Fiorentini feciono fare un battifolle a Arezo, e ricominciarvi la guerra: e in tutto si scopersono nimici dello Imperadore, chiamandolo tiranno e crudele, e che s'accostava co' Ghibellini, e i Guelfi non volea vedere. E ne' bandi loro diceano: "A onore di Santa Chiesa, e a morte del re della Magna". L'aquile levarono dalle porti, e dove erano intagliate e dipinte; ponendo pena a chi le dipignesse, o le dipinte non ne spegnesse.
CAPITOLO XXXVI
Arrigo passa da Pisa a Roma e si ristringe coi Ghibellini. Pratiche de' Fiorentini con re Roberto di Napoli. Incoronazione di Arrigo in San Giovanni Laterano (1312).
Lo Imperadore, schernito da' Fiorentini, si partì di Pisa, e andonne a Roma: dove giunse a dì VII di maggio 1312, e onoratamente fu ricevuto come signore, e messo nel luogo del senatore. E intendendo le ingiurie gli eran fatte da' Guelfi di Toscana, e trovando i Ghibellini che con lui s'accostavan di buona volontà, mutò proposito e accostossi con loro: e verso loro rivolse l'amore e la benivolenzia che prima avea co' Guelfi; e proposesi d'aiutarli, e d'aiutarli e rimetterli in casa sua, e i Guelfi e Neri tenere per nimici, e quelli perseguitare. I Fiorentini sempre teneano anbasciadori a piè del re Ruberto, pregandolo che con la sua gente offendesse lo Imperadore, promettendoli e dandoli danari assai. Il re Ruberto, come savio signore e amico de' Fiorentini, promise loro d'aiutarli, e così fe': e allo Imperadore mostrava di confortare e amunire i Fiorentini gli fussono ubbidienti, come a loro signore. E come sentì che lo Imperadore era a Roma, di subito vi mandò messer Giovanni suo fratello con CCC cavalli, mostrando mandarlo per sua difesa e onore della sua corona; ma lo mandò, perché s'intendesse con gli Orsini, nimici dello Imperadore, per corrompere il senato, e impedire la sua coronazione: che ben la 'ntese. Mostrando il Re grande amore allo Imperadore, li mandò suoi anbasciadori a rallegrarsi della sua venuta, facendoli grandissime proferte, richieggendolo di parentado, e che li mandava il fratello per onorare la sua coronazione, e per suo aiuto, bisognando. Rispose loro il savissimo Imperadore di sua bocca: "Tarde sono le proferte del Re, e troppo tostàna è la venuta di messer Giovanni". Savia fu la imperiale risposta, ché bene intese la cagione di sua venuta. A dì primo d'agosto 1312 fu incoronato in Roma Arrigo, conte di Luzinborgo, Imperadore e Re de' Romani, nella chiesa di San Giovanni Laterano, da messer Niccolao cardinale da Prato, e da messer Luca dal Fiesco cardinale da Genova, e da messer Arnaldo Pelagrù cardinale di Guascogna, di licenzia e mandato di papa Clemente V e de' suoi cardinali.
CAPITOLO XXXVII
Giustizia di Dio contro i Neri. Quanti e chi fossero rimasti i capi di Parte nera (1308...).
La giustizia di Dio quanto fa laudare la sua maestà, quando per nuovi miracoli dimostra a' minuti popoli, che Iddio le loro ingiurie non dimentica! molta pace dà a coloro nell'animo, che le ingiurie da' potenti ricevono, quando veggiono che Iddio se ne ricorda. E come si conoscono aperte le vendette di Dio, quando egli à molto indugiato e sofferto! ma quando lo indugia, è per maggior punizione; e molti credono che di mente uscito gli sia. Quattro erano i capi di questa discordia, de' Neri; ciò è messer Rosso dalla Tosa, messer Pazino de' Pazi, messer Betto Brunelleschi, e messer Geri Spini. Dipoi vi se ne aggiunse due: cioè messer Teghiaio Frescobaldi, e messer Gherardo Ventraia, uomo di poca fede. Questi sei cavalieri strinsono Folcieri, podestà di Firenze, a tagliare la testa a Masino Cavalcanti e a uno de' Gherardini. Costoro faceano fare i priori a loro modo, e gli altri ufici dentro e di fuori. Costoro liberavano e condannavano chi e' voleano, e davano le risposte e faceano i servigi e' dispiaceri come voleano.
CAPITOLO XXXVIII
Qualità e fine di Rosso della Tosa. Suo parentado (1309...).
Messer Rosso dalla Tosa fu cavaliere di grande animo, principio della discordia de' Fiorentini, nimico del popolo, amico de' tiranni. Questi fu quello, che la intera Parte guelfa di Firenze divise e i Bianchi e' Neri; questi fu, che le discordie cittadinesche accese; questi fu quello, che con sollicitudine con giure e promesse gli altri tenea sotto di sé. Costui a Parte nera fu molto leale, e i Bianchi perseguitò; con costui si confidavano le terre dattorno di Parte nera, e con lui avevano composizioni. Costui, aspettato da Dio lungo tempo, però che avea più che anni LXXV, uno dì andando, uno cane li si attraversò tra' piè e fecelo cadere, per modo si ruppe il ginocchio: il quale infistellì; e martoriandolo i medici, di spasimo si morì: e con grande onore fu sepulto, come a gran cittadino si richiedeva. Lasciò due figliuoli, Simone e Gottifredi; che dalla Parte furono fatti cavalieri, e con loro un giovane loro parente, chiamato Pinuccio, e molti danari furono donati loro. E chiamavansi i cavalieri del filatoio; però che i danari, che si dierono loro, si toglievan alle povere femminelle che filavano a filatoio. Questi due cavalieri suoi figliuoli, volendo tener gran vita per esser onorati, perché parea loro che l'opere del padre il meritassono, cominciorono a calare, e messer Pino a sormontare; il quale in poco tempo si fece grande.
CAPITOLO XXXIX
Qualità e fine di Betto Brunelleschi (1311).
Messer Betto Brunelleschi e la sua casa erano di progenie ghibellina. Fu ricco di molte possessione e d'avere; fu in grande infamia del popolo, però che ne' tempi delle carestie serrava il suo grano, dicendo: "O aronne tal pregio, o non si venderà mai". Molto trattava male i Bianchi e i Ghibellini sanza niuna piatà, per due cagioni: la prima, per esser meglio creduto da quelli che reggevano; l'altra, perché non aspettava mai di tal fallo misericordia. Molto era aoperato in anbascerie, perché era buono oratore: familiare fu assai con papa Bonifazio; con messer Napoleone Orsino cardinale, quando fu Legato in Toscana, fu molto dimestico, e tennelo a parole, togliendoli ogni speranza di mettere pace tra i Bianchi e' Neri di Firenze. Questo cavaliere fu in gran parte cagione della morte di messer Corso Donati; e a tanto male s'era dato, che non curava né Dio né 'l mondo, trattando accordo co' Donati, scusando sé e accusando altri. Un giorno, giucando a scacchi, due giovani de' Donati con altri loro compagni vennono a lui da casa sua, e fedironlo di molte ferite per lo capo, per modo lo lasciarono per morto: ma un suo figliuolo fedì un figliuolo di Biccicocco, per modo che pochi dì ne visse. Messer Betto alquanti dì stette per modo che si credea campasse; ma dopo alquanti dì, arrabbiato, sanza penitenzia o soddisfazione a Dio e al mondo, e con gran disgrazia di molti cittadini, miseramente morì: della cui morte molti se ne rallegrorono, perché fu pessimo cittadino.
CAPITOLO XXXX
Qualità e fine di Pazzino de' Pazzi (1312, gennaio...).
Messer Pazzino de' Pazzi, uno de' IIII principali governatori della città, cercò pace co' Donati per sé e per messer Pino, benché poco fusse colpevole della morte di messer Corso, perché era stato gran suo amico, e d'altro non si curava. Ma i Cavalcanti, che era potente famiglia, e circa LX uomini erano da portare arme, aveano molto in odio questi sei cavalieri governatori, i quali aveano stretto Folcieri podestà a tagliare la testa a Masino Cavalcanti, e sanza dimostrazione alcuna il soportavano. Un giorno, sentendo il Paffiera Cavalcanti, giovane di grande animo, che messer Pazino era ito sul greto d'Arno da Santa Croce con uno falcone e con un solo famiglio, montò a cavallo con alcuni compagni, e andoronlo a trovare. Il quale, come gli vide, cominciò a fuggire verso Arno; e seguitandolo, con una lancia li passò le reni, e caduto nell'acqua gli segorono le vene, e fuggirono verso Val di Sieve. E così miseramente morì. I Pazzi e' Donati s'armorono, e corsono al palagio: e col gonfalone della giustizia, e con parte del popolo, corsono in Mercato Nuovo a casa i Cavalcanti, e con stipa misono fuoco in tre loro palagi: e volsonsi verso la casa di messer Brunetto, credendo l'avesse fatto fare. Messer Attaviano Cavalcanti soccorso fu dai figliuoli di messer Pino e da altri suoi amici: e feciono serragli, e con cavalli e pedoni s'afforzorono, per modo niente feciono; ché dentro al serraglio era messer Gottifredi e messer Simone dalla Tosa, il Testa Tornaquinci e alcuni loro consorti, e alcuni degli Scali, degli Agli e de' Lucardesi, e di più altre famiglie, che francamente li difesono, fin che constretti furono di disarmarsi. Quietato il popolo, i Pazzi accusorono i Cavalcanti, de' quali ne furono condannati XLVIII nell'avere e nella persona. Messer Attaviano si rifuggì in uno spedale, a fidanza de' Rossi; di poi n'andò a Siena. Di messer Pazino rimasono più figliuoli: de' quali due ne furon fatti cavalieri dal popolo, e due loro consorti; e dati furono loro fiorini IIIIm, e XL moggia di grano.
CAPITOLO XXXXI
Morti atrocemente i principali capi de' Neri, rimane a triste vita un d'essi, Geri Spini (1312).
In quanto poco spazio di terreno sono morti cinque crudeli cittadini, dove la giustizia si fa e punisconsi i malifattori di mala morte! i quali furono messer Corso Donati, messer Nicola de' Cerchi, messer Pazino de' Pazi, Gherardo Bordoni, e Simone di messer Corso Donati: e di mala morte, messer Rosso dalla Tosa e messer Betto Brunelleschi: e de' loro errori furono puniti. Messer Geri Spini senpre dipoi stette in gran guardia, perché furono ribanditi i Donati e i loro sequaci e i Bordoni con grande onore, a cui poco innanzi furono le case disfatte dal popolo con gran vergogna loro e danno.
CAPITOLO XXXXII
Conchiusione.
Così sta la nostra città tribolata! Così stanno i nostri cittadini ostinati a malfare! E ciò che si fa l'uno dì, si biasima l'altro. Soleano dire i savi uomini: "L'uomo savio non fa cosa che se ne penta". E in quella città e per quelli cittadini non si fa cosa sì laudabile, che in contrario non si reputi e non si biasimi. Gli uomini vi si uccidono; il male per legge non si punisce; ma come il malfattore à degli amici, e può moneta spendere, così è liberato dal malificio fatto. O iniqui cittadini, che tutto il mondo avete corrotto e viziato di mali costumi e falsi guadagni! Voi siete quelli che nel mondo avete messo ogni malo uso. Ora vi si ricomincia il mondo a rivolgere addosso: lo Imperadore con le sue forze vi farà prendere e rubare per mare e per terra.