cultura barocca
SACERDOTI

I SACERDOTI, I CULTI, I TEMPLI E GLI DEI, LE NECROPOLI E LA VIA DEI SEPOLCRI

Come in tutto l'Impero anche ad Albintimilium il CULTO era curato da una precisa organizzazione (G. WISSOWA, Religion und Kultus der Romer, II ed., Monaco, pp. 482-944).
Sovraintendeva al culto il flamen che teneva a vita il titolo e controllava i sacerdoti minori.
Forse la stessa moglie del flamen prendeva nome di flaminica ( G. DUMEZIL, Le prehistoire des famines majeurs in "Rev. des relig.", CXVIII, 1938, n. 1, pp. 188-197): ad Albintimilium secondo epigrafe del lapidario stava una flaminica (C.I.L., V, 7811).
A Nervia si trovò nel secolo scorso un'iscrizione di sacerdotes lanuvini.
Erano dediti al culto di Giunone Sopita, detta Lanuvina da Lanuvio città in cui dal 417 a.C. i Latini veneravano tal dea (A. E. GORDON, The cults of Lanuvium, Berkeley, 1938; C.I.L., V, 7814: a parere di N. Lamboglia l'intemelio Mantius, un oriundo od immigrato, avrebbe svolto in altra luogo questo sacerdozio.
Un Tertullinus supposto sacerdote Laurentino-Lavinate per praticità di lettura è studiato analizzandosi nel "Pagus civitatis" i territori di Gorbio e Roccabruna.
Secondo alcune versioni la lapide sarebbe stata trovata presso il tempio ritenuto di Diana Cacciatrice: si trattava di un reperto mutilo di un P. Metilius Tertullinus definito laur. e quindi giudicato sacerdote laurentino - lavinate. La lapide gli sarebbe stata posta da un P. Metilus Tertullinus Vennonianus (in effetti la gens Metilia era diffusa in Ventimiglia romana: C.I.L., V. V. 7822, 7825, 7861). Girolamo Rossi nella sua Storia di Ventimiglia (p. 432, n. 12) lesse lavin e scrisse :...questa lapide ora in Mentone vi fu trasportata da Ventimiglia nel 1855 in circa da un negoziante di limoni.... Secondo lo storico ventimigliese questo marmo, nel contesto dei traffici antiquari dell'epoca, sarebbe stato trafugato da Ventimiglia al pari della lapide (S. V., p. 432, n. 13) di P. Metilius Tertullinus Vennonianus appartenente alla tribù Falerna e "questore designato che ebbe un'iscrizione onorifica dalla plebs urbana albingaunensis e che dalla titolatura fu ritenuto sacerdote laurentino lavinate. Il Rossi si dichiarò informato dallo Spotorno di questo secondo furto, di una lapide dalle interpretazioni controverse: C.I.L., V, 7782 = E. Sanguineti, Iscrizioni romane della Liguria, in "Atti della Società Ligure di Storia Patria, III, Spotorno, p.148. G.B. Spotorno, però (iscrizioni antiche d'Albenga..., Genova, G. Ferrando, 1834, pp. 16 - 28) la diede presente ad albenga dove sarebbe stata reperita nel 1802 nella casa del Cavalier d'Asti. Tale iscrizione è registrata come ingauna nel manoscritto Castaldi Torinese: se il notaio Castaldi di Cosio la vide nel XVII secolo o cade l'ipotesi del Rossi o meno verisimilmente si dovrebbero ipotizzare manipolazioni antiquarie anche più antiche di quelle ipotizzate dal Mennella: per i riferimenti bibliografici vedi la nota 2 (pp. 248 - 249) del volume Albintimilium....
In Albintimilium non sono restate comunque tracce di rilievo su templi, sacelli o altri luoghi di culto.
Le informazioni migliori vengono dalla NECROPOLI che abbracciava a semicerchio la città sì che varie tombe, lontane dal nucleo nervino, segnalate nell'area della Stazione ferroviaria e dell'ex Convento di S. Agostino furono amalgamate con altri tipi di edifici: come ha però dimostrato GIOVANNI MENNELLA in un suo SAGGIO i dati, specie sulle lapidi funerarie, devono essere soppesati con attenzione visto il clima di difficoltà e trafugamenti in cui si dovette sempre muovere Girolamo Rossi, ispettore archeologico sul sito.
G. Rossi (Not. Sc., 1877, p. 290) annotò che nel 1865 "il muratore Natale Pistone nel gettare le fondamenta della sua casa di abitazione nel sestiere di S. Agostino, in prossimità della stazione ferroviaria, esuma alcune tombe formate di tegoloni in terracotta e trova in esse varie monete d'epoca imperiale: sulla questione interessano i ritrovamenti archeologici del 1987 nel corso di sondaggi, per la rete fognaria intemelia, nella piazza antistante la Stazione.
Grazie alle esplorazioni sistematiche del Rossi (1880-1883), del Barocelli (1915-1917) e poi del Lamboglia, si ricostruì in linea di massima la struttura della NECROPOLI.
Un' AREA CIMITERIALE o NECROPOLI ORIENTALE fu scoperta ad Est delle mura romane sino al Nervia che, con le piene di '600 (di cui scrisse Angelico Aprosio) e dei tempi successivi, portò alla luce reperti e tombe: ove si son rinvenuti anche titoli funerari di personaggi importanti ma qui la ricerca fu sempre ardua per i rivolgimenti del terreno.
Più semplice è stato lo studio della NECROPOLI OCCIDENTALE ("CLICCA" SUL N. 1 DELLA CARTA TOPOGRAFICA) dove le tombe erano allineate lungo un'arteria che il Rossi chiamò "VIA DEI SEPOLCRI".
Queste stavano ai lati del percorso e non è escluso, come suppose il Lamboglia, che la locazione delle tombe procedesse sino al Roia magari accanto a strutture edili diverse poste extra moenia: il Rossi aveva già scritto del rinvenimento di "sode e robuste mura in diverse direzioni ramificate... con suppellettile" in proprietà Balestra presso il Roia (Not. Sc., 1876, p. 129 e p. 177).
Si parla anche di una NECROPOLI MERIDIONALE sviluppatasi sin a lambire la spiaggia d'epoca romana: il Rossi indicò ritrovamenti in poderi Parodi (Not. Sc., 1877, p. 290; 1884, p. 135; 1888, p. 142: tomba dedicata a Quintus Vettius Mansuetus dalla moglie Apronia Felicitas = Suppl. It., 1001, del III sec. d.C. e un'iscrizione funebre di I-II sec. d.C. letta D(is) M(anibus) / Aemilius Se/cundinus Aemi/lio Thelonic / ob. m f = S.V., p. 441, n. 32).
Ancora il Rossi scoprì materiale romano e corredi funebri nelle vicine proprietà Bianchi (Not. Sc., 1877, p.290) e De Mouchy (Ib.): ponendo le tombe, come di legge, fuori del pomerio ufficiale i Romani sfruttarono luoghi diversi sì che i sepolcri dei benestanti stavano prossimi alla città e, sempre piu lontani, si dislocavano quelli meno importanti.
In Ventimiglia alta si trovarono tombe romane e tardoromane già manomesse: nel giardino del convento delle Lateranensi (cocci e tegoloni con resti umani) e nel muro di cinta del podere che le religiose avevano dove sorgeva il castello dei conti (tomba decorata in smalto rosso = L.A., p. 114, n. 2). Si ebbero scoperte (1860) di tombe laterizie "in una proprieta sottostante al castel d'Appio" e di una bella tomba in muratura "nel sito della Colla davanti alla porta del giardino Boyer" (Not. Sc., 1877, p.292); si trovarono tombe ad inumazione d' età tarda nell'area della chiesa di S. Stefano (Id., 1901, p. 289) e nella località Maneira ("frati Maristi") si rinvenne materiale funerario con corredi diversi.
Per tutto il territorio municipale si son scoperte tombe romane, non solo sulla linea di costa ma anche nelle valli e vallette piu interne: esse restano la testimonianza di un organismo cultuale che comportava un ricco apparato funebre sviluppatosi in relazione a un sistema di religiosità, sacerdozi e edifici "sacri".
Le modificazioni del territorio nel tempo e gli interventi del Cristianesimo hanno cancellato le tracce dei templi pagani: il ricercatore può tuttavia proporre qualche interpretazione.
A parte gli dei Mani (di manes), evocati nelle epigrafi e che indicavano gli antenati defunti e le divinità dell'oltretomba, delle massime divinità romane sono rimaste poche tracce. Per vari motivi le testimonianze di un culto per numi specifici sono le dediche fatte a qualche dio.
Tra le lapidi sono tre dediche o ex voti: uno ad APOLLO ed uno a GIUNONE REGINA ed ancora uno ad ASCLEPIO/ESCULAPIO (sulla cui lettura critica si rimanda da questo collegamento)
. Gli ex voto ad APOLLO E GIUNONE furono trovati nelle strutture di chiese locali, dove eran stati portati nel medioevo come materiale da costruzione.
La dedica ad Apollo si scoprì presso la chiesa vallecrosina di S. Rocco e vi si legge: Apollini v(otum) s(olvit) / M(arcus) C(aius?) Anthus (CIL, V, 7810 = G. MENNELLA, L'onomastica cit., p. 13). La lapide incisa per Apollo da un tal Anthus fu murata nell'angolo del campanile e rimase incassata nel muro laterale dopo l'avanzamento della facciata della chiesa dopo lavori di ampliamento del 1908. Di recente venne smurata e posta su un piedistallo all'interno della chesa: è un'arula votiva, sagomata sopra e sotto. Non presenta decorazioni laterali ed ha in alto il comune motivo a cuscinetti stilizzati: è in pietra della Turbia ed è di cm. 96 in altezza, 30 in larghezza e 24 in profondità. Le lettere non sono belle e il reperto pare del II sec. d.C.: v. però N. LAMBOGLIA, La rimozione dell'ara di Apollo a San Rocco di Vallecrosia, in "R.I.I.", N.S., IX, 1954, n. 2, pp. 40-41).
La dedica a Giunone Regina è forse la più nota epigrafe intemelia; si conserva nella cattedrale impiegata nel muro di destra anche se prima del 1842 serviva come gradino di ingresso al modo che il Navone in visita a Ventimiglia guidato da tali "Scipione" e "Torquato" ebbe occasione di vederla e descriverla entro la lettera XIII "da Ventimiglia" della sua Passeggiata per la Liguria Occidentale (edita nel 1831 ma rimandante ad un viaggio del 1827), allorquando, dopo aver visitata la Biblioteca Aprosiana, accompagnato e guidato da "Scipione" ebbe la possibilità di visitare la città medievale e soprattutto la Cattedrale.
Si tratta di un blocco in pietra della Turbia (di cm. 30 x 100, profondo 42 cm.): le lettere, rubricate in nero, della prima ed ultima riga misurano cm. 3,2, le altre 2,3 cm. (vedi A. CASSINI, Illustrazione della lapide "Iunoni Reginae" che si conserva nella cattedrale di Ventimiglia, Albenga, 1854, pp. 1-121).
Nonostante le perplessità sul reperto è utile proporre la lettura datane dal Mommsen che la esaminò col Rossi = I.L.I., I, nel CIL, V, 7811: "Iunoni Reginae sacr(um) / ob honorem memoriamque verginiae P(ublii) f(iliae) / Paternae P(ublius) Verginius Rhodion Iib(ertus) nomine / suo et Metiliae Tertullinae Flaminic(ae) uxoris / suae et liberorum suorum verginiorum Quieti / Paternae Restitutae et Q(uietae) / s(ua) p(ecunia) p(osuit)".
Contro l'ipotesi del Rossi, N. Lamboglia notò che l'epigrafe non prova un tempio pagano a Giunone sul luogo della cattedrale; l'iscrizione, come attesta anche il Snale, è votiva e perciò doveva essere apposta "ad un simulacro o ad altra offerta votiva mobile piuttosto che ad un tempio o sacello" (R.I.I., 1938, p. 177). Fu recuperata in epoca medievale da qualche rudere romano: l'erudito Aprosio non ne fece cenno, a differenza delle sue consuetudini, a testimonianza che nel '600 la lapide doveva essere inidentificabile anche ad un osservatore noriamente attento quanto lui era.
Resta curiosa la singolarità che la moglie di un liberto sia stata insignita del titolo di flaminica: si può pensare col Lamboglia che Metilia Tertullina abbia conservato un titolo proprio della famiglia intemelia di rango equestre dei "Metilii Tertullini".
Nel 1884 si sarebbe scoperta al margine ovest di Ventimiglia romana in podere Parodi un'arula votiva in pietra della Turbia con caratteri del III sec. d.C. dove si legge Iulius / Geminian(us) / cum suis / v(otum) s(olvit) / libens merito" (Museo Arch. di Ventimiglia = Suppl. Ital., 982). E' un'iscrizione sacra che il donatore, esprimendo riconoscenza (libens merito), offriva ad una divinità. Non si sa qual fosse il dio: il voto è generico, riguardante "Iulius Geminianus e famiglia (cum suis)", ma l'arula (cm. 65 x 32 x 27) non era, come spesso accadeva, tutto il dono: nella parte superiore si riconoscono i segni per l'infissione di una perduta statuetta, quasi certamente il simulacro della divinita beneficatrice.
Secondo l'uso romano questa piccola ara poteva sorgere vicino ad un tempio ma poteva esser stata posta pure in una zona pubblica, come giardini o terme, o addirittura nell'abitazione del dedicante.












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VENTIMIGLIA ROMANA (GLI "SCOPRITORI DELLA CITTA' SEPOLTA SOTTO LA SABBIA".
-LE INTUIZIONI BAROCCHE DELL'ERUDITO ANGELICO APROSIO SULLA TOPOGRAFIA DI ALBINTIMILIUM: I PRIMI REPERTI DELLA CITTA'
-LA GRANDE STAGIONE ARCHEOLOGICA DI GIROLAMO ROSSI: LA SCOPERTA DELLA CITTA' ROMANA DI ALBINTIMILIUM







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APROSIO E LE SUE ESPERIENZE ANTIQUARIO - ARCHEOLOGICHE:
"Fuimus Troes, noi Ventimigliesi dispersi come i Troiani, cacciati dalla città romana, ora sepolta sotto la sabbia" In un codice inedito e prezioso, antico di oltre tre secoli, l'erudito ventimigliese Angelico Aprosio scrisse a proposito di Albintimilium: " ... Al Signor Don Giovanni Vintimiglia / Mentre ma giorno tutto ansioso e non senza tema d'esser ferito dal pestifero contagio, i! quale ha poco meno che desolato l'emporio regio delle onde Ligustiche, me n'andava passeggiando per Banchi, m'incontrai per buona sorte nel nostro dottissimo Daniele Spinola e da esso intesi qualmente nel bel principio che si scoprì il male in Roma, imbarcatasi in Livorno verso Sicilia se ne fusse tornata in Messina a ripatriare. Io ne lodai il Signore: che per altro haverei temuto non fusse seguito di essa come del virtuosissimo Herrico e d'altri amici. Iddio ha voluto preservarla per lassare a posteri la vera Idea d'un buon cittadino, mentre anco dopo il corso di CCC anni, che li suoi ascendenti partirono di qua per ricevere ne la fertil Sicania eccelsi honori, non viene punto scemato il suo affetto verso questa distrutta città, potendo dire ciascuno de' suoi cittadini: Fuimus Troes...".
L'Aprosio prendendo in prestito questa bella immagine poetica della classicità offriva all'antiquario siciliano Giovanni Ventimiglia un suo abbozzo d'idea sulla storia di Ventimiglia romana: Giovanni Ventimiglia dei conti di Gerace e di Isola Maggiore (erudito linguista di tradizione filosiciliana) aveva molteplici interessi. Tra questi spiccavano quelli storico-antiquari: si era infatti proposto, attraverso un lavoro indefesso, di dimostrare che la sua casata era strattamente legata al ramo siciliano dei dispersi Conti di Ventimiglia ma, quale erudito di indubbio valore, non voleva limitare il suo impegno ad un discorso encomiastico della propria famiglia ma aveva maturata l'ambizione di investigare sulla storia e sui monumenti di Ventimiglia romana, una città di cui molti avevano parlato (lo stesso grande storico Tacito) ma al cui riguardo non si erano ancora fatte scoperte di alcun rilievo [la lettera aprosiana, ora editata nel monografico "Quaderno dell'Aprosiana", I, Nuova Serie, fa parte de Lo Scudo di Rinaldo II il cui manoscritto si custodisce, oltre che in copia fotostatica presso l'intemelia biblioteca Aprosiana, come originale e autografo alla Biblioteca Universitaria di Genova, segnatura fondo Aprosio, MS. E.II.37]
Con arguzia tipicamente barocca l'erudito frate intemelio aveva colto un principio di fondo: che al pari dei mitici Troiani gli abitanti di una distrutta Intemelio si fossero dispersi e che, in un tempo imprecisabile, avessero abbandonato al deserto i ruderi fumanti dell'incendiata città romana.
L'effetto epico della sua affermazione non si addice alla realtà degli antichi eventi, tuttavia era nell'intenzione del frate di provocare attenzione nuova su alcuni problemi della medievale città di Ventimiglia, che, a suo giudizio, come altre località quali Bordighera, Camporosso e Dolceacqua, era il risultato dell'insediamento di un "popolo romano" disperso in piccoli gruppi dalla devastazione della capitale, sita tra Nervia e Roia, e stanziatosi nei luoghi di volta in volta ritenuti più sicuri, privi di insediamenti, dove, sotto i nomi diversi dei borghi del Medioevo, avrebbero "rifondato" la loro città.
Il grosso nucleo urbano di Ventimiglia medievale sarebbe stato, a suo parere, il sito dove si trasferì in massa la maggior parte della gente della città romana di Nervia, ormai in pieno degrado sia per effetto della crisi generale dell'Impero di Roma dal IV secolo avanzato ma anche per i saccheggi di popoli barbari apportati, iniziando dagli Alamanni, alla città rivierasca.
Secondo Aprosio l'altura della futura città medievale (quasi certamente già sede di un grosso sobborgo imperiale) non sarebbe però stato neppure l'unico centro demico evolutosi da tale dispersione.
Gruppi minori di popolazione si sarebbero recati in altri luoghi, della costa e preferibilmente dell'interno, a costruire altri minori nuclei residenziali meno esposti alle scorrerie e strategicamente più protetti dalla conformazione naturale del terreno.
L'Aprosio, bibliofilo del XVII secolo, non aveva però interessi storici, ma solo curiosità e per tale ragione nel proseguire la sua lettera all'erudito siciliano demandò a quest'ultimo e al concittadino Girolamo Lanteri, ricercatore ufficiale per 1'Italia Sacra dell'Ughelli, l'arduo compito di studiosi ufficiali di Albintimilium: " ... Spero nondimeno di vederla risorta (Albintimilium) nelli suoi eruditissimi fogli, risorgendo novella Fenice a più bella vita, che non potè ricevere da suoi edificatori primieri; mentre non perdonando a spesa non lassa di far rivolgere sossopra gli Archivi per dissotterrare le più nascoste memorie. Anch'io una fiata mi ero invogliato di adornare cotesta Sparta: non lassando di sollecitare il nostro concittadino Domino Gieronimo Lanteri, il quale ha dato principio alla Topografia di essa... ".
L'erudito siciliano morì tuttavia poco dopo senza lasciare frutti delle sue ricerche e lo studio del Lanteri risultò fiacco e deludente; l'Aprosio si sentì in obbligo di ritornare sull'argomento proprio perché il Lanteri, ignorando i suoi suggerimenti (probabilmente esplicitati in un'operetta andata purtroppo persa le Antichità di Ventimiglia), sviluppò l'ipotesi di una identificazione di Ventimiglia medievale e secentesca con l'impianto urbano di quella città romana di cui molte fonti parlavano (il geografo greco Strabone, vedendola, la descrisse come una "grande città) e che, magari velata nelle viscere della terra od ormai ridotta a fondamenta di caseggiati medievali pur doveva esistere o quantomeno aver lasciata qualche traccia archeologica se non monumentale.
Con un pizzico di aceto contro il Lanteri egli quindi scrisse: "... non istimo, che questa (la città medievale) sia quella Ventimiglia, di cui fa mentione Strabone nel lib. IV, a pag. 136, della Ed. di Basilea per Giovanni Walder MDXXXIX fol. ove dice Urbs ingens est Albion Intemelium: impercioché non si veggiono in essa quelle vestigia, che per tale la potrebbero dichiarare: ma più tosto un'altra da essa discosta un picciol miglio di camino, attaccata al fiume Nervia, ove si vedono reliquie di fabriche antichissime. E mi ricordo che, essendo giovanetto, le acque di detto fiume, cresciute fuor de l'usato, passando vicino ad una possessione della mensa Episcopale, con portarne via gran parte, scuoprirono alcune stanze sotterranee, nelle quali furono ritrovate monete, lucerne, con altre anticaglie... ".
Aprosio in questa sua memoria dice e fa intendere ma, con "onesta dissimulazione" non si sbilancia, come ancora dopo si leggerà: dimostra piuttosto di provare pudore e riverenza, non tanto per esser stato un visitatore clandestino d'un patrimonio archeologico (certo non esistevano né Belle Arti né Sovrintendenze né norme di tutela del materiale antiquario) ma per essersi lasciato andare, nei terreni della prebenda vescovile, ad indagini profane (indubbiamente sconvenienti ad un religioso che sarebbe poi stato Vicario dell'Inquisizione e che avrebbe dovuto segnalare per la sua stessa funzione ogni idolatria scoperta) ed averne al contrario, verisimilmente, riesumato per sè diversi reperti, quasi certamente più di quanti lascino trapelare le sue poche note (ed infatti come si potrebbe spiegare che nel lontano 1645, quando in fondo era ancora un letterato di belle speranze e pochi soldi, un classicista del peso di Dano Bartolini pubblicando proprio in quell'anno a Padova, per il Crivellari, le sue Osservazioni nuove de Unicornu avesse elogiato il frate intemelio sì come letterato ma non quale bibliofilo e piuttosto come antiquario e numismatico: il realmente povero Aprosio donde avrebbe potuto portare con sé quelle monete e medaglie se non da Ventimiglia, se non da quei scavi che quasi certamente per primo, senza onerosi esborsi per tombaroli, guide o trafficanti, era stato in grado di visitare con un certo senso critico e soprattutto col suo spiccato amore per le antichità greche e romane?)
Oltre queste postulazioni, invero coinvolgenti, occorre comunque ribadire che le ragioni di quel secentesco dibattito tra Aprosio e Lanteri risiedono fondamentalmente nella mentalità dei due studiosi, bibliofili e per natura estranei all'investigazione sui siti.
Avevano contemporaneamente torto e ragione: estranei all'archeologia, per il momento storico e la forma culturale, partirono entrambi dall'assioma letterario, fonte primaria di ogni sapere da una catena di secoli.
Molti storici avevano parlato di Albintimilium: elementari considerazioni logiche, la casualità di ritrovamenti di anfore e monete, banali congetture di toponomastica e, soprattutto, una traballante ma continuata tradizione antiquaria portavano a credere che Albintimilium fosse da identificare nell'altura a ponente del fiume Roia, dove, sui resti di una distrutta romanità e di un castrum bizantino, si sarebbe poi evoluto il Castello comitale e attorno a questo, nel corso del medioevo, prima attraverso l'esperienza comunale e poi durante l'asservimento di Ventimiglia alla Repubblica di Genova, si sarebbe sempre più esteso il centro residenziale fino a superare l'antica cinta muraria medievale col quartiere dell'Oliveto.
La Cattedrale di costruzione romanica (secolo XI) evocò da sempre nei dotti e poi nella tradizione popolare l'idea di aver colmato, nei tempi della sua laboriosa edificazione, lo spazio sacro a qualche divinità pagana: la cripta sotterranea, cui si è recentemente aperto un accesso con lo scavo del presbiterio, apparteneva in realtà ad una prima cattedrale ad una sola navata del IX secolo e la lapide votiva a Giunone Regina, prima responsabile di tante ipotesi, non è altro che materiale di reimpiego recuperato da qualche edificio d'epoca romana e sistemato, senza probabilmente intuirne il valore profano,in un edificio sacro al culto cristiano, come gradino in origine e poi murato sul lato destro interno della chiesa (Not. Sc., 1887, p. 29).
Questi fatti a lungo rimasti senza spiegazione, la presenza nella cripta romanica della cappella gentilizia di S. Michele di due pietre miliari, di Caracalla e di Augusto, indussero vari scrittori-antiquari ad identificare Albintimilium con Ventimiglia medievale.
La sede originaria del centro urbano, da cui si nominò in epoca romana il municipio di Albintimilium, era in realtà situata tra il torrente Nervia ed il fiume Roia, anche se nel corso dell'espansione demografica ed urbanistica l'altura della futura città medievale venne investita da consistenti insediamenti d'epoca imperiale romana.
Così al Lanteri, che aveva ipotizzato una continuità residenziale nelle alture del centro storico medioevale, l'Aprosio più giustamente rispose ipotizzando una soluzione del tutto opposta coll'immagine di un'Albintimilium semisepolta da sabbie eoliche nell'area "nervina": e nello stesso tempo entrambi gli studiosi ebbero contrastanti dubbi perché il Lanteri parlava di casuali reperti atti ad ipotizzare insediamenti minori tra Nervia e Roia, l'Aprosio, che conobbe i miliari di S. Michele ma ignorò la lapide della cattedrale, scrisse: "... Ci è oltracciò altra Chiesa dedicata all'Arcangelo Michele prima luce del Cielo, di struttura antica, Tempio, nel tempo de' Gentili sacro a Dioscuri, o sia Castore e Polluce. Di essa hanno la padronanza li Monaci dell'Isola di Lirino: ma di essa poco curandosi, ha perdute le ali, rimasta col corpo di mezzo ed in questa è quella Colonna mentovata dall'Abate Ughelli, e posta innanzi al Convento di S. Agostino. Ma, o quanto roso hanno gl'infrangibili denti del Tempo! Si vedono altre lettere in un frammento di Colonna, sopra cui riposa la pila dell'Acqua Santa: ma di esse non si discernono le lineationi..." .
Nell'ambito di questo dibattito l'Aprosio, come il Lanteri, rimase condizionato dal flusso delle sue conoscenze libresche ed in particolare dal fatto che il geografo greco Strabone avesse definito Albintimilium come "una grande città": l'antico scrittore descrivendo l'Impero di Roma nell'alba della sua grandezza si riferì sicuramente alla realtà municipale di Albintimilium individuabile dal lato amministrativo e da quello urbanistico su parametri geografici ben più estesi rispetto a quelli della medievale angusta Ventimiglia e dove dal nucleo principale dell'area nervina si succedevano insediamenti costieri suburbani sino al confine del municipio imperiale, la Turbia ad rest e forse il S. Romolo ad oriente.
Questa possibilità di un'Albintimilium straordinariamente più estesa di Ventimiglia, l'area principale ma non unica dell'antico municipio, che per tante ragioni conservò pur modificata l'antica nominazione, giunse estranea all'Aprosio ed al Lanteri, tesi, anche per limiti culturali, a creare un calco romano di Ventimiglia medievale, e a lei prossimo per forma, siti e dimensioni.
Neppure essi presero in considerazione certe ammissioni storiche, quale quella che dal Giustiniani si continuò a sostenere in relazioni pubbliche e private del loro tempo e cioè che la realtà municipale romana di Albintimiliium fosse da identificare più coll'area diocesana di Ventimiglia che coi siti della città sede del Vescovo: il discepolo dell ' Aprosio, Domenico Antonio Gandolfo, sostenne e scrisse "esser la Diocesi di Ventimiglia tipo sino al porto nominato Rotta verso S. Remo della pagana Intemelio" ma rimase inascoltato dal vecchio e geloso maestro .
Angelico Aprosio fu un buon bibliofilo ma anche un ombroso difensore delle proprie idee o forse soprattutto in questa circostanza -peccato invero veniale per un'epoca in cui -come già suggerito- i reperti della classicità venivano spesso volutamente dispersi o "massacrati" col vomere- non intese approfondire in pubblico alcune sue giovanili scorrerie sui ruderi dell'area "nervina", da dove raccolse le prime lapidi e soprattutto le prime monete di una raccolta antiquaria, oggi dispersa e già in parte usata per acquistare libri, ma nel 1600 ancora ricca e ben nota, come la Pinacoteca, quale prezioso arredo della Biblioteca che egli sistemò a Ventimiglia: un arredo che putroppo, come di seguito si leggerà, fu in gran parte devastato dai miliziani austriaci di metà settecento (alcuni quadri sopravvissero, benché molti fossero dati alle fiamme per scagliarli, in assenza di munizione, sugli assedianti francesi ma della "nummoteca", cioè della raccolta di medaglie e monete antiche nulla si seppe proprio da quegli eventi calamitosi e guerreschi)
Oggi, stranamente, il frate giunge ancora più utile per quanto ignorò di Albintimilium in merito ai suoi interessi di raccoglitore e catalogatore.
Privo di intenti storici ma curioso delle antichità, ispezionò in superficie l'area tra Roia e Nervia, da dove raccolse casuali reperti: per quanto scrisse non individuò altro che ruderi, neppure segnalò edifici ancora attivi nell'area nervina, mai parlò di fortificazioni, ponti sul Nervia, di attracchi per imbarcazioni o di edifici religiosi.
Poiché fu dettagliato nel descrivere altri siti del Capitanato di Ventimiglia, almeno sulla linea costiera sino agli edifici urbanistici e religiosi della dipendente Villa di Bordighera, tutto lascia pensare che nella seconda meta del XVII secolo l'area nervina, già paludosa per gli straripamenti di Nervia e Roia, fosse sede di casali rurali, di sparse aree coltivate, che vi fosse una certa attività umana, connessa anche e forse soprattutto alla locale prebenda vescovile, ma che, oltre alla Bastia (o Bastita e al Convento di S. Agostino (e già ci si trovava abbastanza lontani dal nucleo demico principale della città imperiale) non vi si potessero riconoscere altri grossi edifici pubblici o privati.
Solo rovine! Eppure documenti antichi, ignoti al frate, parlavano di un'area "nervina" ancora ricca di strutture operative, polivalenti nel XIII secolo, e, sino quasi ai tempi aprosiani, non mancano riferimenti a organismi militari o perlomeno alla manutenzione di luoghi di culto in tale area!
A questo punto occorre fare riferimento a quanto scrisse lo stesso Aprosio alludendo più volte all'eccezionale piovosità del clima del XVII secolo, con gravi danni arrecati al territorio intemelio, già minato dal terremoto del 1564, che aveva rovinato molti antichi edifici, senza che vi si fosse potuto porre celere rimedio, per i disastri quasi contemporaneamente causati dalle incursioni piratesche del XVI secolo e dalla pestilenza del 1579-80 .
Per il terrore della peste l'esposta linea costiera dell'area "nervina", naturale attracco di appestati disperati e in folle fuga, venne abbandonata dai coloni, che si rifugiarono nella città e nelle sue ville.
Il Signore di Monaco Onorato Grimaldi il 26 aprile 1580, denunciando che "...quelli di Nizza tengano il male nascosto per conto delli vicini e che sotterrano i morti di notte... ", tenne desta la preoccupazione degli intemeli Ufficiali di Sanità, che aveva invitato a guardarsi da quanto potesse arrivare sulla costa, specie quella meno controllabile, invitandoli a farla frequentare da guardie, meglio se riconosciute immuni alla Morte Nera, pronte a distruggere ogni materiale potenzialmente infetto che vi venisse portato anche dalla semplice deriva: " ... e quando anco straccassero sevi o altre robbe di lana o di lino o di altra qualsivoglia materia dopo di haverne fatta notizia a noi altri siano effettivamente abbruggiati però con la debita cautela e risguardo di non toccarle né maneggiarle in conto alcuno ma con legni o pertiche lunghe quali ancho si abbrugino..." con l'invito "... che provediate rigidamente accio che quelli che trovassero simili robbe accecati dal guadagno senza denuntiarle non si le ritenessero... ".
In tal clima di calamità naturale l'area "nervina" divenne terra di nessuno, le colture si abbandonarono e i corsi d'acqua, mal arginati, deviati dai terremoti e dall'inizio di una lunga piovosità, trasformarono la zona in un vasto acquitrino, reso nefando dalle carcasse di molti animali domestici lasciati morire allo stato brado, così che, mentre le acque disseppellivano antichissimi ruderi, edifici più recenti furono abbandonati al degrado totale.
E' poi generalmente ignoto che, mentre le piogge torrenziali continuarono a falcidiare l'area "nervina" almeno sino ai primi decenni del XVIII secolo, il territorio del Capitanato intemelio fu investito da calamità belliche così gravi che ne modificarono la struttura geofisica.
I grandi frati di S. Agostino, il convento fuori mura ad oriente del Roia, che resero celebre la biblioteca che fu dell'Aprosio, erano morti e i loro mediocri successori erano ormai impegnati solo in opere di manutenzione, ristrutturazione degli edifici e delle proprietà agricole.
Nel prosciugare i siti e nella loro risistemazione a coltura forse si imbatterono in reperti antichissimi che l'ignoranza o la semplice urgenza consigliarono però di accantonare o distruggere.
Poi, dopo una breve pausa, l'agro intemelio fu colpito dalla guerra: dal 1745 al 1748 fu sede di scontri tra alleati Austro-Sardi e Franco-Ispani, nell'ambito del conflitto per la successione al trono imperiale di Vienna.
Nel 1747-48, mentre i Gallo-Ispani tenevano una ben fortificata Ventimiglia medievale, gli Austro-Piemontesi controllavano l'area "nervina" e le alture dove, su preesistenti, antichi trinceramenti, si costruirono ridotte e fortilizi aventi i capisaldi (contro il forte di Ventimiglia) in S. Giacomo, Siestro e particolarmente nella Cassina dal di lei Padrone nominata del Moro .
L'area nervina risultò ancora più modificata: la testa delle fortificazioni fu sistemata nel Convento di S. Agostino, dove furono rinforzate le muraglie e la porta della Chiesa venne murata chiudendosi invece con calcina quella del Chiostro.
L'edificio, tenuto da due compagnie di Austro-Sardi, rimase un po' staccato dai restanti trinceramenti, costituiti da un cammino coperto, che procedeva dalla Cappella di S. Secondo sino alla località delle Asse verso il mare.
Da questo sito le trincee e le Cassine armate si estendevano ininterrottamente sino alla potente artiglieria sistemata nel Palazzo Orengo... su la cima d'un Pogio prima d'entrare in la Nervia che, dall'analisi cartografica, doveva trovarsi nell'area oggi detta di Colla Sgarba .
Oltre il torrente dall'ampio estuario, su un isolotto formato in prossimità della foce, forse sorgeva un'ulteriore batteria raggiungibile con un ponte ligneo e da questa per mezzo di un guado si accedeva alla ridotta di S. Ignazio provvista di una piccola fortificazione.
Vincenzo Orengo, testimone oculare di queste note, parlò di gravi danni campestri, per 300.000 lire genovesi, e della distruzione di 12.000 alberi d'Ulive... e delle vigne, lamentò l'aumento dei prezzi e l'impoverimento delle genti, il furto di oggetti preziosi da case e chiese: descrivendo le fortificazioni realizzate nell'area "nervina", in particolare, precisò che erano state facili "per essere quei siti paludosi e dal terreno molle".
Lo stravolgimento dell'area tra Roia e Nervia fu inteso e soprattutto condotto su luoghi altamente urbanizzati al tempi di Albintimilium: il fortilizio Orengo, le ridotte Stella, delle Rovine, di S. Ignazio sorgevano sopra aree di sicuri insediamenti romani, e non è improbabile che il materiale archeologico che dal XIX secolo circondava, ai Piani di Vallecrosia, la Cappella di S. Rocco fosse stato recuperato nel corso di quegli interminabili lavori militari.
Indubbiamente tali alterazioni dell'agro nervino costituirono, coi successivi lavori di risistemazione dell' area agricola, il viatico per ritrovamenti abbastanza facili di materiale romano, prima avvenuti, per casualità, da parte di contadini e poi organizzati scientificamente secondo una linea antiquaria, che decollerà nel secolo scorso grazie a Girolamo Rossi.
Tuttavia non si può far a meno di raccomandare all'attenzione degli appassionati e soprattutto degli studiosi l'opera dell'Aprosio che, con tutti i suoi limiti congeniti e peraltro epocali, fu il primo a ipotizzare con sicurezza la topografia della città romana di Nervia. Resta facile pensare che egli, sempre così sibillino a fronte di verità da dire a denti stretti, abbia appreso più di quanto si sia poi lasciato andare ad ammettere: per questo giunge interessante, soprattutto per gli storici e gli eruditi, sondare il suo vasto apparato manoscritto, in particolare (oltre a cercare con un filo di speranza le Antichità di Ventimiglia forse non perse ma mascherate entro qualche altra opera maggiore , La Biblioteca Aprosiana parte II inedita, per esempio? ) scorrere il suo Epistolario o meglio quello dei suoi Corrispondenti custodito presso la Biblioteca Universitaria di Genova nel Fondo a lui intitolato (forse la durissima lettura delle infinite lettere che gli scrisse un altro erudito antiquario, raccoglitore di epigrafi, come Ovidio Montalbani di Bologna potrebbe davvero riservare qualche impensabile sopresa, soprattutto agli studiosi di epigrafia antica e romana in particolare: ma è davvero opera da titani...speriamo che qualche volonteroso vi si dedichi!) [per la fondamentale bibliografia del lavoro si rimanda a B. Durante - M. De Apollonia, Albintimilium antico municipio romano, Gribaudo, Cavallermaggiore, 1988, parte II, cap. I].











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GIROLAMO ROSSI E LA MODERNA ARCHEOLOGIA: ALBINTIMILIUM TORNA ALLA LUCE:
Quando
Girolamo Rossi intraprese gli scavi a Nervia, nella seconda metà dell'800, non aveva tempo per analisi o riflessioni su vasta scala: lo frenava unalegislazione ancora imperfetta in campo archeologico, che permetteva un pullulare di scavi clandestini, che andarono ad alimentare un fiorente mercato antiquario e alcune raccolte private solo parzialmente recuperate, in seguito, dallo Stato (N. Lamboglia, Girolamo Rossi, 1831-1914, in "Rivista Ingauna Intemelia", 1964, pp. 1 sgg.).
Paolina Biamonti, importante latifondista di Nervia, anche per un senso di rivalsa sul Rossi, che nel 1877 aveva fatto espropriare il teatro romano scoperto sulle sue proprietà, incentivò il lavoro dei "tombaroli" e vendette per lucro i reperti trovati.
Un ricco albergatore di Bordighera, Francesco Daziano, pure alimentò gli scavi clandestini ma vendette solo una parte del materiale: egli era infatti anche un collezionista e organizzò un vero e proprio museo in un rapporto di collaborazione, in tempi recenti dimostrata però densa di rapporti complessi, talora cordiali ma mediamente non sempre lineari come ha dimostrato G. Mennella, col Rossi.
Anche il sacerdote Giorgio Porro, proprietario di fondi a Nervia, allestì una propria raccolta e, saltuariamente, collaborò col Rossi, ma alla sua morte quasi tutti i reperti passarono al Daziano (N. Lamboglia, Le "Notizie degli Scavi" di Girolamo Rossi, 1876-1908, in "Rivista Ingauna Intemelia, pp.31 sgg.).
Tra il 1882 e il 1887 una "ricca signora", come usava definirla il Rossi, l'anziana marchesa inglese Cora Kennedy Sada, trasferitasi col marito dal Sud America a Sanremo, iniziò ad arricchire la propria villa con pezzi comprati dalla Biamonti, con reperti sottratti agli scavi del Rossi da veri e propri furfanti o trovati da antiquari dilettanti.
La Kennedy Sada, in 5 anni, organizzò un bel museo e ne fece pubblica mostra nel 1885 all' "Hotel Londra" di Sanremo: fu quella l'unica volta che il Rossi, attentamente evitato dalla "signora", potè vedere "in rivista di volo" i reperti e le lapidi sforzandosi di memorizzare al meglio quel materiale, sul quale gli fu impedito di registrare appunti scritti (Albintimilium, p.177).
La nobildonna inglese trasferì nello stesso anno la raccolta nella villa di S. Guglielmo presso Tortona: qui dimorò sino alla morte, concomitante, sua e del marito, avvenuta nel 1889 (ibid., p. 177.
Il Rossi non venne però a conoscenza immediata della sua scomparsa e così la collezione si disperse, tranne 8 delle 11 lapidi che gli ultimi eredi,



















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