INFORMATIZZ. B. DURANTE

NELLE IMMAGINI ANTIQUARIE SI VEDONO DUE SCORCI CARATTERISTICI DELLA NAPOLI OTTOCENTESCA: NELLA I IMMAGINE SI VEDE UN DETTAGLIO DELLA POPOLARISSIMA CHIESA DI PIEDIGROTTA MENTRE NELLA SECONDA RIPRODUZIONE SI VISUALIZZA UN PARTICOLARE DI VITA CITTADINA A SANTA LUCIA.

















"La CANZONE non poteva nascere che nella NAPOLI OTTOCENTESCA, dove la realtà era fantasia, la povertà filosofia, il dialetto poesia, il frastuono musica.
Non poteva avere che cantori istintivi, sensibili, appassionati, innamorati.
La poesia, a Napoli, era espressione corrente, dialogante; la musica coinvolgente, perché nasceva da una tradizione colta, quindi matura, come dall'immediatezza istintiva popolare.
Anche se risale al 1200 la prima filastrocca JESCE SOLE integralmente riportata da G.B.Basile), la nascita della canzone napoletana come forma d'arte indipendente, può meglio indicarsi nel 1835.
Risale a questa data Te voglio bene assoje, una barcarola che l'autore dei versi, l'ottico Raffaele Sacco, poeta estemporaneo, disse musicata da Gaetano Donizetti, in quel tempo a Napoli per presentare Lucia di Lammermoor.
In casa di amici riunitisi per la Festa di Piedigrotta, il poeta presentò in anteprima la canzone.
Dalle finestre aperte, l'orecchiabilissimo motivo fu ascoltato dai passanti in festa e ricantato per le strade.
La canzone era entrata nella tradizione di Piedigrotta, in occasione della festa del 7 settembre celebrata attorno alla Chiesa edificata nel 1616 in onore della Madonna presso una grotta ritenuta sacra. Leggenda o verita?. .. L'una e l'altra insieme ad intersecarsi in questo suggestivo mondo canoro, dove 'A tozza 'e café la si chiede cantando e si blandisce un ministro sussurrandogli Torna a Surriento.
Leggende e verità che accompagneranno questo magico momento, che avrà il suo periodo di splendore nell'ultimo ventennio del secolo, quando nasceranno le più belle canzoni di tutti i tempi, scritte da ispirati poeti, musicate con le note della poesia, interpretate da straordinari artisti che fecero la fortuna del cafe-chantant" (Pericle Pratelli da Il Museo dell'Italia che canta, Erio's edizioni, Vallecrosia, 1989, p.13).



















JESCE SOLE costituisce la prima canzone del repertorio classico partenopeo e vien fatta risalire al XIII secolo: era verismilmente una vecchia filastrocca popolare il cui testo è stato tramandato alla contemporaneità grazie alla penna feconda di GIAMBATTISTA BASILE che per intiero la riprodusse entro una novella della quarta giornata del suo Cunto de li cunti.
Secondo alcune interpretazioni Jesce sole rappresenterebbe una sorta di pagana invocazione al sole probabilmente conservatasi sulla scorta di certe sopravvivenze cultuali precristiane.
Tramandata per via popolareggiante da generazioni di scugnizzi che l'hanno cantata per le piazze e i vicoli di Napoli (secondo Luigi Serio la filastrocca sarebbe stata specificatamente cantata dai ragazzini allorquando si imbattevano in 'na maruzza cioè una "lumaca" cui appunto si sarebbero rivolti cantilenando jesce jesce corna ca mammeta te scorna) JESCE SOLE è comunque e soprattutto un fenomeno di archeolettarutura: costituisce infatti in ordine cronologico la prima cantilena vernacolare napoletana di cui sia rimasta testimonianza ad onta dei cambiamenti e delle rielaborazioni subite (Guglielmo Cottrau, Gaetano Spagnuolo, Ferdinando Galiani, ecc.) che hanno portato alla stesura attuale del testo.

JESCE SOLE
Jesce jesce sole/
scagliento imperatore/
scanniello mio d'argento/
che vale quattuciento/
jesce jesce sole//

centocinquanta tutta la notte canta/
canta viola lu masto de scola/
masto masto mannancienne presto/
ca scenne masto Tieste/
cu lanza cu spada/
cu l'aucielle accumpagnata/
Jesce jesce sole/
scagliento imperatore/
scanniello mio d'argento/
che vale quattuciento//

jesce jesce sole/
sona sona zampugnella /
ca t'attacca la vunnella/
la vunnella de scarlato/
si nun sona te rompo la capa/
sona sona zampugnella/
ca t'attacca la vunnella/
la vunnella de scarlato/
si nun sona te rompo la capa//

Jesce jesce sole/
scagliento imperatore/
scanniello mio d'argento/
che vale quattuciento/
jesce jesce sole//

nun chiovere/
nun chiovere/
ca aggia ire a movere/
a movere lu grano/
de masto Giuliano/
Masto Giuliano/
manname na lanza/
ca aggia iere in Franza/
da Franza a Lombardia/
dove sta madama Lucia/
nun chiovere/
nun chiovere//

Jesce jesce sole/
scagliento imperatore/
scanniello mio d'argento/
che vale quattuciento/
jesce jesce sole/



















GIAMBATTISTA BASILE vide la luce in Napoli verso il 1575 da famiglia povera.
isilluso dalle prime esperienze poetiche, fatte in sintonia con l'amico Giulio Cesare Cortese tentò la fortuna arruolandosi nell’esercito veneziano .
Nel possesso repubblicano dell'isola di Candia, si segnalò quale soldato, maanche come compositore di rime: ciò gli favorì la protezione di importanti famiglie veneziane come quelle dei Malipieri, dei Mocenigo e dei Morosini.
Dal 1610 (o 1612) risiedette a Mantova quale gentiluomo del cardinal Gonzaga: si trasferì quindi a Napoli dove ottenne diversi incarichi da governatore in Montemarano, Lagonegro e Giugliano, località ove, improvvisamente (28 febbraio 1632) morì lasciando allo stato di manoscritto quello che fu i suo capolavoro e che costituisce uno degli scritti più freschi e genuini del barocco, in cui la ricerca dell'arguzia si coniuga bene con una efficacissima rappresentazione della vita popolare.
Si tratta della raccolta di favole e novelle pubblicate postume, nel 1634 ed in volumetti dall'aspetto piuttosto dimesso, sotto il titolo “Lo cunto de li cunti o vero lo trattenimento de’ piccerille”, ed in cui il Basile venne indicato sotto lo pseudonimo, adottato sin dal 1615, di Gian Alesio Abbattutis.
L’opera che risulta strutturata in cinquanta racconti distribuiti in cinque giornate in dipendenza anche della fortuna riscontrata tra i lettori fu quindi ripresa da da editori successivi e fu spesso intitolata, data appunto la distribuzione del materiale narrativo, quale Pentamerone: venne poi con successo volta dal dialetto napoletano in lingua italiana ad opera di Benedetto Croce per i tipi dell'editrice Laterza (Bari) nel 1923.