Inf. a c. di B. Durante

"LA R. FREGATA EURIDICE COMANDATA NEL 1838 DA FRANCESCO SERRA DURANTE IL VIAGGIO NELL'AMERICA DEL SUD (DIPINTO DI TIBAUD, NELL'ARCHIVIO SERRA BONASSOLA" [RIPRODUZIONE DA STORIA DELL'EMIGRAZIONE ITALIANA IN ARGENTINA (1810-1870), MILANO, 1940 DI NICCOLO' CUNEO]













La situazione degli stranieri al Plata peggiorò dopo il 1841, in funzione dell'ulteriore inasprimento, a partire dal 1840, del regime del dittatore Rosas.
Le proteste dei Consoli erano vane.
Il Picolet pensava che la loro voce sarebbe stata udita solamente quando una nave da guerra, di stazione in quei mari, avesse dato l'appoggio della sua minaccia alle domande di giustizia.
Già la corvetta Euridice, al comando di Francesco Serra era stata di stazione al Rio della Plata ed a Rio de Janeiro negli anni 1836-1838 e prima di rimpatriare aveva navigato sul Rio delle Amazzoni.
La decisione di stabilire una STAZIONE NAVALE sul Rio della Plata fu presa da Carlo Alberto solo nel 1837 per tutelarvi gli ingenti interessi dei Sardi e mantenere la disciplina fra gli equipaggi dei legni mercantili.
I1 5 febbraio 1842 il Picolet riceveva la lieta notizia che il suo voto era stato appagato e che la fregata Des Geneys era arrivata a Montevideo.
La comandava l'ammiraglio GIORGIO MAMELI padre di Goffredo, che nel settembre 1825 aveva bombardato Tripoli.
Ma le grandi dimensioni della nave non permettevano al Mameli di risalire il Plata sino a Buenos Aires, ed il Picolet s'augurava che arrivasse presto il brik Eridano che comandato da Carlo Persano, era stato destinato come nave scorta alla Des Geneys.
Quando il Mameli arrivò a Montevideo, tutto faceva prevedere prossima una grave crisi.
Il Rivera con duemila uomini era passato nell'Entre Rios per unirsi al Generali Paz, Lopez, Ferre Governatore di Corrientes, e poiché dicevasi che il generale Paz avrebbe presto invaso il territorio di Buenos Aires, erano in questa città cominciati gli assassinii ed il Picolet s' attendeva che si sarebbero rinnovati gli orrori dell'ottobre 18405.
Perciò il Mameli non esito a tentare di risalire il Plata ed il 13 febbraio 1842, dopo una difficile manovra che desto lo stupore e l'ammirazione di quegli abitanti, gettò l'ancora a sei miglia dalla rada di Buenos Aires.
Nessuna nave di tanta portata aveva mai osato avvicinarsi così, e l'impressione fu grande.
Il Mameli visito col Picolet il ministro Arana governatore delegato della città e la figlia del Rosas, ma dal dittatore non poté ottenere udienza.
Mentre preparava una festa da ballo a bordo, cui aveva invitato, con Manuelita Rosas, tutto il Corpo Diplomatico, il 23 febbraio, la Mazorca assassinava, nelle vie della città, in pieno giorno, un suddito sardo.
Gli autori del delitto rimasero impuniti.
A questo omicidio facevano seguito molti ferimenti e sequestri di proprietà sarde, per modo che il Mameli, impotente ad agire sia perché ancorato a troppa distanza dalla città, sia perché le sue istruzioni gli vietassero qualunque mossa ardita, protesto come poté, rimanendo a bordo per oltre un mese, mandando a monte la festa e partendo poi da Buenos Aires senza salutare nessuno dei membri del Governo.
Il Picolet pregò il Mameli di restare ancora ma questi rifiutò dicendo que tout pénétré qu'il était de la justesse de ses observations, il regrettait de ne pouvoir faire autrement que de se conformer aux instructions qu'il avait recues et il ajoutait qu'il avait à se rendre au Brésil où il devait aller chercher des vivres.
Il Picolet si confortava pensando che almeno il Mameli, avendo veduto coi suoi occhi come stavano le cose, avrebbe reso conto a Torino della situazione.
L'immediata utilità di una fregata in caso di pericolo era stata sconsigliata dalla pratica.
Una nave simile aveva comunicazioni troppo difficili con la terra per recare efficace soccorso, ed in tempi ordinari la sua presenza prendeva un aspetto di ostilità verso il Governo, perché stazione abituale per le navi di simile tonnellaggio era il porto di Montevideo.
Il Mameli aveva esortato il Picolet a profittare del suo congedo, ma la difficoltà di trovare persona cui affidare, nel frattempo, il Consolato; il timore che una partenza precipitosa dopo quella della fregata indisponesse un Governo come quello del Rosas, col quale, sino a nuovo ordine, doveva mostrarsi amico, indussero il Console a rimanere ancora.
Si era, difatti, alla vigilia di una nuova crisi: Buenos Aires est dans la situation la plus affreuse, scriveva il 10 aprile 1842 il Picolet.
Rien de ce qui s'est passé jusqu'à ce jour ne peut ègaler en horreur ce dont nous sommes témoins depais un mois.
I reclami al Consolato contro il sequestro delle proprietà di numerosi sudditi sardi diventavano sempre più frequenti.
Il Picolet non tralasciava di insistere presso il Governo Argentino per ottenerne la restituzione, ma la sua voce rimaneva inascoltata.
Ed al Solaro, il quale si faceva talora eco dei lamenti degli interessati, rispondeva che altrettanto inascoltate erano le querele dei Francesi e degli Inglesi.
Del resto egli aveva da un pezzo avvertito il proprio Governo che, mancando a lui la vera e propria veste diplomatica, nulla avrebbe mai ufficialmente ottenuto dal Rosas.
Trascriveva quindi, per il Ministro, una lettera del Mameli in data del 16 marzo, in cui si riconosceva questa necessità e si insisteva perché il Sovrano si facesse rappresentare al Rio della Plata da un Incaricato d'Affari e chiamasse lui ad un'altra meno difficile residenza: Nessuno più del Re di Sardegna, conchiudeva, può farsi rispettare al Rio della Plata, dove conta diecimila sudditi quasi tutti marinai. Con questo Governo, per non essere insultati bisogna fargli intendere che non si vuole esserlo; il generale Rosas è un maleducato, non si guadagna nulla con lui adottando delle buone maniere; egli non è cortese che con coloro che teme.
Contro la promozione del Console di Buenos Aires ad Incaricato d'Affari, s'oppose...il Conte di San Martino.
La Francia, l'Inghilterra ed il Brasile, per motivi comprensibili, erano le sole Potenze che avevano accreditato degli agenti diplomatici a Buenos Aires.
Se il Rosas persisteva, poi, nel suo sistema d'impiccagioni, non era dignitoso per un re prendere contatti con un tiranno così crudele.
La prudenza, la convenienza, la necessità suggerivano che qualche fregata, di tanto in tanto, apparisse sulle rive del Plata, e vi restasse in stazione, perché la sua presenza avrebbe dato ottimi risultati per la tranquillità e la sicurezza dei sudditi sardi residenti a Buenos Aires.
Ma il Picolet, pur essendo un'amabile persona, pretendeva troppo se aspirava a diventare Incaricato d'Affari.
Se il suo desiderio fosse stato appagato, tutti i vice-consoli avrebbero richiesto di diventare ambasciatori.
Vostra Eccellenza avrà notato, conchiudeva egli nella sua lettera al Solaro della Margherita, che sono sempre i Consoli che sciupano le missioni all'estero con l'esagerazione dei loro rapporti. E' una debolezza propria della qualità consolare, caratteristica di tutti i paesi.
Il 4 luglio 1842, dopo quattro anni d'assenza dal Plata, giungeva a Montevideo la corvetta Euridice, agli ordini del comandante nizzardo Maurizio Villarey destinato a sostituirvi il Mameli.
Il Picolet assicurava il Solaro che aveva troppo a cuore il bene del servizio per non eseguire fedelmente le istruzioni che gli prescrivevano di operare in perfetto accordo con il comandante della stazione navale.
Se l'accordo era stato completo fra il Console ed il Mameli, che era uomo d'azione, non potevano, invece, tali rapporti essere così cordiali con il Villarey, troppo pieghevole, troppo diplomatico, troppo amante del quieto vivere con tutti.
Il 23 agosto, l'Euridice non aveva ancora visitato Buenos Aires.
Il Picolet era riuscito a risolvere alcuni affari pendenti e quasi tutti i sudditi Sardi imprigionati a Buenos Aires, con o senza motivi, erano stati rimessi in libertà.
Il 5 novembre il Picolet, che parlava chiaro al proprio Governo, scriveva al Solaro che la stazione del Plata, così com'era allora, non giovava affatto, perché mentre i sudditi del re erano minacciati nelle persone e negli averi, a Buenos Aires le navi inviate a proteggerli non potevano avvicinarsi alla città.
I comandanti della stazione erano legati da istruzioni che potevano essere sconvolte dalle circostanze.
Così era accaduto, nel mese di aprile, al Mameli, obbligato a recarsi al Brasile mentre Buenos Aires diventava teatro di assassinii.
Grandi avvenimenti maturavano intanto in quello scorcio del 1842.
Si prevedeva che il Rosas avrebbe respinta la mediazione anglo-francese fra lui e Rivera, ed invaso il territorio uruguayano.
In ogni modo, il problema della libera navigazione del Parana, dell'Uruguay e quello delle comunicazioni con il Paraguay avrebbero presto suscitato un vespaio poiché diverse navi giungevano a rinforzare le stazioni americana ed inglese al Plata.
Il Mameli doveva, nel frattempo, ritornare a Genova.
Quando la mediazione fu rifiutata, si rivide la compagnia della Mazorca percorrere, musica in testa, guidata dai capi della Polizia, le vie di Buenos Aires gridando: Morte agli stranieri! Morte ai mediatori! Sgozziamo indistintamente tutti gli stranieri!.
E per due giorni la città fu teatro di provocazioni e disordini, mentre il Rosas essendo in campagna rispondeva alle proteste dicendo di non sapere nulla.
Avvenuta la battaglia dell'Arroyo Grande (dicembre 1842) in cui Rivera fu totalmente sconfitto da Oribe, i Ministri di Francia e d'Inghilterra dichiararono al Rosas che volevano si troncasse tosto la guerra fratricida, altrimenti avrebbero prese le misure opportune per farla smettere.
Essi, quindi, non avrebbero riconosciuto il blocco posto dal Rosas a Montevideo e le loro navi da guerra avrebbero scortate quelle mercantili tenendosi pronte a far fuoco sulla squadra argentina se le avesse disturbate.
Intanto l'immobile Euridice, come la chiamava il Picolet, non si faceva vedere a Buenos Aires, non ripeteva il gesto ardito osato dal Mameli, ed il suo comandante, mentre poneva ogni cura nel farsi benvolere da tutti criticava nei suoi rapporti a Torino il Picolet.
Lo riconosceva: rempli de bonnes qualités ma di un carattere trop vif pour savoir se faire bienvouloir.
Insinuava pure d'avere saputo dal Persano che il Picolet non era in buoni rapporti con il Ministro d'Inghilterra a Buenos Aires; che, in genere i capitani mercantili ed i sudditi sardi residenti al Plata, se ne lagnavano; che occorreva un altro uomo per dirigerli.
Il dissidio Villarey-Picolet doveva accentuarsi in seguito al ripetersi di attentati ai Liguri, rimasti impuniti.
Quattro sudditi di Carlo Alberto venivano sorpresi e trucidati presso l'Arroyo della China nella provincia di Entre Rios da un tal Bonifacio, altro suddito sardo, allora comandante la squadriglia del Rosas.
Ma alla formale protesta, presentata al Governo di Buenos Aires, di punire esemplarmente i colpevoli, questo rispose di non poter procedere avendo il Bonifacio dichiarato, nel suo rapporto, le quattro vittime pirati al seguito di Montevideo.
In un momento di sdegno il Picolet scrivendo confidenzialmente al Villarey, il 19 luglio 1843, uscì in questa dichiarazione: Pour moi, quand on assassinerait tous les Sardes qui sont dans le Rio de la Plata, je ne passerais pas de note, a moins que vous ne m'écriviez officiellement que vous me seconderez de tout votre pouvoir.
Il Villarey denunziò a Torino il Picolet per questo sfogo, di cui, poco lealmente, omise l'ultima parte, a moins que ecc., presentandolo quasi come un rifiuto ufficiale ad agire, e provoco quindi una lavata di capo da parte del Solaro al Console.
Questi poté senza fatica ristabilire la verità alterata a suo danno, e ritenendosi, dopo l'accaduto, sciolto da ogni riguardo verso il Villarey svelo a sua volta a Torino l'indolenza di questi, avendone avuta notizia dagli ufficiali del brik Eridano giunto a Buenos Aires proprio nel luglio 1843 al comando del Persano.
Dopo avere descritto alcuni episodi di violenza subiti dai sudditi sardi e tra gli altri l'umiliazione patita da un ufficiale dell'Euridice arrestato dai soldati dell'Oribe senza che il Villarey reagisse come il prestigio della R. Marina Sarda meritava, il Picolet conchiudeva il suo giudizio sull'azione del Villarey con queste parole: ~ Nc, rien faire, et avoir l'air de faire, voila tout cc quc jc vois . I dissidi fra comandanti di Regie Navi ed autorità consolari erano frequenti nel secolo scorso.
La casta marinara, quando si trasferiva in lontane contrade, agiva a proprio talento senza che i mezzi rapidi di comunicazione che si hanno oggi la potessero frenare.
Ai comandanti delle navi sembrava possedere gli attributi assoluti del Governo cui appartenevano scrive il Gonni sembrava loro sentirsi altrettanti piccoli despoti la cui volontà anche nell'ordine civile, costituiva la legge a cui esigevano che altri si sottoponesse.
Non era infrequente perciò che fra comandanti di navi e regi Consoli all'estero sorgessero dissapori, contestazioni, puntigli per meschine questioni di etichetta protocollare, per trascurabili questioni di procedura od altro di simile natura, appunto perché si ritenevano o meglio si credevano autorizzati a far la parte di sovrani in partibus, senza tener conto della condizione delicata in cui erano posti i Consoli nella loro qualità di rappresentanti del Regio Governo.
Il Picolet aveva avuta una soddisfazione dal Rosas il 4 gennaio 1814, ottenendo che venisse fucilato dinanzi ai rappresentanti dei vari corpi d'armata di Buenos Aires, un soldato negro argentino che aveva accoltellato un suddito sardo per le vie della città.
Del resto se il Villarey non aveva mai posto piede a Buenos Aires, neppure la presenza del Persano che vi si era trattenuto quindici giorni e pendant lesquels secondo il Picolet il s'est parfaitement amusé, mais n'a pas eu à s'occuper du service era stata scevra d'inconvenienti per il Console che pure l'aveva ospitato in casa sua con ogni riguardo.
Il Persano, all'insaputa del Picolet, s'era recato dal giudice criminale a perorare la causa d'un suddito sardo, del quale già il Console si era occupato, tanto che aveva ottenuto dal giudice, amichevole assicurazione che presto l'avrebbe messo in libertà.
Il Picolet n'ebbe notizia dallo stesso magistrato, il quale gli espresse il suo stupore per l'azione del Persano perché a Buenos Aires gli ufficiali delle navi da guerra estere non avevano mai trattato con le autorità.
Il I gennaio 1844 il Consolato di Buenos Aires era stato separato da quello di Montevideo.
La separazione si era imposta come inderogabile necessità, a cagione delle accanite ostilità che perduravano fra le due Repubbliche americane.
Il Viceconsolato di Montevideo era elevato quindi a Consolato Generale, rimanendone titolare Gaetano Gavazzo, gia prescelto dal Picolet a sostituirlo.
Frattanto, dal settembre 1844, al Villarey era succeduto nel comando della stazione navale sarda, il barone Augusto Corporanti d'Auvare (nato a La Croix, circondario di Nizza nel 1806) che era entrato nel porto di Montevideo a bordo della corvetta Aquila, il 12 dello stesso mese.
Il D'Auvare aveva iniziato ottimi rapporti col Picolet e questi si diceva felice di poter contare sull'appoggio del comandante della STAZIONE NAVALE SARDA in un momento in cui temeva di vedere a Buenos Aires rinnovate le scene sanguinose del 1840 e 1842.
Difatti nell'agosto 1845, dopo il sequestro, operato dai Franco-Inglesi, della flotta argentina che bloccava Montevideo, regnava in Buenos Aires un'irritazione così viva contro gli stranieri che il D'Auvare si affrettò ad accogliere l'invito del Picolet di recarvisi, e sostenne i suoi reclami per il rilascio degli innumerevoli sudditi sardi, tra i quattordici ed i sessant'anni, arruolati dal Rosas.
Dopo ciò torno a Montevideo dove la sua presenza non era meno necessaria.
Nel settembre, partiti i ministri francese ed inglese da Buenos Aires, poiché il Rosas non aveva accettato le proposte dei loro Governi, fattisi mediatori fra lui e il Governo di Montevideo, rinnovato, inoltre, il blocco della capitale argentina, il Picolet fu pregato da quei diplomatici d'assumere la tutela dei loro connazionali.
Ma i rapporti col Rosas non migliorarono.
In un primo tempo aveva vietato l'esodo verso Montevideo degli stranieri atterriti, e ciò perfino su navi neutre, poi cedette alle insistenze del Picolet e gli concesse le partenze pel momento, ond'egli secondato dal D'Auvare, faceva il possibile per imbarcare almeno tutti i sudditi sardi che gli si presentavano, mentre invocava che la stazione navale venisse rafforzata con altri legni, per potere dare un'efficace protezione agli interessi sardi del Plata, superiori a quelli dei Francesi ed almeno pari a quelli degli Inglesi.
Il prestigio del Picolet era, in questo momento, al colmo; il D'Auvare, vedendo a centinaia sbarcare a Montevideo gli stranieri messi in salvo per le sue cure, gli tributava il 19 ottobre 1845 il suo plauso, scrivendogIi quale ottima impressione avesse prodotto l'arrivo di questa folla cosmopolita.
I fuggiaschi affidavano pure al Console ingenti somme da mettere in salvo, cosa difficilissima dato il veto esistente sulla esportazione di valute metalliche e la mancanza di mezzi sicuri.
Il Picolet si procurò dalla legazione di Francia, prima che abbandonasse Buenos Aires, delle tratte sul tesoro francese.
Poi disse al D'Auvare che se aveva bisogno di fondi ricorresse a lui, rilasciandogli delle traites s~r l'Amiraute Royale.
Scrivendo il 30 ottobre al Solaro, mentre l'ufficio suo era ingombro di duecento persone che chiedevano ansiose l'imbarco, poiché tre giorni innanzi, quasi a monito terribile, una testa era stata trovata spiccata dal fusto-ed era, la vittima, un suddito sardo il Picolet, mentre comunicava gli attestati di gratitudine ricevuti dagli Agenti diplomatici stranieri, ripeteva al Ministro la necessita di avere a Buenos Aires un Incaricato d'Affari, autorizzato pure ad annodare relazioni col Paraguay che la spedizione anglo-francese nel Parana stava per aprire ai commerci.
Il suo voto fu alfine esaudito poiché il 28 gennaio 1846 il Solaro annunciava contemporaneamente a lui ed al ministro Arana la sua nomina a quella carica.
Ma da quest'anno la corrispondenza sia diplomatica sia consolare del Picolet, diventa scarsa e d'interesse secondario.
Egli non poteva che registrare i numerosi e vani tentativi di conciliazione promossi da Francia ed Inghilterra e sempre falliti per l'intransigenza del Rosas.
All'apparire di nuovi negoziatori un barlume di speranza risorgeva circa la fine dell'interminabile lotta fra le due città sorelle; ma la speranza presto dileguava.
Trascorsero fra queste alternative il 1846 ed il 1847 e giunsero alfine le notizie d'Italia a distrarre gli animi degli Italiani dalla sanguinosa contesa civile che straziava le rive del Plata.
I1 13 agosto 1848 la nuova bandiera italiana veniva solennemente inalberata sulla Legazione Sarda e sulle navi che si trovavano nel porto di Buenos Aires, salutata con 21 colpi di cannone dalla nave da guerra La Fama ivi ancorata, e dalla batteria della città.
In meno di ventiquattrore, gl'Italiani residenti sul Rio avevano preparato più di duemila bandiere tricolori, per ornare le loro case, quando giunse il veto del Rosas a qualunque pubblica manifestazione di gioia.
Ci fu allora una festa di famiglia, svoltasi alla Legazione, e la proposta del Picolet di celebrarla con una sottoscrizione a favore delle vedove e degli orfani della guerra d'Italia ebbe esito felicissimo.
Di lì a poco, però, un improvviso provvedimento del Rosas doveva colpire di stupore il Picolet e non lui soltanto.
Nei suoi rapporti a Torino egli aveva sempre avuto cura di accennare come la tutela degli interessi anglo-francesi a lui affidata non alterasse affatto le sue relazioni col Governo argentino che, pretendeva rimanessero ottime ed improntate a cordialità.
Di punto in bianco, pero, quel pericoloso gioco di equilibrio fu troncato dall'espulsione intimata dal Rosas al Rappresentante della Sardegna nel settembre 1848.
Non cl è dato purtroppo sapere la causa del provvedimento ed in qual modo si siano svolti i fatti, mancandoci in proposito ogni documento del Picolet.
L'eccezionale peripezia è riferita unicamente in un succinto rapporto del Console Sardo a Montevideo, dove il Picolet si era recato per imbarcarsi alla volta dell'Europa e che l'attribuisce al ~ di~favore nel quale era incorso presso il Governo del Rosas a cagione dell'incarico statogli conferito e da esso assuntosi di tutelare e proteggere gli interessi e le persone dei sudditi inglesi e francesi.
Tre anni dopo, l'addetto Belloc della Legazione Sarda a Buenos Aires, confermava al Ministro degli Esteri D'Azeglio che: il calore e lo zelo, forse poco misurato, col quale il Picolet d'Hermillon esercitava officiosamente le funzioni di console francese ed inglese, sommamente spiaceva al presidente Rosas che non sapeva adattarsi a vedere il diplomatico di una potenza amica della Confederazione Argentina sposare con tanto impegno gl'interessi degli individui appartenenti a due Nazioni con le quali il di lui governo trovavasi in aperta guerra.
Le opinioni che, intorno al Picolet ed alla sua condotta di Console, avevano manifestato il Conte di San Martino, Incaricato d'Affari a Rio de Janeiro ed il Villarey, anche se in parte erano suggerite dall'antipatia 0 dal rancore personale, avevano un fondo di vero.
Quasi tutti i sudditi sardi che risiedevano al Plata si trovavano, a differenza di quelli di Francia e d'Inghilterra, in una particolare situazione, poiché od erano esuli del 1821 od erano (in massima parte) marinai disertati dalla flotta mercantile.
Il Rosas li tollerava, perché essendo quasi tutti fuggiaschi perseguitati dalla loro legge, erano costretti ad avere meno pretese degli altri, essendo condannati a non vantare mai nessun diritto.
A questa eccezione che il Rosas aveva per loro tacitamente stabilito, i LIGURI s'erano adattati quasi stringendo un reciproco accordo con le autorità locali per uno speciale modo di vita che consentiva alle une ed agli altri d'avvantaggiarsi del lavoro prodotto e dell'ospitalità concessa senza mai darsi fastidio.
Da tale sorta d'intesa che non garantiva nulla di certo ed affidava tutto alla casualità, i Genovesi avevano ben capito che sorgeva, per loro, con la probabilità di far fortuna, il rischio di perdere i guadagni e la vita.
Tutto questo significava che siccome le autorità argentine non avrebbero ordinate inchieste pedanti sul modo con cui i Liguri si fossero fatti ricchi, così, dal canto loro i Genovesi non avrebbero ricorso ad indagini soverchie se qualche conterraneo fosse stato derubato od ucciso.
Lo zelo del Picolet modificò, agli occhi della dittatura, la fisionomia della sudditanza sarda; perché se esistevano anche per questa, tutori di Governi estranei che esigevano il rispetto delle persone e degli averi, potevano pure estendersi a costoro le norme intolleranti della xenofobia federale.
Quando il Villarey assunse quell'attitudine passiva che tanto sdegnava il Picolet, più che amante del quieto vivere, si rivelava forse psicologo accorto, che aveva comprese le lagnanze dei capitani mercantili e dei sudditi sardi che si sentivano oppressi più che protetti dal carattere troppo vivace del funzionario savoiardo.
Il Picolet in assoluta buona fede, dandosi tanto da fare nocque, anzi che giovare, ai connazionali; sposando con troppo impegno la tutela di certi interessi pertinenti molto più ai Franco-Inglesi che non ai nostri, si compromise; chiedendo con troppo precipizio soddisfazione alla dittatura per violenze subite da sudditi sardi che sinceramente spregiava, parve esagerato, si contraddì e indispettì tutti.
La navigazione dei fiumi Parana ed Uruguay era stata proibita agli stranieri dal Rosas sin dal suo avvento al governo, perché, con buona parte degli Argentini, non a torto temeva che le Società di navigazione inglesi e francesi preannunciassero altrettante compagnie di colonizzazione.
Ma questa politica protezionista che interrompeva i commerci del Plata, dato che l'Argentina non aveva ancora navi e marinai propri, avrebbe rovinata la nazione se in soccorso del Rosas non fossero venuti gli equipaggi e gli armatori di Genova che posero a disposizione del dittatore bastimenti e ciurme.
I Liguri facevano un, ottimo affare poiché, esclusi tutti gli altri Stati ed eliminata così la concorrenza, erano arbitri delle tariffe di nolo.
Il Rosas conservava inalterato il suo programma nazionalista di Governo, perché costringeva la flotta ligure ad inalberare bandiera bianco-azzurra.
L'apparenza, almeno, doveva essere salvata.
Genova era finita come potenza politica e non celava quindi nessuna incognita per il dittatore.
I naviganti genovesi, mortificati, si trovavano nell'analoga situazione di certi astuti dominatori d'affari che un istituto bancario sfrutta quando siano andati in malora retribuendoli secondo le tabelle più elevate del contratto d'impiego.
Se i Genovesi esistevano ancora con tutte le loro virtù, mancava pero Genova con tutte le sue possibilità.
Nessuna minaccia potevano apportare, come i Franco-Inglesi, all'indipendenza della Confederazione.
Neppure significava per i Liguri, rinunzia, la sostituzione della bandiera, giacché se il vessillo sudamericano era straniero, lo stendardo sabaudo era per essi forestiero.
Gl'interessi degli Argentini, al tempo del Rosas, e quelli dei Genovesi, al tempo di Carlo Alberto, erano quasi complementari.
L'incubo del dominio franco-inglese per l'uno, l'indifferenza di quello piemontese per gli altri, rendeva quasi mutuo il soccorso che, dall'occasione, erano indotti a portarsi.
I Genovesi toglievano d'impaccio il Rosas con l'offerta dei loro mezzi e della loro perizia; il Rosas veniva loro incontro schiudendo e riservando fiumi e mercati quasi in esclusiva.
Quindi, dal danno che il protezionismo del Rosas arrecava al commercio franco-inglese, germogliava il vantaggio di quello dei sudditi sardi: i loro interessi erano in contraddizione.
E se al rappresentanti della Francia e dell'Inghilterra conveniva agitarsi, a quello del Regno di Sardegna era opportuno tacere.
Per questo, giovava più al sudditi sardi l'immobilità dell'Euridice che non i movimenti della Des Geneys.
Di quanto i sudditi sardi fossero, in ogni occasione, insofferenti della tutela consolare, lo dimostra il Picolet stesso, riferendo a Torino un singolare incidente.
Un mercante bancarottiere ligure, del quale il Picolet non dice il nome, residente a Montevideo e divenuto cittadino uruguayano, era riuscito a farsi nominare Console di Lucca: con facoltà che il Picolet definisce abuso scandaloso, quantunque fosse accordata a tutti i consoli, di rilasciare patenti provvisorie di navigazione a quei bastimenti stranieri che, in seguito a vendita, avessero innalzata la bandiera del suo Stato.
Ottenuto ciò, avveniva che siccome in tutto il Plata, di Consolato lucchese non v'era che il suo, e dato che i diritti consolari dovevano essere pagati dalle navi solamente nei porti ove avessero risieduto gli agenti dello Stato cui la nave apparteneva, quei bastimenti che fossero stati nazionalizzati dalla bandiera lucchese avrebbero navigato pure in condizioni di specialissimo favore: non avrebbero pagato mai diritti, poiché non solo non v'erano consoli, ma neppure Lucchesi.
E poiché il console poteva rilasciare patenti di navigazione, sia pure in via provvisoria, anche a chi non aveva le condizioni richieste, accadeva che i proprietari delle navi, attraverso vendite simulate, inalberassero il vessillo di Lucca, mentre tutti i migliori marinai a turno fungevano da capitani.
Così, in breve tempo, questo mercante provocava una tale diserzione dalle navi sarde, da poter formare per essa interi equipaggi.
Poi copriva con la bandiera di Lucca le navi di costruzione sarda, le faceva comandare da sardi, con equipaggi sardi.
E ciò con un successo tale che Torino era d'urgenza avvertita che se un tale abuso non veniva represso, tutta la marina mercantile sarda sarebbe stata assorbita dalla bandiera di Lucca .
Evitavano il pagamento dei diritti, si sottraevano alla sorveglianza delle autorità sarde, all'obbligo di far comandare le navi da comandanti patentati che dovevano essere pagati di più.
V'erano, addirittura, delle navi che partivano da Buenos Aires con bandiera sarda e tornavano indietro, da Montevideo, con bandiera di Lucca.
E quando il Picolet protesta presso il Dicastero degli Esteri Argentino, si sente a sua volta chiedere dal Ministro Arana, donde siano venuti tanti Lucchesi: dato che sinora sudditi del Principato di Lucca non sono mai esistiti nel paese.
Il Governo del Rosas prometterà di intervenire a togliere l'abuso, ma in effetto lascerà fare.
Il Villarey dava un consiglio più pratico al Picolet.
Permettetemi d'osservare -diceva al Console sardo che lo aveva invitato a prendere le misure necessarie per reprimere la gravità dell'abuso- che per impedire alle navi che vanno da Buenos Aires a Montevideo e viceversa, di prendere la bandiera di Lucca, bisognerebbe stabilire una tariffa esclusivamente per loro, come s'usa dappertutto, e questa misura e tanto più indispensabile in questi momenti critici, in cui gli affari commerciali sono paralizzati a causa della guerra.
I Liguri avevano trovato, infine, il modo di non essere più sardi.
Si fingevano Lucchesi.
protetti da un console, mercante come loro, che li poteva sempre comprendere, all' ombra di una bandiera che non imbarazzava nessuno.
Intorno al 1845, se alcuni sudditi Sardi, spaventati dagli orrori della guerra civile, riparavano a Montevideo, altri, ammaestrati probabilmente da parenti gia immigrati e da amici che s'erano fatti una posizione, sbarcavano in Argentina, provenienti quasi tutti dalla Liguria, pochi dal Piemonte.
Altri Italiani non v'erano, eccettuato qualche Lombardo preoccupato di evitare la coscrizione austriaca.
La reggenza del Consolato Generale di Buenos Aires veniva, intanto, affidata a S. A. Demarchi di Lugano, cancelliere per circa sette anni del Consolato stesso, senza opposizione, ma senza il consenso del Governo Argentino.
Non si nominò quindi, Incaricato d'Affari.
Ma nei primi giorni del 1849 pervenne dal Rio della Plata al Ministero degli esteri, in allora retto dall'abate Vincenzo Gioberti, la notizia di una non lieve malattia sopravvenuta al Signor Reggente che era affetto da nevrastenia.
Tale notizia determinò il Gioberti a provvedere, con sollecitudine, all' importante Consolato.
Volendo conciliare l'economia con l'interesse del servizio, desiderando affidare la protezione dei sudditi sardi a persona pratica dell'ambiente, per suggerimento e proposta dello stesso Picolet, nominava Console generale di seconda categoria un ricco mercante savoiardo, stabilito a Buenos Aires sin dal 1825, Antonio Dunoyer de Mont-Meillan, titolare della Casa di Commercio A. Dunoyer & C..
Ma siccome il Gioberti lo sapeva possessore di cospicua fortuna e lo supponeva pago dell'onorevole posto conferitogli non che del puro provento del Consolato e della cancelleria, non gli fissò nessun assegno personale.
Prevedendo però che per i suoi importanti affari il Dunoyer non avrebbe potuto occuparsi dei minuti dettagli del Consolato, il Ministro Sardo decise edi aggiungere al Console Generale, che doveva occuparsi solo della superiore direzione dell'Ufficio, un vice console congruamente retribuito che potesse consacrarsi esclusivamente al disimpegno delle bisogne consolari .
A tal posto, con Decreto del 3 febbraio 1849, veniva prescelto quel Carlo Belloc che da tanti anni era onorato della preziosa amicizia del Gioberti.
Questo Belloc, giunto a Buenos Aires, venne, il 9 maggio, investito della duplice funzione di Cancelliere e di Vice Console.
La consegna del Consolato al Dunoyer, da parte del Demarchi, non aveva ancora avuto luogo nell'agosto 1849, perché il Governo Argentino non si decideva mai a concedere l'exequatur.
Per di più, il Demarchi, che stava in letto per un nuovo attacco della sua solita malattia nervosa, era ridotto in istato tale da non poter dare al Consolato cooperazione alcuna fuori di quella del consiglio e delle semplici firme.
Ma mentre il Belloc disimpegnava da solo le pratiche del Consolato, per motivi che i rapporti consolari non specificano, si trovo, secondo quello che egli scrive, fatalmente implicato in un conflitto sorto tra il Demarchi ed il Dunoyer.
Perduto il posto, il Belloc tornava a Genova donde inviava, nel 1851, a Torino, al Ministro degli Esteri D'Azeglio, una particolareggiata e seria relazione sulle condizioni economiche dell'Argentina e sul commercio sardo al Plata.
E' questo il primo rapporto che indichi al Governo Sardo, tracciando un quadro obiettivo delle risorse del Plata, quali vantaggi possano i nostri conseguire recandosi in Argentina; quale atteggiamento convenga al Governo d'assumere, per favorire i buoni rapporti fra gli Stati del Re di Sardegna e quelli della Confederazione.
Il Belloc non dipingeva bene la figura del Dunoyer verso il quale conservava un sordo rancore.
Coloro che come il Vanni e Carlo Ferraris egli diceva avevano vissuto per molti anni in intimità col Dunoyer, quali soci della Casa Mosca, Dunoyer & Vanni, operante contemporaneamente a Buenos Aires ed a Lione, non avevano gran concetto della sua intelligenza e della sua capacità.
Il Belloc dava per certo al D'Azeglio che i tanto lodati suoi rapporti non erano redatti da lui ma dal suo paesano ed amico Carlo Pellegrini o dal cav. Pietro De Angelis cui il Dunoyer comunicava documenti che l'altro non avrebbe mai dovuto conoscere essendo impiegato argentino e suddito napoletano.
Pare che il barone Picolet l'avesse prescelto come successore per ricambiare importanti servigi pecuniari ricevuti.
Certamente il Dunoyer, sia o no stato quale il Belloc lo dipinge, pareva essere giustamente proposto e raccomandato come Console del Plata.
Le sue relazioni commerciali, esclusivamente francesi, comportavano un gioco d'affari di circa mezzo milione all'anno.
La sua influenza nell'ambiente finanziario argentino era indiscussa: le porte di tutti i Ministeri gli erano aperte.
Lo stesso Rosas lo vedeva con piacere.
Aveva accettata la funzione di Console più come un fastidio che come un onore e quando i giornali del Plata pubblicarono la notizia della caduta du demagogue Gioberti e del disastro di Novara, si guardo un po' d'attorno e disse: a' Tout bien compte, si on ne m'approuve pas tant mieux, car je prevois que cette f... place me donnera plus de tracas que de benefices ,.
Il suo temperamento era freddo.
Quando il Belloc gli chiese di ricorrere direttamente al Rosas per ottenere a favore degli eredi del Cafta la restituzione di quei 160 mila pesos costituenti l' asse lasciato, si sentì rispondere: ~Croyez-vous que je veuille user mon c~dit pour cette ~sere? ,.
La necessità di ristabilire accanto al Consolato la Legazione tuttora deserta, si ripresentava.
+: Io sono del parere, diceva il Belloc, e lo esprimo senza alcuna veduta od ambizione personale, che, per assicurare al Sudditi Sardi colonizzanti le rive del Rio della Plata, la maggiore e più efficace possibile protezione ufficiale, od almeno officiosa, tal quale può esercitarla chi ha un grado diplomatico, sia non solo necessario, ma anche "rgente~ di mandare a Buenos Aires un Ministro Residente, od un Incaricato d'Affari, il quale per integrità, dignità e fermezza di carattere, per dottrina, per cognizioni teoriche e pratiche di commercio e di politica, per spirito di conciliazione e per forza di persuasione, possa esercitare quell'influenza che non è data se non al merito reale e non si ottiene né con i puerili vanti né con la servilità.
Un tal nomo potrebbe per avventura, valendosi con prudenza e destrezza della reale importanza dei servigi resi giornalmente alla Marina mercantile ed all'agricoltura del paese argentino dai coloni sardi, arrivare, col tempo, alla conclusione d'un trattato non solo commerciale, ma anche politico, per cui venisse a cessare lo stato precario ed il pericolo quasi inevitabile d'inique spogliazioni cui essi devono giornalmente soggiacere per essere o male o freddamente protetti.
Gia il Dunoyer aveva avvertito nel 1850 che il commercio inglese aveva, è vero, molta più importanza al Plata di quello francese e di quello nordamericano, ma soggiungeva che se si fossero considerate le somme impiegate nel piccolo traffico condotto dai Sardi in Buenos Aires (e sopra tutto nei diversi punti dei fiumi La Plata, Uruguay e Parana, specialmente sui bastimenti di cabotaggio) l'importanza del commercio stesso, ivi compreso quello con I'Europa, sarebbe stata molto più grande di quello che generalmente sembrava.
Se i nostri connazionali non posseggono grandi, fortune concludeva il Dunoyer posseggono però tutti qualcosa e sono numerosi .
Difatti, tolto il blocco, l'Argentina aveva preso uno sviluppo straordinario ed era sorto in Buenos Aires un lusso mai esistito.
Il contatto con gli stranieri che crescevano di giorno in giorno, era un incentivo a nuove necessità.
Difatti il Belloc aveva appreso dal giornale ufficiale argentino Gaceta Mercantil che dal 1° settembre 1849 al 1° settembre 1850 erano approdati a Buenos Aires trentatré bastimenti provenienti da Genova che raggiungevano le cinquemila settecentoocinquantatre tonnellate.
Essi avevano trasportato millecentoquarantasei passeggeri, e carichi di vino, olio, pasta, stole di seta, carte, cappelli di paglia, manifatture, camicie di cotone, di filo, tegole, mattoni, marmi, lavagne, stoviglie di terracotta, e formaggi, calcolati in massa di un valore tra le trentacinque e le quaranta mila lire ognuno.
Trentatre altri bastimenti avevano approdato, pure, in questo periodo di tempo, nella rada di Buenos Aires, provenienti da Montevideo, dalla vicina costa del Brasile e da altri più lontani scali.
Tolta qualche rada eccezione, i legni di bandiera sarda che facevano gran cabotaggio col Brasile, con l'America settentrionale, con le Antille, partivano da Buenos Aires con carne salata e cuoio, e ritornavano con zucchero, caffè, frutta brasiliana, legnami, tabacchi, acquavite di canna, sigari, tuttociò delle varie regioni intertropicali, oltre a vistose quantità di farine e cotoni degli Stati Uniti la cui industria faceva giornalmente dei passi giganteschi.
La prudenza e la pratica nautica generalmente caratteristiche dei capitani genovesi, la serietà degli equipaggi liguri, la solidità e velocità dei legni di costruzione sarda, divenute ormai proverbiali ~ quelle lontane regioni, facevano sì che per lo più, si preferissero i legni sardi ed i marinai del paese a tutti gli altri e che si pagassero loro volentieri più larghe e generose mercedi.
Emergeva da ciò la non lieve importanza delle relazioni commerciali della Sardegna con il Rio della Plata riguardo all'importazione, ma se si confrontava con quella del commercio di esportazione, essa prendeva delle proporzioni colossali.
Se, difatti, dai legni sardi impegnati nella navigazione di lungo corso e di gran cabotaggio si passava a quelli di minor tonnellaggio limitati al traffici del Rio della Plata ed al suoi affluenti, si poteva affermare che il loro numero stava, col totale, nella proporzione del settanta per cento.
Quei trentatré bastimenti venuti da Genova a Buenos Aires nei dodici mesi compresi tra il 1° settembre 1849 ed il 1° settembre 1850, tornavano tutti al luogo della loro provenienza dopo un soggiorno di due o tre mesi.
Il carico esportato era quasi sempre doppio di quello importato.
Le frequenti diserzioni che costituivano il flagello dei legni di commercio sardi, erano purtroppo inevitabili; la diligenza degli uffici consolari per ottenere dalle autorità locali l'appoggio e la cooperazione, necessari alla loro repressione, erano vane.
Superflui erano stati i passi del Paroldo, allora comandante della stazione navale, per fare arrestare venti marinai disertati dal brigantino Eridano.
Il contegno del capitano di vascello Alberto Paroldo che aveva sostituito inoltre il Persano nel comando del brigantino Eridano, non era stato dignitoso, e quando 1'11 ottobre 1850 Cavour divento Ministro della Marina deferì il comandante ad un Consiglio di Guerra che si limito, nella primavera del 1851, a negargli un certificato di buona condotta invece di sentenziare il suo allontanamento dalla Marina.
Con sua lettera del 22 dicembre 1850, al contrammiraglio D'Auvare, diventato Comandante generale della Marina a Genova, il Cavour aveva posto la questione nei seguenti termini: 4:Lettere pervenute a questo Ministero da Montevideo espongono che il Cav. Paroldo, nel suo soggiorno a Montevideo, mentre non avrebbe serbato quell'esterno dignitoso contegno che si richiede in 1m comandante di stazione navale, si sarebbe altresì reso colpevole dei seguenti fatti: 1) D'aver tollerato e forse anche favorito un commercio di contrabbando per parte della goletta La Fama armata in guerra e da lui dipendente; 2) D'essere stato, in seguito ad una tresca amorosa con una persona appartenente ad una delle famiglie italiane più onorate di quel paese, percosso, disarmato e gettato a terra pubblicamente da un "omo inerme, come pure di aver ricusato di battersi in duello.
Egli e con la più sentita pena che mi fo a tenere discorso alla S. V. Ill.ma sopra siffatte accuse, dappoiché ove esse fossero vere soltanto in qualche parte, lo ml vedrei nella dura necessita di provocare da S. M. severe determinazioni riguardo al signor Paroldo.
Dal documenti del Ministero degli Esteri pervenuti al Cavour, si ha la chiara percezione che se proprio di contrabbando non si può discorrere riguardo alla goletta La Fama, qualcosa d'irregolare e di non precisamente corretto sulla medesima goletta s'era dovuto operare.
Inoltre, se appare non vera l'accusa fatta al comandante Paroldo d'avere ricusato una partita d'armi col suo insultatole e percuotitore, la sua poco corretta condotta e la tresca amorosa da lui intrecciata in una famiglia di nazionalità sarda appaiono evidenti.
~ Ma oltre a ciò, prosegue il Gonni, si viene a conoscenza ch'egli non aveva saputo cattivarsi la stima dei suoi subordinati, verso i quali trascese a parole e ad atti, nonché in rapporti alterati a loro carico, che dovette poi ritirare perché suggeriti da uno spirito di prevenzione contro di loro, e non ispirati a quel senso di equità colla quale appunto si può ottenere la disciplina dai propri dipendenti.
Così comportandosi s'alienava l'animo dei marinai che, potendo, abbandonavano la nave non appena vi s'imbarcava Paroldo.
<< Partendo dalla hase certa scriveva il Belloc che sopra i seicento legni sottili portanti da quattro sino a sessanta o settanta tonnellate e continuamente in corsa, quattrocentoventi almeno siano Sardi leano ed equipaggio, non avendo d'argentino che il nome, ben di leggieri si comprende quanta sia l'importanza dei valori che vengono spediti alla terra natia, sia in cuoio, sia in lana, in ferro rotto, in sego, in crine, nervi di bue, da questa numerosa e stabile classe di utili cittadini.
Come era vero, inoltre, che la navigazione del Parana, dell'Uruguay e dei numerosi loro affluenti, fosse interdetta a bandiere diverse da quella della Confederazione Argentina e della Repubblica Orientale dell'Uruguay, non era meno vero, che, << sopra dieci navi facenti quel traffico, sette, se non più, fossero legni o costruiti nei diversi cantieri della Liguria, o costruiti sulle rive del Plata da artefici liguri, i quali realmente o non posseduti da armatori sudamericani, erano equipaggiati da marinai sardi, che, oltre il vitto, erano soliti ricevere al mese una mercede non mai inferiore a dodici pesos forti d'argento (65 lire) e ben sovente quattordici, sedici, diciotto ed anche venti: cioè 70, 80, 90 e 100 lire.
Quasi come complemento della navigazione, i sudditi sardi avevano impiantato al Plata l'industria delle costruzioni navali +: e chi (come abbiamo gia visto) si fosse trasportato al suburbio di Buenos Aires denominato Boca, v' avrebbe visto con senso d' amor patrio profondamente soddisfatto, una piccola città di duemila anime, esclusivamente popolata di Liguri; quasi interamente composta d'uomini adulti e si sarebbe, per incantesimo, illuso, udendo il dialetto genovese generalmente usatovi, di vivere ancora sul litorale della solerte Liguria.
Si poteva, inoltre, calcolare, che i nove decimi dei poderi, chiamati quintas (a Torino, << vigne >>) fossero coltivati da coloni di nazionalità sarda.
Perciò, chi sulla Piazza delle Erbe di Buenos Aires avesse parlato italiano od un dialetto degli Stati di terra ferma di S. M. Sarda, poteva esimersi dall'imparare lo spagnolo.
Poiché mancavano i mezzi adatti a procurarsi dati positivi a cagione del disordine delle amministrazioni municipali, non era possibile riferire il numero esatto dei nostri.
Alcuni lo facevano ascendere a trentacinquemila, altri a trentamila, altri a venticinquemila; ma nessuno lo valutava inferiore a ventimila.
Il Belloc, facendo le cifre tonde, credeva di non allontanarsi dal vero affermando che il totale dei nostri emigrati al Plata oscillasse fra i venticinque ed i ventisei mila.
La popolazione sarda, in Argentina, era composta per tre quarti almeno di adulti, esercenti, tutti, utili mestieri o professioni da cui ritraevano tali mezzi da consentire loro non soltanto una vita comoda ma anche la possibilità di certi risparmi << che si riversavano in gran parte sulla madrepatria a beneficio dei membri della famiglia rimasti a custodire i paterni lari.
Circa l'approssimativo valore dei beni mobili ed immobili posseduti dai sudditi sardi, il Belloc credeva di poterlo stimare intorno a settanta milioni di franchi almeno, senza tenere conto della media dei capitali singoli che poteva aggirarsi sulle ventottomila lire S'erano gia formate fortune ragguardevoli.
Per esempio a Vincenzo Gianelli di Lavagna si attribuivano due milioni di lire, a Giacinto Caprile un milione, al Dunoyer 700 od 800 mila lire, al fratelli Migone un milione.
V'erano pure da duecento o trecento negozianti armatori e costruttori navali, che godevano tutti buon credito, con una agiata ed onorata posizione commerciale.
Il quartiere di Lorra, mercato principale dei generi di esportazione (frutos del Pais) era circondato da splendide case di proprietà sarda, che rendevano non meno del 18 e 20 per cento.
Tale Repetto possedeva case£~2iati valutati trecento o quattrocento mila pesos carta.
o~ no~ che navigare allora sul Plata era tutt'altro che semplice, perché mentre sino a Montevideo la navigazione non offriva che lievi pericoli facilmente evitabili, da Montevideo a Buenos Aires il letto dell'immenso fiume era seminato di bassifondi, di banchi o impedimenti composti di materie dure e resistenti, e che non di rado provocavano sinistri ed avarie.
Mentre il porto di Montevideo, bacino quasi circolare di quattro miglia di diametro, era sufficientemente profondo, ed offriva ottimo ancoraggio ed era sicuro anche nei tempi procellosi, essendo riparato da due promontori, la rada di Buenos Aires, invece, era aperta a tutti i venti; il suo fondale era cattivo e l'acqua così poco profonda che i bastimenti i quali superavano le cento tonnellate erano obbligati ad ancorarsi ad una distanza di due, tre, quattro ed anche cinque miglia dalla città.
Perciò lo sbarco delle merci riusciva difficile, costoso, pericoloso, con perdita di tempo e denaro e spesso inattuabile.
S'aggiunga che a Buenos Aires sovente soffiavano venti impetuosi fra i quali primeggiava il pampero.
In un anno il Belloc aveva constatato che per tre violente burrasche erano stati dichiarati non più atti alla navigazione, a cagione delle sofferte gravissime avarie, da quindici a sedici bastimenti di grossa portata appartenenti a varie nazionalità, fra le quali da~e di bandiera sarda.
~ Molti Italiani residenti in questa provincia, scriveva il 21 maggio del 1851 il Dunoyer, chiedevano al Consolato sardo una patente di protezione.
I Lombardi, in ispecie, credevano d'avervi diritto perché erano stati riconosciuti come sudditi dal Governo di Carlo Alberto durante la guerra del 1848; sopra tutto volevano essere pro tetti dal Console sardo coloro che avevano preso parte alle Campagne.
Altri, invece, s'ammalavano di morbo cronico; resi incapaci al guadagno della vita, dovevano essere rimpatriati.
Un ospedale sardo non esisteva; collocarli in quello argentino era impossibile, poiché, in primo luogo anzi che ristabilirsi vi sarebbero morti a cagione del cattivo trattamento e poiché, in secondo luogo, ~ era mestieri pagare quattro franchi al giorno.
Ma mentre le relazioni economiche diventavano intense e la comunità dei commercianti prosperava, nell'Argentina del Rosas non c'era più posto per gl'immigrati intellettuali che invece erano stati ricercati ed invitati al tempo del Rivadavia.
Difatti, al D'Azeglio che chiedeva se gli intellettuali della penisola esiliati a Torino potessero esercitare la loro professione al Plata od insegnare all'Università, il Dunoyer doveva rispondere che il Rosas non aveva mai avuto intenzione di fondare un'Università che potesse essere fonte d'impieghi per gl'intellettuali emigrati.
L'Università di Buenos Aires, durante la dittatura, non esisteva che di nome.
[testo tratto dal capitolo V del volume di N. Cuneo, Soria dell'emigrazione italiana in Argentina (1810-1870), Milano, 1940]


















"Goffredo morì a Roma in un giorno di luglio. A casa sapevano che era ferito; che le truppe francesi entravano in Roma; perciò Giorgio Mameli partì con un piroscafo di linea, il “Lombardo”, un vapore destinato a diventare famoso per l’impresa dei Mille undici anni dopo. A Livorno seppe da alcuni viaggiatori che il figlio stava meglio: invece era già morto. Non riuscì neppure a vederne le spoglie: Goffredo, vestito con la divisa di capitano delle truppe volontarie, era stato seppellito nella chiesa delle Stimmate: il feretro scortato da alcuni amici e compagni d’arme ridotti a laceri prigionieri e da alcuni soldati francesi". Così Giuseppe Marasco, giornalista genovese, racconta la fine del giovane mazziniano cantore dei Fratelli d’Italia. Lo fa in un libro dedicato non a lui ma al padre del poeta: Giorgio Mameli il capitano delle mezzegalere, pubblicato da Liguria Edizioni Sabatelli nel 1980 e probabilmente difficile a trovare dopo oltre vent’anni.
Giorgio Mameli era un ufficiale della Marina sabauda: ebbe una vita avventurosa e parte molto attiva nella prima guerra d’indipendenza, ma la storia lo ha ignorato. Il suo nome è stato inevitabilmente sovrastato da quello del figlio. Dal lavoro di Marasco - un’attenta ricostruzione documentaria - risalta l’origine sarda dell’autore dell’inno italiano: circostanza non certo inedita (Giorgio Mameli nacque a Cagliari sul finire del Settecento), ma in questo caso dispiegata attraverso precisi accenni storici.
Assalitore, corsaro, ufficiale professionista, idrografo, contrammiraglio, Giorgo Mameli è un autentico personaggio che si muove tra il 1807 (quando entra in servizio sulle mezzegalere nel mar di Sardegna e nel Tirreno infestati da fuste e sciabecchi saraceni, oltre che da navi britanniche e francesi in guerra) e il 1871, anno della sua morte, avvenuta quasi in solitudine a Genova. Il suo grande momento di protagonismo è del 1825, quando con alcune barche cannoniere della Marina Sarda assalta Tripoli per risolvere una vertenza fra il Regno di Sardegna e la reggenza barbaresca: la storia manualesca non gli concede altro. Per tutto il resto della vita - movimentatissima, fatta di gloriosi successi e infine amare sconfitte - egli è solo “il padre di Groffredo Mameli”.
Dice Marasco che "Giorgio Mameli dei Mannelli, tenente di vascello, era venuto fuori dalla piccola nobiltà sarda, quasi equamente distribuita nel tempo fra vascelli e mezzegalere della marina reale, e conventi e vescovati di Santa Romana Chiesa". Figlio d’arte: il padre Raimondo e uno zio servivano sulle navi sabaude alla caccia delle fuste dei bey che scorrevano le coste sarde "per racimolare schiavi da vendere sui mercati di Tunisi e Algeri". Raimondo morì presto, Giorgio fu allevato per qualche anno da uno zio vescovo e aveva soltanto nove anni quando decise di andare anch’egli per mare: determinatissima scelta sfociata in una «furiosa fuga a cavallo attraverso la campagna, in vista di Cagliari dov’era ormeggiata la piccola nave (una mezzagalera) comandata dallo zio». Non sappiamo esattamente da dove, in quella circostanza, arrivasse il ragazzetto «in groppa a un cavallo in una giornata di sole e di vento, già sul mare fatto spuma e risacca». Lo studioso ci dice che il fratello Ciccitta lo attendeva "già arruolato in mezzo alla ciurma brutta, sporca, brutale".
Giorgio si abituò subito alla vita di mare e prese esperienza di arrembaggio alle navi dei mori "a nord dell’isola di La Galithe, a sud-ovest di Sant’Antioco" e «davanti a Cagliari e a Carloforte, sulle coste di casa». Ma avrebbe presto dimenticato "le donne di Sardegna vendute in Barberìa": risucchiato dalla Real Marina che aveva sede a Genova, vi si stabilì trovandosi in un ambiente "irrequieto e fervido di iniziative e di idee rivoluzionarie"; si mantenne tuttavia legittimista, convinto che quello fosse il dovere di un ufficiale della Marina del re. Giovane in carriera, duro, brillante, affascinante, frequentatore della casa della marchesa Zoagli Lomellini (famiglia repubblicana in palazzo di dogi), finì per corteggiarne la figlia Adelaide, ch’era il romantico primo amore di Giuseppe Mazzini. Anche per questo - oltre che per tradizione di famliglia - la giovane patrizia era repubblicaneggiante; ciò non fu d’impedimento a un matrimonio che fece soffrire “Pippo” Mazzini (così Adelaide e i suoi chiamavano familiarmente l’animatore della Giovine Italia, che a Genova pubblicava il giornale d’opinione L’indicatore genovese, successivo al milanese Il Conciliatore).
L’unione, sfarzosamente seguita (nel 1825) alla gloriosa impresa di Tripoli, non fu felice. Dice Marasco che Giorgio Mameli piaceva molto alla marchesa madre (la suocera); ma Adelaide, delicata e gentile, ammaliata dalle gesta di Tripoli, si rese conto prestissimo di avere sposato un uomo che sulle navi comandava bene ed era amato ma in famiglia comandava troppo, era nervoso, autoritario, dispotico. "Appena questi divenne mio marito - scrisse in seguito al figlio Giambattista - mi avvidi che io avea un crudele e bisbetico padrone, il quale volea costringermi a nuove e dure abitudini di cui io ero incapace e per fisico e per educazione. Mia madre fu trattata con asprezza...".
I marinai sardi erano orgogliosi di quell’ufficiale severo, testardo e un poco crudele: «un orgoglio di campanile isolano sul continente», osserva Marasco aggiungendo che i marinai genovesi "lo ammiravano e lo sentivano uno di casa per avere sposato una Zoagli di stirpe dogale" e che certi ufficiali dello stato maggiore non lo amavano" perché egli parlava poco e perché aveva dimostrato di sapere combattere e di saper comandare". Era tra i più valenti ufficiali sulle navi di Carlo Felice e Carlo Alberto, sia nel Mediterraneo che nell’Atlantico; nel ’48 divenne contrammiraglio ed era capo della squadra navale in Adriatico quando venne travolto dalla prima delle sfortunate campagne navali italiane. Giorgio Mameli aveva intanto smorzato il suo convinto legittimismo: non fu mai apertamente rivoluzionario, ma sedette sui banchi della sinistra in Parlamento. Eletto deputato nel collegio di Lanusei, fu rieletto nella quinta legislatura (1853) nel collegio di Cagliari: ma si dimise subito, senza neppure andare alla cerimonia inaugurale a Torino [articolo di Mauro Manunza ].