cultura barocca
INFORMATIZZAZ. DI B. E. DURANTE BIBLIOTECA PRIVATA

RELAZIONE DEL CONQUISTO DEL PERU'

[Traduzione dallo spagnolo di G. Piccini - tra parentesi quadre le note esplicative del compilatore]
[N. d. R. = vedi qui la cartografia e la sfera d'influenza dell'immenso Impero Inca]

Il Mar del Sud [scrive F. Xeres dopo il Proemio] era stato scoperto, gli abitanti della Terra Ferma soggiogati e pacificati, il governatore Pedrarias de Avila avea colonizzata la città di Panama, quella di Natay, e il Castello di Nombre de Dios (del Nome di Dio), all'epoca in cui il capitano Francesco Pizarro viveva nella città di Panama.
Questi era figlio di Gonzalvo Pizarro, gentiluomo della città di Truxillo, e possedeva in Panama suddetta una casa, de' beni, ed il suo numero d'Indiani, come uno de' primarij di quel luogo; giacché egli era stato sempre in questa condizione, e si era segnalato nel tempo della conquista e del colonizzamento, in virtù dei servigi resi al suo sovrano.
Passava i giorni nel riposo e nella tranquillità; ma nutriva continuamente desiderio di persistere nel suo nobile disegno, e rendere alla corona altri segnalati servigi.
Domandò dunque al governatore Pedrarias la permissione di fare delle scoperte nel mare del Sud, dal lato di levante, e spese gran parte de' suoi averi per far costruire un grosso vascello, e comprare gli oggetti necessari al suo viaggio.
Il Pizarro partì di Panama addì 14 novembre del 1524 [Herrera pure fissa all'anno 1524 la spedizione del Pizarro; ma Gracilaso de la Vega, e Cieco de Leon la pongono nel 1525]: conduceva seco centododici Spagnuoli, ed alcuni servitori Indiani. Molto sofferse in tempo del suo viaggio per cagione dell'inverno e de' tempi contrarii. Io non parlerò delle molte vicende che gli avvennero, per timore di troppo dilungarmi; non racconterò che i fatti principali, e quelli che hanno rapporto col soggetto.
Dopo settanta giorni ch'ebbe lasciato Panama, il Pizarro sbarcò colla sua truppa in un porto, che in appresso prese il nome di Puerto de la Hambre (Porto della fame).
In principio aveva approdato in molti e diversi piccoli porti, che successivamente abbandonò, per averli trovati deserti.
Il capitano si arrestò in questo con soli ottanta uomini, gli altri essendo morti.
I viveri erano consumati, ed il paese non ne somministrava; di modo che egli inviò la nave coll'equipaggio ed un capitano all'isola delle Perle, che è nel governo di panama, per cercarne, contando di ricevere questi soccorsi tra dieci o dodici giorni: ma perché la fortuna è sempre o quasi sempre avversa, il bastimento stette quarantassette giorni dalla partenza al ritorno.
In quel tempo il Pizarro ed i suoi compagni si nutrirono di una specie di conchiglie, che raccoglievano con molta fatica sul lido del mare; essi mangiarono pure degli amari palmisti; ma molti Spagnuoli morirono di stento; più di venti uomini perirono nel tempo dell'assenza del vascello.
Quando questo ritornò colle vettovaglie, il capitano ed i marinari raccontarono, che non avendo potuto procurarsene nell'andata erano stati costretti a mangiare il cuio che serviva di coperta alla tromba della nave; l'avevano fatto cuocere e se lo erano diviso. le persone della spedizione sopravvissute a questi stenti, si ristorarono coi viveri che il bastimento aveva portati, i quali consistevano in formentone ed in porci: quindi il Pizarro salpò, e continuò il suo viaggio.
Egli approdò in un villaggio [l'autore si serve qui della parola pueblo, che significa ad un tempo, un borgo, un villaggio, ed anche qualche volta un casale. noi abbiamo adottata ciascheduna di queste definizioni, a seconda che questa relazione o altre opere vi ci hanno determinato] situato sul lido, difeso da elevate fortificazioni e circondato di palizzate; ivi i viaggiatori trovarono provvisioni in abbondanza, ma gli abitanti eran fuggiti. L'indomani giunsero in gran numero uomini di guerra; e perché eglino erano bellicosi e ben armati, ed i cristiani all'opposto stanchi del viaggio ed estenuati dalla fame e da' mali che avevano sofferti, avvenne, che questi ultimi furono vinti, ed il Pizarro stesso ricevette sette ferite, la più piccola delle quali avrebbe potuto cagionargli la morte. Gl'Indiani che lo ferirono credetterlo estinto, e lo lasciaron sul campo; diciassette uomini rimaser con lui feriti, e cinque uccisi.
Temendo i resultamenti della sua disfatta, e ripensando alle poche risorse che quel luogo gli offriva per curare le sue ferite e riparare le sue perdite il Pizarro si rimbarco e retrocedette verso panama. Ei gittò quindi l'àncora presso un villaggio indiano chiamato Cuchama, e di lì spedì il vascello a Panama, non essendo più atto a navicare in alto mare, per i tarli che lo avevano tutto traforato.
Ei fece sapere al governatore Pedrarias quanto gli era avvenuto, e soggiornò nel porto per curarsi, esso e le sue genti.
Pochia vanti l'arrivo della nave a Panama, il Capitano Diego de Almagro, socio d'interessi col Pizarro, er a partito in cerca di lui con un vascello e settanta uomini. Egli si avanzò fino al porto ove il Pizarro era stato sconfitto, ed ebbe pure lui uno scontro con gl'Indiani di quel villaggio e fu vinto del pari: perdette un occhio in quella pugna, e buon numero di cristiani rimaser feriti: nulla dimeno essi pervennero a sloggiare gl'Indiani da quel luogo, che incerdiano, e, rimbarcatisi, costeggiarono il lito infino a tanto che non giunsero ad un gran fiume, a cui dettero il nome di sant Juan (San Giovanni), perché vi erano arrivati nella festa di questo santo. Ivi trovarono alcuni pezzi d'oro; ma l'Almagro, non scuprendo alcuna traccia del capitano Pizarro, riedette a Chucuma [E' evidente, che questo luogo è lo stesso che Cuchama, sebbene l'ortografia ne differisca. Questa situazione ci somministrerebbe numerose occasioni di rettificare simili errori; ma noi ci contenteremo di correggere i nomi nel corpo stesso dell'opera, e ciò faremo appogiandoci sempre du delle autorità rispettabili], ove lo raggiunse.
Fu tra di essi convenuto che l'Almagro ritornerebbe a Panama per allestire delle navi, raccoglier gente per proseguire il loro progetto, e finir di spendere ciò che rimaneva agli Associati: essi erano già debitori di più di dieci mila castellanos [il valore di questa antica moneta d'oro ha molto variato, sotto Carlo V, cioè a dire all'epoca in cui il Xeres scrivea, costava 9 franchi e 60 centesimi].
L'Almagro provò a panama una grande opposizione, per parte del governatore Pedrarias e di altre persone, le quali dicevano di non convenire d'intraprendere una spedizione senza vantaggio di Sua mestà.
Ma munito dei pieni poteri conferitigli dal suo collega, l'Almagro persistette nel sentimento che tutti e due avevano risoluto, e fece intendere al governatore che cessasse dla recar loro impedimento, perché essi erano persuasi, che coll'aiuto di Dio, Sua Maestà resterebbe soddisfatto: di modo che il governatore Pedrarias fu costretto lasciar loro fare i necessarii arruolamenti; e l'Almagro partì di Panama con cento uomini, ed andò a raggiungere il Pizarro che non ne aveva più di trenta, avanzo dei cento che erano secolui partiti, e dei settanta condotti dall'Almagro quando andò in cerca di lui: gli altri centotrenta erano morti.
I due capi s'imbarcarono in due navigli con cento settanta uomini.
Navigavano terra terra, e quando supponevano poter trovare de' villagtgi, approdavano in tre lancie condotte da sessanta rematori; e così procedendo, si procuravano viveri.
Peregrinarono in tal guisa per tre anni, sopportando grandi fatiche, la fame e il freddo.
La maggior parte de' loro compagni perì di fame, nè sopravvissero che soli cinquanta Spagnuoli.
In tutto questo tempo non videro nessun paese fertile; tutto era palude, terra inondata ed inabitabile.
La bella contrada che essi scuprirono distendeasi oltre il fiume Sant Juan; il Pizarro vi si fermò colle poche persone che gli restavano, e inviò quindi un capitano, colla nave più piccola, ad esplorare alcune terre fertili su la costa più lontana, e spiccò l'altro bastimento a panama sotto gl'ordini dell'Almagro, per prendervi nuova gente, giacchè era impossibile fare ulteriori scoperte con i due vascelli riuniti e le poche persone che rimanevano.
La mortalità continuava.
Dopo settanta giorni, il bastimento che era andato ad esplorare il paese lontano, ritornò al fiume Sant Juan, ove il Pizarro stanziava colla sua gente: questo naviglio si era avanzato fino al villaggio di Lancebi, situato sul lito.
Gli uomini dell'equipaggio avevano visitato luoghi ricchissimi in oro e in argento, ed una popolazione d'Indiani più incivilita di qualunque altra infino allora veduta.
Conducevano seco loro sei persone a cui insegnavano lo Spagnuolo; portavano ancora molto oro, dell'argento e delle stoffe.
laonde il capitano ed i suoi compagni ne concepirono tanta gioia, che obliarono tutti i mali e le perdite che avevano infino a quel punto patite, e dimostrarono ardente desiderio di andare in un paese che presentava sì grandi vantaggi.
Frattanto l'Almagro ritornò da panama col suo bastimento carico di truppe e cavalli.
Le due navi, i capitani e tutte le loro genti, partirono da Sant Juan inverso il paese novellamente scoperto.
Ma per la difficoltà della navigazione, impiegarono troppo tempo perchè i viveri potessero bastare: laonde fu forza sbarcare le truppe; le quali, viaggiando per terra, poteano procurarsi gli alimenti ovunque fosse loro possibile.
I vascelli gettarono le ancore nella baia di San Matheo (San Matteo), dirimpetto ad un villaggio a cui gli Spagnuoli dettero il nome di San Iago (san Giacomo), che estesero anche alle abiotazioni chiamate Tacamez, le quali avanzandosi orlano la costa.
I Cristiani osservarono questi villaggi, che trovarono assai importanti ed abitati da una popolazione numerosa e guerriera.
Novanta Spagnuoli, essendo arrivati ad una lega da Tacamez, furono ricevuti da più di diecimila guerrieri Indiani; i quali, vedendo che i Cristiani non volevano nè ucciderli nè derubarli, ma che al contrario offrivano loro pace ed amistà, quelle genti deposero il pensiero di combatterli.
Del rimanente, quella contrada era ricca di viveri; e trovarono convenevolissimi i costumi degli abitanti: le città avevano strade e piazze; molte contavano più di tre mila case, ma ve n'erano eziandio delle più piccole.
I capitani e gli altri Spagnuoli conobbero di essere in troppo piccol numero per poter resistere con vantaggio agl'Indigeni: laonde risolverono di caricare i loro vascelli di quante più vettovaglie potrebbero procurarsi in quei villaggi, e procedere oltre ad un'isola detta del Gallo, ove speravano stare in sicurezza nel tempo che i bastimenti ritornerebbero a Panama, per recare al governatore di quella città la notizia della scoperta e imbarcare nuove truppe, affinché i capitani potessero condurre a termine la loro impresa e conquistare il paese.
L'Almagro montava uno dei bastimenti; e siccome parecchi degli avventurieri avevano segretamente scritto al governatore, pregandolo di far ritornare a panama le truppe della spedizione, asserendo che era impossibile soffrire mali maggiori di quelli che essi avevano sofferti da tre anni, tempo impiegato nella scoperta [i malcontenti avevano usato artifiziosamente per far pervenire le loro lagnanze al governatore. Un soldato chiamato Saravia nascose la memoria che conteneva le loro lagnanze in un gomitolo di fil di cotone, e vi aggiunse questa quartima: Pues senor governador,/ Mirelo bien por entero/ Que alla va el recogedor,/ Y aca al carnicero (Carcilasso, lib. VIII - Herrera, dec. III, lib. X, cap. III)] il Pedrarias aveva deciso, che tutti quelli che desiderassero ritornare potessero farlo, e quelli che preferissero continuar le scoperte liberi fossero di rimanersi; per cui soli sedici uomini restarono col Pizarro, e tutti gli altri si imbarcarono sopra i due vascelli per ritornare a Panama [Zarate (lib. I, cap. 2) ci ha conservato i nomi de' tredici compagni del Pizarro i quali restarono seco; eccoli: Cristoval de Peralta, Nicolas de Ribera, Domingo de Sera Luce, Francisco de Cuellar, Pedro de Candia, Alonso de Molina, Pedro Alcon, Garcia de Xeres, Antonio de carrion, Alonso Briceno, Martin de Paz, Iuan de la Torre, Bartolomeo Ruiz (questi era piloto)].
Soggiornava da cinque mesi in quell'isola, quando tornò la nave che era stata spiccata più innanzi, ed aveva corso cento leghe al di là del paese scoperto: le genti che la montavano riferirono aver veduto numerosi villaggi e grandi ricchezze, e portavano in maggior quantità della prima volta pezzi d'oro, d'argento e di stoffe, che gl'Indigeni avevano dato loro di buon grado; ma siccome il termine fissato dal governatore di panama era per finire, il Pizarro con tutti i suoi compagni retrocedette verso Panama medesima, e precisamente nel giorno che entrò in quel porto il termine anzidetto spirò.
Le finanze dei due capitani erano così rovinate, che non era possibile di andare avanti, essendosi essi di già indebitati per una somma considerabile.
Francesco Pizarro si fece prestare da' suoi amici ben più di mille castellanos, che gli servirono per andare in Spagna; ove, fatta al re l'istoria de' servigi importanti e segnalati che aveva resi a Sua Maestà nel tempo in cui egli era impiegato, ne ricevette in ricompensa il titolo di governatore e di adelante della contrada da lui scoperta, la croce dell'ordine di San Giacomo, diverse alcadie o giudicature, la carica di alquazil maggiore, ed altri favori.
Gli furon contate eziandio molte somme in nome di Sua Maestà, che da imperatore e da re ricolma continuamente tutti quelli che sono al suo servizio; dal che deriva, che uno è incoraggito a tutto arrischiare per Sua Maestà, e tentare di scoprire mel Mar del Sud e in tutto l'Oceano, terre e provincie remotissime e lontane da' suoi regni di Castiglia.
Dopo che Francesco Pizarro fu nominato governatore ed adeladanto per Sua Maestà, partì da San Lucar con una flotta; la quale, spinta da vento favorevole, arrivò senza alcun accidente al porto Nombre de Dios.
Ivi sbarcate le sue truppe, di lì procedette con esse per terra infino alla città di Panama, nella quale trovò contradizioni e oppossizioni in gran numero, per parte di persone che volevano impedirlo di partire per colonizzare il paese che avea scoperto, secondo le istruzioni di Sua Maestà.
Ma la sua costanza tutto vinse: e finalmente lasciò il porto di Panama, alla testa di cento ottanta uomini e settecento cavalli, il tutto imbarcato sopra tre navi.
La sua navigazione fu così felice, che in tre giorni entrò nella baia di Sant Matheo, alla quale non avea potuto giungere che in due anni e più, quando fu scoperta la prima volta. Qui le truppe e i cavalli furono sbarcati, e proseguirono lunghesso il lido del mare.
Dovunque trovarono la popolazione sollevata.
Si avanzarono fino ad una gran città chiamata Coaque, che essi sorpresero per non dare il tempo agli abitanti d'insorgere, come avevano fatto quelli delle altre città: vi trovarono quindicimila pesos d'oro, mille cinquecento marchi d'argento [Il peso d'oro valeva a un castellano, ovvero 9 franchi e 60 centesimi. Si sa che il marco è di 8 oncie], e molti smeraldi, che allora non si conoscevano e non consideravansi pietre preziose; motivo per cui gli Spagnuoli li donavano e li barattavano con gl'Indiani per stoffe che questi rilasciavano loro in cambio.
Ivi fenne fatto prigioniero, con molti de' suoi, il cacico o principe che comandava quel distretto, e furon prese molte stoffe di differenti sorte, e tante quantità di viveri, che avrebbero potuto bastare agli Spagnuoli per nutrirsi due o tre anni.
Il Pizarro inviò le tre navi a Panama ed a Nicaragua, per ricercarvi un rinforzo di truppe e cavalli, a fine di effettuare la conquista e la colonizzazione del paese: dipoi sostò alcun tempo per riposarsi, fin a che i vascelli condussero da Panama ventisei cavalli, e trenta fanti; i quali appena arrivati, il Pizarro partì con tutta la sua gente.
La truppa seguì la spiaggia, che è popolatissima, assoggettando tutti i villaggi al potere di Sua Maestà: i capi venivano sulla strada davanti al governatore, non curando mettersi in difesa perchè questi non faceva loro alcun cattivo trattamento, ma al contrario li riceveva con amicizia e loro favellava in guisa di attirarli alla nostra santa fede cattolica; e ciò per mezzo di alcuni religiosi, che seco aveva condotti.
Il Pizarro marciò colle sue genti fino ad un'isola chiamata de la Pugna (del Combattimento), e che i cristiani appellarono l'isola di San Iago [ella porta al presente il nome di gorgona], discosta due leghe dalla terra ferma: la quale, siccome è vasta ed ubertosa, il governatore vi approdò con due vascelli e delle zattere per uso dei cavalli, costrutte alla foggia di quelle degl'Indiani [Balsas: quesi "balsas", o foderi, son fatti di grossi pezzi di legno messi l'uno accanto dell'altro, e fermati da due travi poste a traverso; essi sono sempre di numero impari, e vanno diminuendo di lunghezza a misura che si allontanano dal centro. Quello del mezzo sporge come il timone di una carretta, ed è appunto là che si pone l'Indiano che ne ha il governo. Vi sono di questi foderi o zattere che possono portare cinquanta uomini e tre cavalli (Zarate, lib. I, cap. VI)].
Il Pzarro fu accolto in quell'isola con molta gioia da cacico a cui apparteneva. Gl'Indigeni portavano viveri sulla strada, e suonavano istrumenti di musica, di cui si servivano nelle loro feste.
L'isola San Iago ha quindici leghe di circuito; è fertile, ben popolata, e possiede gran numero di villaggi soggetti a sette cacichi, che tutti obbediscono ad un solo.
Questo Indiano diè volontariamente al governatore una certa quantità d'oro e d'argento.
Siccome era di verno, ei vi soggiornò per qualche tempo, onde ristorarsi egli ed i suoi fanti; perchè marciando in quella stagione, atteso le pioggie che cadevano avrebbe perduta molta gente: al contrario stando in quei quartieri d'inverno molti uomini malati guarirono.
E' carattere degl'Indiani, di non sottomettersi agli altri popoli se non costretti dalla forza; il cacico viveva in pace col governatore, e si era riconosciuto suddito di Sua Maestà; ma ben presto si seppe per interpreti, ch'egli aveva riunito tutte le sue genti di guerra, e che da parecchi giorni d'altro non si occupava che di fabbricare armi, per aumentare il numero di quelle che gl'Indigeni possedevano.
Il che in effetto si vide; poichè nel villaggio ove abitavano gli Spagnuoli ed il cacico, trovossi nella casa di quest'ultimo e in molte altre una moltitudine di persone pronte a combattere, le quali attendevano che tutti quelli dell'isola fossero riuniti, per assalire i Cristiani in quella stessa notte.
Laonde, quando fummo sicuri della verità, ed ebbemo fatta all'uopo una segreta ricerca, il governatore ordinò d'impadronirsi senza indugio del cacico, dei suoi tre figli e di due altri principali abitanti, o vivi o morti: poi gli Spagnuoli piombarono all'improvviso sul resto.
In quella sera furono uccisi molti Indiani; ma la più parte fuggì abbandonando la città: la casa del cacico e molte altre furono segnate al saccheggio, ed in esse fu trovato oro, argento e copia di stoffe.
nella notte i Cristiani fecero assiduamente la guardia; nel loro campo tutti rimasero armati: erano settanta cavalieri e cento fanti.
Avanti il far del giorno, s'intesero grida guerriere: ben tosto avanzossi verso i trinceramenti una moltitudine di Indiani, tutti armati, marciando al suono del tamburo e di altri istrumenti guerrieri.
Quelle genti, in diversi corpi distinte, circondarono il campo dei Cristiani; e quando spuntò il giorno, il nemico si avvicinò e penetrò nelle nostre linee.
Allora il governatore dette ordine di riceverlo valorosamente. Nel conflitto molti Spagnuoli ed alcuni cavalli furono feriti; pure, siccome il Signore protegge i suoi servi, gl'Indiani furono disfati e fugati.
La cavalleria inseguì i fuggitivi, uccidendo e vulnerando tutti quelli che potette raggiungere, sicché in numero ben grande perirono in quello scontro.
I Cristiani ritornarono nel campo, essendo i cavalli affaticati, giacché la pugna aveva durato dall'alba fino a mezzogiorno.
L'indomani il Pizarro inviò il suo piccolo esercito diviso in diversi corpi nell'interno dell'isola, in cerca degl'insorti, a fine di finir di disfarli.
In questa guisa le ostilità durarono venti giorni, e gli Indigeni furono dalla loro slealtà ban gastigati.
Dieci de' principali tra essi vennero arrestati con il cacico, che confessò essere stato spinto da loro al tradimento, a cui egli non avea preso parte che suo malgrado, non avendo potuto distogliere que' capi dal fatale progetto: ed il governatore ne fece giustizia, ordinando di bruciar vivi gli uni, e decapitare gli altri.
La sollevazione ed il tradimento del cacico e de' nativi dell'isola di Santiago, produssero che loro si facesse la guerra, per cui furono costretti di abbandonare l'isola e passare in terra ferma.
Ma perch il governatore non volle devastare quest'isola, che era stata popolatissima, fertilissima e ricchissima, risolvè di porre il cacico in libertà, perché richiamasse gli abitanti dispersi e l'isola di nuovo ripopolasse.
Questo capo fu sodisfattissimo di poter d'ora in avanti servire Sua maestà, e ciò a cagione degli onori che costantemente aveva ricevuti nel tempo della sua schiavitù.
Non si poteva però ritrarre alcun vantaggio da santiago: laonde Pizarro ne partì, con gli Spagnuoli ed i cavalli che potevano entrare ne' tre bastimenti che erano all'àncora, a fine di recarsi a Tumbez, allora in pace. Lasciò un capitano col resto della sua gente nell'isola, fino a che le navi non avesser potuto rieder a prenderla.
Per effettuare la traversata con maggior prontezza, il Pizarro ordinò al cacico di Tumbez di fornire alcune zattere: tre Cristiani vi si imbarcarono con delle mercanzie.
In tre giorni i vascelli approdarono alla spiaggia di Tumbez. Ma nel momento in cui il governatore sbarcò, trovò sollevata la popolazione della città: seppesi da alcuni Indiani, de' quali ci eravamo impadroniti, che i Cristiani e le mercanzie caricate sulle zattere, erano state predate.
Non prima le truppe e i cavalli furono a terra, che il Pizarro mandò a cercare la gente che aveva lasciato a San Iago.
Gli Spagnuoli si stabilirono in due case fortificate della città del cacico, una delle quali rassomigliava ad un forte castello.
Il governatore dette ordine di esplorare la campagna, e di risalire un fiume che scorre ne' villaggi, all'oggetto di sapere quel che era avvenuto dei tre Cristiani presi nelle zattere, e di procurare di liberarli prima che gl'Indiani gli uccidessero.
Benché dal primo momento in cui si prese terra si fosse impiegata la maggior diligenza a scorrere il paese, quei tra Cristiani non si poteron trovare, nè saper novelle di loro.
Le persone inviate a questa spedizione imbarcaronsi su delle zattere con tanti viveri, quanti potessero procurarsene, e seco condussero eziandio degli Indiani.
Il governatore inviò de' messaggieri del paese al cacico e ad altri capi, ingiungendo loro in nome del re di condursi pacificamente, e di ricondurre vivi i tre Cristiani, senza far loro alcuno male.
Era sua intenzione di riconoscere i nativi come sudditi di Sua Maestà, sebbene essi avessero mancato a' loro doveri; ma se non obbedivano, ei dovea far loro la guerra, e mettere il paese a ferro e sangue fino a tanto che non gli avesse esterminati.
Scòrsero molti giorni prima che essi si presentassero; e si conducevano anche con arroganza, costruendo de' forti dall'altra parte del fiume, che era ingrossato e non si poteva passare.
Essi provocavano gli Spagnuoli a traversarlo, loro accennando di avergli ucciso i tre compatriotti che cercavano.
Tosto che tutti quelli che erano stati nell'isola furono giunti, il governatore fece costruire un gran fodero, ed ordinò al capitano di traversare il fiume nel punto il più favorevole, con quaranta cavalli e ottanta fanti: gli Spagnuoli rimasero sul fodero dalla mattina fino alla sera.
Il capitano aveva ricevuto l'ordine di attaccare quelli Indiani, poiché essi eransi ribellati, ed avevano ucciso de' Cristiani: se dopo avergli puniti in ragione del loro delitto, mostravano delle intenzioni pacifiche, poteva ricevergli conformemente alle intenzioni del re; egli dovea fargliene istanza, e parlar loro in nome di Sua Maestà.
Il capitano partì colle sue truppe, conducendo delle guide: dopo aver varcato il fiume, marciò tutta la notte, fino a che non ebbe raggiunto l'inimico; ed al far del giorno attaccò le fortificazioni dove questi si era ristretto.
L'affare durò tutta la giornata; i Cristiani ferirono ed uccisero tutti quelli che poterono arrivare, e fecero prigionieri quelli che lor riuscì di prender vivi.
All'avvicinarsi della notte i nostri si ristrinsero in un villaggio. Il giorno appresso, sull'aurora, le nostre truppe partirono in diversi corpi per inseguire il nemico; e così questi Indiani furono gastigati.
Il capitano avendo veduto che la perdita da essi sofferta era sufficiente, fece proposizioni di pace al cacico: costui, che si chiamava Quilimassa, inviati messaggeri con un'preside, rispose per bocca di quest'uomo: che il timore degli Spagnuoli l'aveva impedito di presentarsi; che se egli fosse stato certo, che questi ultimi non volessero ucciderlo, sarebbesi presentato pacificamente.
Il capitano rispose all'inviato: che il suo padrone poteva venir senza timore, che non gli sarebbe fatto alcun male, che il governatore lo riceverebbe amichevolmente come suddito del re, e gli perdonerebbe il suo delitto.
Il Cacico avendo ricevuto questa garanzia, si presentò accompagnato da altri capi, benché egli sembrasse molto intimorito.
Il capitano l'accolse con gioia, e incominciò dallo assicurargli, che non mai ei maltrattava coloro che si presentavano con delle intenzioni pacifiche sebbene fossero stati ribelli, e che dal momento in cui essi erano arrivati questa guerra sarebbe l'ultima; quindi egli non avea che a richiamare i suoi sudditi ne' loro villaggi.
Il capitano ordinò di trasportare sull'altra riva i viveri che aveva trovato; dipoi varcò di nuovo il fiume, con gli Spagnuoli, col cacico e con i capi Indiani, per ritornare ove aveva lasciato il governatore a cui rese conto di tutto ciò ch'era successo.
Questi ringraziò Dio de' benefizi che gli aveva accordati, facendolo vincere senza che un solo Spagnuolo restasse ferito, e ordinò alle truppe di andare a prender riposo; domandò al capo indiano il perché si era egli sollevato, e perché avesse ucciso i cristiani dopo essere stato sì ben trattato da loro: infatti, ei gli aveva reso un gran numero de' suoi sudditi di cui il cacico dell'isola si era impadronito, e gli aveva dato nelle mani degli uffiziali colpevoli d'aver incendiato il suo villaggio, affinché ei ne facesse giustizia.
Il cacico rispose: Ho saputo che certi capi sotto i miei ordini, che conducevano delle zattere, hanno preso tre Cristiani e gli hanno messi a morte; ma io non mi ci trovava: nulladimeno ho temuto che mi si credesse colpevole.
Conducetemi quelli che l'hanno fatto, gli disse il governatore, e fate che gli abitanti rientrino ne' loro villaggi.
Il cacico fece chiamare le sue genti ed i capi; ma questi gli dissero che era impossibile d'arrestare gli uccisori de' Cristiani, perché essi avevano abbandonato il paese.
Il Pizarro, essendo restato per più giorni in quel luogo, vidde che non poteva impadronirsi degli assassini, e che la città di Tumbez era distrutta, bench'essa comparisse ancora importante, a causa di alcuni edifizi e di due case fortificate, una delle quali aveva due muri di terra, un cortile, delle stanze, delle porte e delle opere di difesa, ciò che costituisce per gl'Indiani una buona fortezza; i nativi attribuivano la decadenza di quella città ad una gran pestilenza, che cagionò loro molto male, ed alla guerra sostenuta contro quelli dell'isola.
Siccome in questo paese non vi erano che pochi Indiani sottoposti al detto cacico, il governatore risolse di partire con dell'infanteria e de' cavalieri, in cerca di un'altra contrada più abitata, per fondarvi una città.
Si messe dunque in marcia, lasciando il suo luogotenente con gli Spagnuoli alla difesa de' bagagli; ed il cacico restò in pace, e radunò i suoi sudditi ne' loro villaggi.
Il giorno stesso che il governatore partì da Tumbez, che fu addì 16 marzo 1532, egli arrivò ad un piccolo villaggio; e tre giorni dopo pervenne ad un altro, che è situato in mezzo alle montagne.
Il cacico che ne era padrone, prese il nome di Giovanni: il Pizarro vi si riposò per tre giorni, e dopo altri tre giorni pervenne ad un fiume, le cui sponde erano ben popolate e abbondanti in viveri e ricche di armenti di lamas [Ovejas, ciò che significa letteralmente delle pecore. I primi conquistatori Spagnuoli chiamavano così i lama, e qualche volta essi danno a questi animali il nome di carneros de la tierra, o montoni del paese].
La strada è tracciata dalla mano dell'uomo, larga e ben fatta; degli argini sono stabiliti nei luoghi difficili.
Quando arrivò a questo fiume chiamato Turicarami, si stabilì in un gran villaggio nominato Puechio.
La più parte de' cacichi, che abitano le rive superiori e i villaggi circonvicini, si presentò con intenzioni pacifiche.
Gli abitanti vennero all'incontro del governatore, che li ricevè con molta bontà, e loro notificò l'intimazione ingiunta per parte del re, affine di condurli alla conoscenza della Chiesa, ed alla sommissione verso Sua Maestà.
Dopo averlo inteso, essi risposero pe' loro interpreti, che desideravano essere suoi sudditi: laonde il Pizarro li ricevè come tali nelle forme volute, e quindi prestarono il loro aiuto e fornirono de' viveri.
Un tiro di balestra prima di arrivare a questo luogo, esiste una gran piazza ed una fortezza palizzata con molte abitazioni, ove i Cristiani si stabilirono, per non essere a carico agl'Indigeni: il governatore ordinò, sotto severe pene , che si rispettassero le loro persone e le loro proprietà, e quelle eziandio di tutti coloro che si presenterebbero con intenzioni pacifiche; e inibì di prendere maggior copia di viveri di quella che essi davano per nutrire i Cristiani.
Quelli che contravvennero a' suoi ordini furono puniti, perché i nativi portavano tutti i giorni gli alimenti necessari col foraggio per i cavalli, e scrupolosamente eseguivano gli ordini che ricevevano.
Vedend il Pizarro che le rive di quel fiume erano fertili e popoloso, dette ordine di percorrere il paese ch'esso bagna, e di vedere se vi era un porto in favorevole situazione.
Se ne rinvenne uno eccellente sul lido vicino, presso all'imboccatura del fiume; si trovarono de' cacichi signori di numerose popolazioni, in alcune parti da dove essi potevano facilmente recarsi al fiume, e rendere dei servigi.
Il governatore visitò tutti questi villaggi, ed avendoli esaminati, disse che la contrada era adatta per esser colonizzata dagli Spagnuoli.
Laonde volendo conformarsi a' desideri del re, che voleva che le nazioni fossero convertite, e che la colonizzazione si facesse d'un comune accordo con le persone designate da Sua Maestà, ne' luoghi i più convenienti al suo servizio ed al vantaggio de' nativi, egli scrisse agli Spagnuoli restati a Tumbez, che là si recassero: ma prima di spedire un inviato, pensò che potrebbe trovare de' ritardi ritornandosi, se questi non fosse un personaggio assai temuto dal cacico e dagl'Indiani di Tumbez, per costringerli ad aiutare le truppe a trasferirsi colà: ed a tale effetto inviò Ferdinando Pizarro suo fratello, capitano generale.
Dopo la partenza di questo ufiziale, giunse notizia del governatore, che de' cacichi che abitavano la montagna, non volevano sottomettersi, sebbene ne fossero stati richiesti in nome di Sua Maestà: laonde egli inviò un capitano con 25 cavalli e dell'infanteria per sottometterli.
Questi li trovò che avevano abbandonato i loro villaggi, e loro intimò di presentarsi da amici; ma essi vennero coll' armi alla mano: allora egli dette loro la carica, e in poco tempo ne ferì e ne uccise sì gran numero, da mettere il resto in fuga.
Il capitano ingiunse loro nuovamente di accettar la pace, minacciandoli non solo di far loro la guerra, ma di esterminarli; e con questo mezzo li obbligò a deporre le armi.
Ei li accolse amichevolmente, e dopo aver lasciato tutto il paese pacificato, ritornò presso il governatore, e condusse seco i cacichi.
Il Pizarro usò loro molta cortesia, e gli ordinò di ritornare alle loro case, e di richiamare i loro sudditi.
Il capitano riferì, che nella montagna, erano in gran quantità miniere d'oro fino, che gli abitanti scavavano, e ne aveva riportato dei pezzi; le mine, secondo loro, erano a venti leghe dal villaggio.
Il capitano, che era stato a Tumbez a cercar gli Spagnuoli, ritornò con essi trenta giorni dopo la sua partenza.
Molti vennero per mare con i bagagli, sopra un vascello, una barca e delle zattere, che erano arrivate da Panama con delle mercanzie.
Ma questi bastimenti non conducevano truppe, perché il capitano Diego de Almagro era rimasto colà per formarvi una flotta, affine di rendersi a Tumbez e colonizzare il paese per suo conto.
Appena il governatore ebbe saputo l'arrivo de' bastimenti, partì per il porto di Puechio con truppe discendendo la riviera, perché lo sbarco del bagaglio si effettuasse con maggior sollecitudine, e perché si potesse ritornar per acqua.
Egli approdò in un sito, ov'era un cacico chiamato Lachira: trovò che i Cristiani sbarcati, si dolevano de' cattivi trattamenti fatti loro da quel capo, per cui la notte precedente non avevano dormito dallo spavento, avendo osservato che gl'Indiani andavano e venivano irrequieti e attruppati.
Il governatore prese delle informazioni dai nativi, e seppe che il cacico di lachira [Sovente gli antichi storici Spagnuoli danno ai capi Indiani il nome dei paesi ch'essi posseggono, e qualche volta designano i paesi dal nome de' loro cacichi], i principali del paese, ed un altro capo chiamato Almotaxe, avevano risoluto di uccidere i cristiani nello stesso giorno che il Pizarro arrivò.
Appena questi lo seppe, inviò segretamente delle genti per impadronirsi del cacico d'Almotaxe, e de' capi Indiani: egli stesso arrestò quello di Lachira ed altri principali abitanti, i quali confessarono il loro delitto; egli ordinò tosto che fosse fatta giustizia, per cui il cacico d'Almotaxe, i suoi capi, e molti nativi furono bruciati vivi, insiem con tutti i principali Indiani di Lachira: ma il cacico di quest'ultimo luogo non fu giustiziato, perché non fu trovato abbastanza colpevole, e parve che fosse stato forzato dagli altri capi.
Il Pizarro pensò, che se questi due villaggi restavano senza padroni, sarebbero rimasti rovinati in poco tempo; laonde si fece intendere al cacico, che pensasse a ben condursi d'ora in avanti, perché, al primo tradimento, non avrebbe più ottenuto perdono; ingiungendogli altresì di radunare tutte le sue genti ed anche quelle di Almotaxe, fino a che un fanciullo, erede del cacico di quella città, non fosse in età di regnare.
Questo gastigo gettò il terrore per tutto il paese; di modo che svanì una congiura che gli abitanti avevano formata per attaccare il governatore e gli Spagnuoli, e in seguito tutti divennero più subordinati e più timorosi.
Reso il dovuto tributo alla giustizia, le genti ed i bagagli che venivano da Tumbez essendo stati sbarcati, il reverendo padre Vincenzo de Valverde, religioso dell'ordine di San Domenico, e gli uffiziali di Sua Maestà, esaminarono il paese e le coste; poi, il governatore di concerto con queste persone, come lo prescriveva Sua Maestà il re loro signore, tracciò in nome di lui le fondamenta di una nuova città.
Il territorio e le coste, offrivano le condizioni e le qualità che deve avere un paese per essere colonizzato dagli Spagnuoli; ed i nativi potevano servire senza troppa fatica, giacché si procurava soprattutto la loro conservazione, conforme il volere del nostro sovrano.
Il cacico di un villaggio chiamato tangarara, è stabilito sulle rive di questo fiume, a sei leghe del mare ed a questo luogo fu dato il nome di san Miguel.
Il Pizarro non voleva far soffrire pregiudizio ai bastimenti, ritardandone il loro ritorno; ond'è, che di consenso con gli ufiziali del re, fece fondere l'oro che questo cacico e quello di Tumbez gli avevano dato, e fece prelevare il quinto, che spettava a Sua Maestà.
Il resto appartenendo alla compagnia, fu dal governatore domandato un prestito agli associati, colla promessa di rimborsarli col primo oro che si potrebbe avere: così egli spedì i bastimenti, pagò il noleggio, ed i mercanti venduto le loro robe partirono.
Per questa occasione, il Pizarro fece sapere all'Almagro, suo collega, quanto il servizio di Dio e di Sua Maestà soffrirebbe, pello stabilimento d'una nuova colonia che disordinasse i suoi progetti.
Dopo aver provveduto alla partenza de' bastimenti, egli divise tra le persone che si stabilirono nella nuova città, i campi e i terreni ove edificare.
Siccome i nuovi abitanti non avrebbero potuto né sostenersi né colonizzare il paese senza il soccorso de' nativi, e siccome questi avrebbero molto sofferto se i cacichi non fossero stati eletti tra le persone che avessero avuto autorità sopra di loro, poiché quando gli Spagnuoli conoscono gl'Indiani che governano son ben trattati e in sicurezza, il governatore per consentimento de' religiosi e degli ufiziali che giudicarono questa misura utile alla religione e proficua a' nativi, rimesse i cacichi e gl'Indiani fra le mani degli abitanti della nuova città, per aiutarli a mantenersi, e perché i cristiani gl'istruissero nella nostra santa fede, conforme agli ordini di Sua Maestà, fino a che non fosse stato deciso ciò che sarebbe più conveniente al servizio di Dio e del re, e più vantaggioso agl'Indigeni: a tale effetto furono nominati alcadi regidori ed altri ufiziali pubblici, e furono consegnati loro de' diplomi perché potessero amministrar la giustizia.
Il governatore, seppe che dalla parte di Chincha e di Cuzco si trovavano città in gran numero, ampie e ricchissime; e che a dodici o quindici giornate da Sant Miguel vie era una città popolosa chiamata Caxamalca , ove risiedeva Atabalipa, il più gran sovrano del paese.
Questo principe era venuto, a forza di conquiste, da una contrada lontana, sua patria: ed essendo arrivato alla provincia di Caxamalca, vi si era stabilito, perché l'aveva trovata ricchissima e piacevolissima; di là egli aveva esteso ognor più le sue conquiste.
Siccome egli è temuto da coloro che abitano presso il fiume, questi ultimi non sono così fedeli al servizio di Sua Maestà quanto lo dovrebbero; al contrario sono più disposti in favore d' Atabalipa, dicendo, che lo riguardano come il loro sovrano, e che una piccola parte del suo esercito è sufficiente per esterminare tutti i Cristiani, giacché egli sparge il terrore colle sue inaudite crudeltà.
Il Pizarro risolvè di ricercare Atabalipa, per assoggettarlo al re, e di soggiogare i paesi vicini; giacché una volta vinto questo capo, pacificherebbesi facilmente tutta quella contrada.
Partì da sant Miguel addì 24 settembre 1532.
Nel primo giorno di marcia passò il fiume sopra due zattere; ed i cavalli traversarono a nuoto: la notte si riposò in un villaggio sull'altra riva.
Tre giorni dopo giunse ad una fortezza posta nella vallata di Piura, che apparteneva ad un cacico, al quale aveva inviato un capitano alla testa di alcuni uomini, per fare proposizioni di pace, e significarli di non inquietare il cacico di sant Miguel.
Il governatore vi si trattenne dieci giorni, e fece provvisione di ciò che gli poteva abbisognare per la sua spedizione; e qui avendo fatta la rassegna de' Cristiani che seco conduceva, trovò che erano 67 cavalieri, e 110 fantaccini, di cui tre archibusieri ed alcuni balestrieri.
Il luogotenente di Sant Miguel avendo scritto che restavano pochi Cristiani in quella città, il Pizarro fece sapere a que' che lo seguivano, che chiunque desiderasse riedere per stabilirvisi, poteva farlo, ch'ei donerebbe loro degli Indiani per aiutarli, come agli altri coloni che vi si erano stabiliti, e che proseguirebbe la sua conquista con quelli che rimanessero, pochi o molti che si fossero: così cinque cavalieri e quattro fanti se ne ritornarono, di modo che il numero dei cittadini ascese a cinquantacinque, più dieci o dodici Spagnuoli che non vollero sapere di stabilimenti; e sessantadue cavalieri e centodue fanti restarono colgovernatore.
Egli fece fabbricare delle armi per quelli che non ne avevano e per i loro cavalli; poi formò di nuovo il corpo degli archibusieri, l'aumentò fino a venti uomini, e dette loro un capitano per comandarli.
Quando il Pizarro ebbe provveduto a tutto ciò che era necessario, partì col suo piccolo esercito: marciò fino al mezzogiorno, ed arrivò ad un luogo importante, circondato di mura fatte di paglia e di loto, ed appartenente ad un cacico chiamato Pabor.
Il governatore e le sue truppe vi si alloggiarono: si seppe che quel capo era stato un gran principe, sebbene adesso fosse rovinato, poiché Cuzco l'antico, padre di Atabalipa, gli aveva distrutto venti villaggi e massacrato i loro abitanti; ad onta però di queste perdite Pabor comandava ancora ad un gran numero di sudditi: egli aveva seco lui uno de' suoi fratelli che è altrettanto potente, ed entrambi erano ritenuti di buona volontà nella città di sant Miguel.
Questo villaggio e quello di Piura restano in certe valli spianate e fertilissime.
Il governatore prese in questo luogo informazioni su i villaggi e su i cacichi de' luoghi circonvicini e sulla strada di Caxamalca.
Seppe che a due giornate di marcia da quel luogo, si trovava una gran città chiamata caxas, ove vi era una guarnigione d'Atabalipa, la quale aspettava che i cristiani passassero da quella parte.
Appena ne fu istruito, e' vi inviò segretamente un capitano con della cavalleria e de' fanti, ed ordinò che nel caso i nemici volessero opporsi violentemente al loro passaggio, di procurare d'ispirar in essi pacifici sentimenti, e di condurli a riconoscere l'autorità del re, intimando loro gli ordini di Sua Maestà.
Il capitano partì il giorno stesso.
L'indomani Pizarro si messe in marcia, ed arrivò ad un villaggio chiamato Caran, ove aspettò il capitano che si era trasferito a Caxas.
Il cacico del villaggio portò al governatore, in una fortezza ove era arrivato a mezzogiorno, de' viveri, de' lamas ed altre cose.
L'indomani ei lasciò questo sito, pervenne ad un villaggio dipendente da caran, e fece fare alto al suo piccolo esercito per aspettare il capitano che era andato a Caxas.
Cinque giorni dopo, quell'uffiziale, inviò un messaggero, per istruire il governatore di ciò che gli era accaduto.
Il Pizarro gli fece sapere senza ritardo che l'attendeva in questo villaggio, e gli ordinò di venire a raggiungerlo tosto che egli avesse terminato le sue negoziasioni, e di visitare e sottomettere strada facendo un altro villaggio posto nelle vicinanze di Caxas, appellato Sicamamba: frattento seppe che il cacico di Caran era sovrano di ricche città, e d'una fertile vallata: costui era ritenuto presso i coloni della città di Sant Miguel.
Negli otto giorni che Pizarro attese il capitano, gli Spagnuoli si riposarono, e prepararono i loro cavalli per la spedizione.
Appena arrivato, il capitano rese conto al governatore di ciò che aveva veduto: riferì essere stato due giorni e una notte, prima d'arrivare a caxas, senza prendere altro riposo che all'ora del cibo; ed avere attraversato delle alte montagne affine di sorprendere quella piazza: malgrado ciò, e nonostante le buone guide che lo conducevano, non aveva potuto pervenirvi senza essere stato scoperto dagli spioni, molti de' quali furono presi, e da loro si seppe quale fosse la popolazione: i cristiani essendosi disposti in buon ordine, egli continuò il suo cammino fino alla città; entrandovi trovò le tracce d'un campo che pareva essere stato occupato da gente di guerra.
Caxas è in una piccola valle in mezzo alle montagne.
La popolazione era un po' inquieta, ma il capitano la rassicurò, e fece intendere che veniva da parte del governatore per ricevere gli abitanti in qualità di sudditi di Sua Maestà.
Allora si presentò un capo, che si diceva al servizio di Atabalipa, e incaricato di esigere i tributi della provincia: gli fu domandato della strada di Caxamalca e come il suo padrone intendessere ricevere i Cristiani; ci si informò da lui eziandio della città di Cuzco, che dista trenta giornate di cammino, e le di cui mura hanno una estensione eguale ad una giornata di marcia.
La residenza del cacico ha di lunghezza quattro tiri di balestra.
Vi si vede una sala ove morì Cuzco il vecchio; il suolo è impiantito d'argento, ed il soffitto e le muraglie sono coperte di piastre frammiste d'oro e d'argento.
Questa contrada, fino all'anno avanti il nostro, era appartenuta a Cuzco il giovane, figlio di Cuzco il vecchio; ma d'allora in poi Atabalipa suo fratello, avendo preso le armi, s'impadronì della città, impose de' tributi considerabili, e ogni giorno commetteva le più incredibili crudeltà verso gli abitanti.
Oltre le contribuzioni su' loro beni e sulle loro rendite, queste genti gliene pagavano una coi loro figli e colle loro figlie.
Pochi giorni avanti il nostro arrivo, Atabalipa occupava i trinceramenti che si erano veduti, e ne era partito con una parte del suo esercito.
Vi era in Caxas una gran casa fortificata, recinta di mura fatte di terra e di paglia, e guarnita di porte; molte donne vi erano occupate a filare e tessere pei soldati di Atabalipa , senza che vi fossero altri uomini che i portinai per custodirle.
All'ingresso del villaggio, trovaronsi de' disgraziati appiccati per i piedi; e si seppe dal capo, che Atabalipa li aveva fatti mettere a morte, perché alcuno di essi era entrato nelle abitazioni delle donne per giacersi con una di quelle: quest'uomo, e tutti i portinai che erano stati di connivenza, furono giustiziati.
Appena il capitano ebbe sottomesso Caxas, andò a Guacamba, altra città lontana di là una giornata; ell'è più considerabile della prima, e gli edifizi sono meglio fabbricati: la fortezza è fatta di pietre ben tagliate e ben disposte in piombo, lunghe e larghe cinque o sei piedi, e sì ben connesse insieme, che non si vede ove queste son congiunte.
Il tetto è a terrazza: coperto di pietre da taglio: e una scala, parimenti di pietra, resta fra le due porzioni della casa.
Una piccola riviera passa fra questa città e Caxas; gli abitanti se ne valgono utilmente.
Vi sono degli argini e de' ponti benissimo costruiti; una strada , manufatta, traversa queste due città, e va da Cuzco a Quito, che dista più di trecento leghe.
Questa strada è ben tenuta, e nella montagna è fatta solidissima e così ampia, che sei cavalli possono marciarvi di fronte senza toccarsi.
Lungo questa strada vi sono de' canali d'acqua, condotta da lontano per abbeverare i viaggiatori.
Alla distanza di ogni giornata di cammino, è una casa a guisa di ospizio [gli indiani chiamano queste case tambos, e sono una specie di ospizi da caravane. Nel Perù esistono ancora stabilimenti di questo genere], ove alloggiano quelli che vanno e che vengono.
Al principio di questa strada, e nella città di Caxas, è una casa all'ingresso del ponte, ed ivi è stabilito una guardia per percepire un pedaggio dei viaggiatori, i quali pagano in oggetti della natura, che trasportano, e nessuno può cavare dal villaggio un carico se prima non vi ha fatto entrare una quantità simile.
Questo costume è antichissimo; Atabalipa lo sospese in favore della sua guarnigione, ma nessun viaggiatore non può, sotto pena di morte, uscire con de' carichi per un'altra porta.
Il capitano riferì pure che in quelle due città vi sono due case piene di calzari, di pani di sale, d'una specie di vettovaglia somigliante a delle polpette di carne [Albondigas: sono una specie di polpette. Il celebre cuoco di Filippo III, Martinez Motino, autore d'un trattato di culinaria pubblicato a madrid nel 1617, ne conta gran varietà. Questa opera, oggi rarissima, prova che ad onta della reputazione di sobrietà degli Spagnuoli, tuttavia essi erano molto avanzati nell'arte di cucinare] ed altri oggetti in deposito, destinati pell'esercito d'Atabalipa.
Quelle popolazioni, erano secondo lui, ben organizzate, e possedevano delle istituzioni politiche.
Un capo ed altri nativi avevano accompagnato il capitano, il quale annunziò, che quest'Indiano era carico di regali per il governatore.
Il messaggero disse al Pizarro, che il suo padrone Atabalipa l'aveva inviato da Caxamalca per recargli questo regalo, che consisteva in una fontana di pietra, per beverci, rappresentante due fortezze; e in altri due carichi d'oche scorticate e seccate, affinché ne facesse della polvere per profumarsi; che tale era l'uso tra le genti del suo paese.
Il suo padrone l'inviava per dire al governatore, che desiderava la sua amicizia, e che l'attendeva pacificamente a Caxamalca.
Il Pizarro ricevette il regalo e gli parlò con bontà, dicendo: che molto si congratulava del suo arrivo, poiché egli era l'inviato d' Atabalipa , cui egli desiderava conoscere a cagione di tutto ciò che aveva inteso di lui; e che avendo saputo ch'ei faceva la guerra a' suoi nemici, aveva preso il partito d'andarlo a trovare affine di diventare suo amico e fratello, e di aiutarlo nelle sue conquiste co' Cristiani, che l'accompagnavano.
Egli fece dar da mangiare, e tutto ciò che era necessario, così a lui come alle persone del suo seguito, ed ordinò di alloggiarli come meritavano ambasciatori di un tanto principe.
Quando si furono riposati li fece venire al suo cospetto, e disse loro, che se essi desideravano ripartire o trattenersi alcuni giorni potevano farlo.
L'inviato rispose, che voleva ritornare per portar la risposta al suo sovrano: ed il governatore gli replicò: Rapportagli da parte mia tutto ciò che hai inteso, e digli che io non mi arresterò in alcun villaggio, affine di trovarmi più presto presso di lui.
Quindi presentò all'ambasciatore una camicia ed altri oggetti venuti di Spagna, perché li prendesse.
Il Pizarro sostò ancora due giorni dopo la partenza dell'inviato, perché quelli che venivano da Caxas erano defatigati.
Nel tempo di questo soggiorno egli inviò ai coloni di Sant Miguel una descrizione del paese, e loro scrisse ciò che aveva saputo di Atabalipa, e spedì loro il dono delle due fortezze e quello dei tessuti di lana del paese, che gli erano stati portati da Caxas.
E' cosa straordinaria vedere il conto che si fa di quelle stoffe in Spagna, poiché è più facile prenderle per stoffe di seta che di lana; esse sono arricchite di disegni e di figure d'oro, benissimo tessute nella stoffa.
Tosto, dopo avere spedito i suoi messaggeri, il governatore partì, e per tre giorni marciò senza trovare né villaggi né acqua eccettuato una piccola sorgente ove con molta pena ne provvidde.
Alla fine arrivò ad una gran piazza fortemente stecconata, ove non vide alcuno: seppesi che apparteneva al cacico d'un villaggio chiamato Copiz; ch'egli abitava una vallata de' controni; e che questa fortezza era stata abbandonata, perché mancava d'acqua.
L'indomani il governatore si alzò al chiaror della luna perché vi era una lunga giornata di cammino prima di arrivare ad un villaggio: a mezzogiorno arrivò ad una casa fortificata, che aveva degli eccellenti alloggi, d'onde sortirono alcuni Indiani, che si presentarono davanti a lui; ma siccome non rinvennesi nè acqua nè viveri, proseguì di due leghe più in avanti, fino al villaggio del cacico.
Giuntovi appena, il Pizarro, dato ordine alla sua truppa di alloggiare insieme in un certo quartiere, seppe da' principali del paese, che questo villaggio si chiamava Motux: che il cacico era a Caxamalca, e che aveva fatto una leva di trecento uomini da guerra.
Reggeva il villaggio un capo soggetto ad Atabalipa.
Il governatore vi si riposò quattro giorni, ne' quali percorse una parte delle possessioni del cacico, che parevano estendersi ben lungi in una fertile valle.
Tutti i villaggi di questa contrada, fino a Sant Miguel, son fabbricati in mezzo a delle valli, come pure quelli che si riscontrarono fino al piede delle montagne nelle vicinanze di Caxamalca.
Per tutto questo tragitto, gli abitanti hanno una maniera uniforme di vivere: le donne portano una veste larga che scende fino a terra all'uso delle donne di Castiglia; gli uomini hanno una camicia corta. Essi sono gente sporca, che mangia la carne ed il pesce crudo, ed il formentone cotto, nell'acqua o obbrustolito.
Hanno dei sacrifizi disgustanti e de' templi d'idoli, che essi tengono in gran venerazione, e gli offrono i beni loro più preziosi [Mesquitas, cioè delle Moschee (ha in effetti scritto il l'autore F. Xeres): Quando il Pizarro intraprese la conquista del Perù, erano scorsi appena trent'anni dacché i Mori erano stati cacciati dalla Spagna; perciò gli Spagnuoli avevano ancora l'abitudine di riguardare come Musulmani tutti i popoli infedeli; e ciò che li manteneva in questo errore, era senza dubbio l'idea di essere in Asia. E' noto che il desiderio di aggiugnere all'isola delle Spezierie, aveva fatto intraprendere a Cristoforo Colombo la scoperta dell'America, e che il Pizarro stesso non aveva avuto in principio altra intenzione che questa partendo da Panama].
Ogni mese immolano ad essi i loro propri figli, e col sangue delle vittime dipingono il viso degl'Idoli e le porte de' templi.
Fanno di questi edifizi la sepoltura de' loro morti, e li riempion di cadaveri dal pavimento fino alla sommità.
Sacrificansi essi stessi, e si danno la morte di loro propria volontà, ridendo, danzando, e cantando; e quando hanno assai bevuto, pregano che loro si tagli la testa. Immolano pure montoni.
I templi differiscono dagli altri edifizi: sono recinti di pietre e di mura fatte di terra e paglia, e sono molto ben costruiti sul sito il più elevato del villaggio.
Le usanze di Tumbez, e di tutti quei luoghi sono le stesse, ed i sacrifizi sono simili.
Seminano in quelle parti che possono essere irrigate, nelle pianure e sulle rive dei fiumi; e dividono le acque con de' canali artificiali.
Raccolgono molto gran turco, altre semente, e variate radici di cui si nutriscono.
raramente piove in questo paese.
Il governatore marciò per due giornate in certe valli popolatissime, ed ogni notte riposavasi in case fortificate e circondate da mura di terra e di paglia.
I capi di quei villaggi asserivano, che Cuzco l'antico abitava in quelle case quando viaggiava per quei paesi sabbiosi ed aridi; fino a che non fu giunto in un'altra valle ben abitata, in mezzo alla quale scorre una riviera larga e rapida [un traduttore di questo scritto, Domingo di Gatselù, si esprime così: "...Cuzco vecchio alloggiava in queste case quando faceva viaggio: la gente di questa terra viveva pacifica. Nell'altro giorno, camminò per una via di terra secca e sabbiosa, fino che arrivò in una valle ben popolata...]: ma siccome ell'era ingrossata, il governatore passò la notte sulla sua riva, e dette ordine ad un capitano di traversare a nuoto con gli uomini che sapevano nuotare, e di portarsi nel villaggio situato dall'altra parte, affinché alcuno non si opponesse al passaggio. Il capitano Ferdinando Pizarro fu quegli che ebbe questa commissione.
Gl'Indiani di un villaggio che rimaneva sulla sponda opposta, vennero a lui con dimostrazioni di amicizia: egli si alloggiò in una fortezza difesa da palizzate, ma bentosto vide che i nativi si erano sollevati, ad onta che molti di loro si fossero presentati pacificamente; tutti i villaggi erano abbandonati, ed i mobili ne erano stati tolti.
Domandò loro, se avevano cognizione delle intenzioni d'Atabalipa a riguardo dei cristiani, e se erano pacifiche o nò; ma nessuno volle dirgli la verità, pel timore che ciascuno aveva di questo principe.
Avendo preso a parte uno dei capi, e messolo alla tortura, questo Indiano disse, che Atabalipa li aspettava per combatterli, e che il suo esercito era diviso in tre parti.
Una era al piè delle montagne, un'altra sulle alture, e la terza a Caxamalca.
Questo capo riferì ancora, che aveva inteso dire ad Atabalipa con molta arroganza, che faceva d'uopo d'uccidere i Cristiani.
L'indomani mattina, Ferdinando Pizarro fece sapere il tutto al governatore; per cui questo ordinò di tagliare gli alberi dell'una e dell'altra parte del fiume, per far passare le truppe e i bagagli.
Si costruirono tre chiatte, sulle quali l'armata passò in tutto il corso del giorno; e i cavalli traversarono a nuoto.
Il Pizarro fu presente a tutta questa difficile operazione, né si ritirò fino a che non furono tutti passati; e appena che fu finito, andò a prendere i suoi quartieri nel luogo ove era il capitano.
Poi fece appellare un cacico, dal quale seppe, che Atabalipa era a Guamachuco, più avanti di Caxamalca, con un forte esercito che ascendeva a cinquanta mila uomini.
Il governatore sentendo parlare di questa moltitudine di combattenti, credè che il cacico si ingannasse ne' suoi calcoli; laonde si informò della sua maniera di contare, e apprese che quelle genti contavano da uno a dieci, da dieci a cento, da cento a mille; e per conseguenza che Atabalipa aveva seco cinque diecine di mille uomini; seppe ancora che quel cacico da lui interrogato, era il più potente sulle sponde del fiume.
Costui raccontò, che Atabalipa essendo venuto in quel paese, egli si era nascosto per timore di quel principe; e che questi non avendolo trovato nel suo villaggio, di cinquemila Indiani che gli obbedivano, gliene aveva uccisi quattromila, e preso seicento donne e dugento fanciulli, che Atabalipa aveva diviso tra' suoi soldati.
Il cacico poi del villaggio e della fortezza ove alloggiava il governatore, si chiamava Cinto, ed era con Atabalipa.
Il Pizarro vi soggiornò quattro giorni.
La vigilia della sua partenza ebbe una conferenza con un nativo della provincia di sant Miguel, a cui domandò se si sentisse il coraggio di andara a Caxamalca come spione, e d'informarlo di ciò che accadeva in quel paese.
L'Indiano gli rispose: io non oso andare da spione; ma se tu vuoi, anderò come tuo inviato a parlare ad Atabalipa ; saprò dirti se vi sono delle genti di guerra nella montagna, e quali sono le sue intenzioni.
Il governatore gli disse: che poteva partire in quella qualità che più gli piacesse, e che se delle truppe occupavano la montagna, come gli avevano detto, glielo facesse sapere per mezzo di un uomo del suo seguito: che parlasse ad Atabalipa ed alle sue genti, e loro esponesse i buoni trattamenti che lui stesso ed altri cacichi avevano ricevuto dal governatore e dai suoi; e finalmente proclamasse, che i Cristiani non erano per far guerra se non a coloro che li attaccassero. Egli doveva sopra ogni cosa parlare con esattezza, secondo ciò che aveva veduto, e dire ad Atabalipa , che se voleva agir bene, il Pizarro sarebbe suo amico e suo fratello, e che l'aiuterebbe nella spedizione.
L'Indiano partì dopo aver ricevuto le sue istruzioni, e il governatore proseguì la sua marcia in mezzo delle valli, trovando tutti i giorni un villaggio con la sua casa palizzata come una fortezza.
Tre giorni dopo arrivò alle falde di una montagna, lasciando a dritta la strada che aveva seguito perché conduceva a Chincha, perché per l'altra strada si doveva traversare una montagna pericolosa prima di arrivare a Caxamalca, occupata dalle genti di Atabalipa; per cui ne potevano risultare nell'attraversarla delle perdite.
Il governatore rispose, sapere Atabalipa che egli marciava incontro di lui dacché aveva lasciato il fiume Sant Miguel; il perché se ora egli cambiasse di strada, gl'Indiani direbbero, che non avea ardito marciare al loro riscontro e sempre di più s'inorgoglirebbero.
Questa ragione e molte altre, diss'egli, debbono impedirci di cangiar la strada; convien dunque andare incontro di Atabalipa, e tutti voi non avete che a condurvi secondo le speranze che mi avete date.
La moltidudine de' guerrieri d'Atabalipa non mi spaventa, egli aggiunse: sebbene i Cristiani siano in molto minor numero, la protezione del Signore è sufficiente per vincere i nostri nemici, e per istruirli nella nostra santa fede cattolica; giacché ogni giorno vediam ch'ella fa dei miracoli in certe occasioni difficili di questa, poiché io vado col fermo desiderio di condurli alla verità senza far loro nè torto nè male, meno che a quelli che volessero opporsi a' miei progetti e impugnare le armi.
Pizarro avendo così parlato, tutti dissero voler marciare pella strada che egli sceglierebbe come la più conveniente, che lo seguirebbero coraggiosamente, e che al momento d'agire vedrebbe le gesta di ciascheduno.
Arrivati al piede della montagna, ci si riposò un giorno per regolare il passaggio.
Il governo, secondo il parere delle persone più sperimentate, decise di lasciare indietro un corpo di riserva con i bagagli; prese seco quaranta cavalieri e sessanta pedoni, e affidò il resto ad un capitano, con ingiunzione di seguirlo in buon ordine, dicendo, che lo avviserebbe di ciò che avesse a fare.
Egli cominciò a salire la montagna in questa disposizione: i cavalieri conducevano i loro cavalli per la briglia.
A mezzogiorno arrivarono ad una fortezza cinta di palizzate, situata sulla sommità di un'altura ed in un passo così difficile, che pochi Cristiani potrebbero contendervi il passo ad un esercito numeroso: la strada era così scoscesa, che in certi punti si saliva come per mezzo di scale, né vi era altro cammino per traversar la montagna.
Si sormontò questo passo, senza che alcuno lo difendesse.
la fortezza è circondata da un muro di pietre fatto sopra un'altura recinta di balze scoscese, ed il governatore vi si arrestò per riposarvisi e desinare.
Il freddo che si sentì in quella montagna fu sì grande, che i cavalli, accostumati al calor delle valli, pella maggior parte si ammalarono.
Da questo sito, il Pizarro andò a passar la notte in un villaggio; poi inviò un espresso alla retroguardia, per dire a quelli che la componevano, che potevano superare il passaggio pericoloso in tutta sicurezza, e che facessero i loro sforzi per venire aprendere alloggio alla fortezza.
Per questa notte ei si fermò in un fortilizio fabbricato di pietre di taglio, e così forte quanto può essere qualunque piazza di Spagna; le porte e le mura erano tanto ben fatte, quanto se si fossero avuti in quel paese gli artefici e gl'istrumenti che si hanno in Spagna.
Gli abitanti se ne erano fuggiti, meno alcune donne ed alcuni Indiani.
Il governatore mandò un capitano a prendere due dei principali nativi: gli gece interrogare, ciascuno in particolare, intorno al paese, e s'informò del luogo ove era Atabalipa, e se esso lo attendeva pacificamente o con progetti ostili.
Il capitano seppe da queste genti, che quel principe era a Caxamalca da tre giorni, e seco aveva molta truppa, ma dissero di non conoscere le sue intenzioni: essi però avevano sempre inteso dire, che egli voleva far la pace co' Cristiani.
Gli abitanti di questo villaggio erano sottoposti ad Atabalipa.
Mentre il sole era per coricarsi, arrivò un indiano compagno di quello che il governatore aveva inviato a Caxamalca: quest'uomo diesse; che il suo capo l'aveva spedito, perché aveva riscontrato due messaggeri di Atabalipa, che egli avea lasciato indietro, ma che in due giorni sarebbero alla presenza di Pizarro: riferì che Atabalipa era a Caxamalca; che il suo compagno non prenderebbe riposo fino a che non avesse parlato a quel principe; e che ritornerebbe con una risposta.
Strada facendo e' non aveva veduto gente di guerra.
Il governatore scrisse all'istante tutte queste nuove al capitano che aveva lasciato co' bagagli; gli scrisse pure, che a datare dal giorno seguente egli si avanzerebbe a piccole giornate per aspettarlo, e che in seguito marcerebbero insieme.
L'indomani mattina il Pizarro continuò a salire la montagna: quindi si arrestò alla sommità sur un monticello, presso alcuni ruscelli, per aspettare quelli che lo seguivano.
Gli Spagnuoli si riposarono sotto a delle tende di cotone che seco portavano, e fecero del fuoco per dissipare il gran freddo che si provava su quelle alture; giacché nelle pianure di Castiglia non fa mai tanto freddo come in quella montagna.
La sommità è piana e tutta vestita di una specie di piante simili al piccolo giunco (esparto corto): vi vegetano ancora quaà e là alcuni alberi, e le acque sono così fredde, che non si possono bere senza farle riscaldare.
Era decorso poco tempo dacché il governatore si era fermato per riposarsi, quando da una parte giunse la retroguardia, e dall'altra i messaggeri inviati da Atabalipa, i quali conducevano seco dieci lamas.
Allorché furono alla presenza del governatore, e che l'ebbero salutato, dissero: che Atabalipa inviava quelli animali a' Cristiani, e che desiderava sapere il giorno in cui essi sarebbero a Caxamalca, affine di procurar loro delle vettovaglie lungo la via.
Pizarro fece loro una buona accoglienza, e disse: che si compiaceva del regalo, poiché glielo inviava il suo fratello Atabalipa; e soggiunse che si recherebbe presso di lui al più presto possibile.
Qundo si furono riposati, ed ebbero mangiato, il governatore gl'interrogò degli affari del paese, e sulle guerre del loro padrone.
Uno di essi rispose: che da cinque giorni quel principe aspettava il Pizarro a Caxamalca, e che non avea seco che poca gente, avendo inviato il resto delle sue forze contro suo fratello Cuzco.
Il governatore domandò loro notizie su tutte le guerre che Atabalipa aveva avuto, e come avesse incominciato le sue conquiste.
E l'Indiano gli rispose.
Il mio padrone è figlio di Cuzco l'antico, che è digià morto, e che governava tutta questa contrada.
Egli lasciò a suo figlio Atabalipa la sovranità di una gran provincia al di là di Tomipunxa, che si chiama Guito ; e lasciò in legato al suo figlio maiorasco tutte le altre sue possessioni, e la sovranità principale.
Siccome quest'ultimo succedeva al padre, prese il nome di Cuzco, che portava suo padre.
Ma non contento degli stati che possedeva, fece la guerra al suo fratello Atabalipa , il quale gl'inviò degli ambasciatori, per pregarlo a lasciarlo in pace ne' beni che suo padre gli aveva lasciato in eredità.
Cuzco però non volle acconsentirvi; uccise i figli di suo fratello, ed il fratello di uno de' due ambasciatori.
Ma Atabalipa avendolo saputo, marciò contro di lui alla testa di una numerosa armata fino alla provincia di Tumepomba, che faceva parte degli stati di Cuzco; e siccome gli abitanti avevano preso le armi a difesa di Cuzco medesimo, incendiò la città principale e tutti gli uccise.
Colà seppe che suo fratello era entrato ne' suoi possessi coll'armi alla mano, ed egli marciò contro di lui.
Ma appena Cuzco intese il suo arrivo, fuggì dal paese.
Allora Atabalipa proseguì le sue conquiste negli stati di suo fratello, senza trovar resistenza in alcuna città, giacché si sapeva il gastigo che aveva inflitto a Tumepomba.
In tutte le provincie che soggiogava egli aumentava la sua armata.
Essendo pervenuto a Caxamalca, trovò il paese ricco e fertile, per cui vi si riposò per continuare la conquista di tutti gli stati di suo fratello: quindi spedì un capo con duemila uomini di guerra per assediare la città dove suo fratello risiedeva: e siccome questi aveva un'armata numerosa, i duemila uomini furono uccisi.
Atabalipa inviò di nuovo, or sono sei mesi, due capi ed un maggior numero di guerrieri, e da pochi giorni egli ha ricevuto delle nuove: i due capi hanno conquistato tutto il territorio di Cuzco fino alla città ch'egli abitava, e questo principe è stato disfatto col suo esercito; e' si sono impadroniti della sua persona, e gli han preso una quantità considerabile d'oro e d'argento.
Il governatore rispose a questo messaggero: Io sono soddisfattissimo di ciò che tu mi hai raccontato, e della vittoria del tuo padrone; poiché suo fratello, non contento di ciò che possedeva, voleva spogliarlo della sua eredità. Agli ambiziosi avviene ciò che è avvenuto a Cuzco; non solamente non acquistano ciò che ingiustamente desiderano, ma perdono i loro beni e la loro persona.
Il Pizarro pensò, che quanto l'Indiano avea raccontato, gli fosse stato suggerito da Atabalipa per spaventare i cristiani, e per far conoscere la sua potenza e la sua sagacia.
Io credo, disse al messaggero, che quanto mi hai riferito sia vero: Atabalipa è un possente sovrano, e so che è un gran guerriero.
Ma tu saprai, che il mio padrone, imperatore, re di Spagna, di tutte le Indie, e della Terra Ferma, è sovrano del mondo intiero.
Egli ha un gran numero di servitori che sono principi più grandi di Atabalipa , ed i suoi generali hanno vinto e preso dei re più potenti di lui e di suo fratello. Or dunque l'imperatore mi ha inviato in questo paese per propagare fra' suoi abitanti la conoscenza di Dio, e per sottometterli. Con questo piccolo numero di cristiani che mi accompagnano io ho vinto dei re più formidabili di Atabalipa.
Se egli vuole essere mio amico e ricevermi come tale, io sarò suo amico, l'aiuterò nelle sue conquiste e consoliderò la sua potenza, giacché io traverso questa contrada fino a che non sia pervenuto al mare opposto.
Ma s'egli vuol la guerra, io gliela farò come l'ho fatta al cacico di San Iago, a quello di Tumbez e a tutti quelli che hanno voluto farla a me: però io non combatterò contro di alcuno, né farò del male a chi che sia, se nessuno è mio nemico.
Inteso questo discorso, gl'inviati restarono qualche tempo stupefatti senza proferire una parola, apprendendo che tanto pochi Spagnuoli avesser effettuato così alte imprese.
Qualche tempo dopo gli dissero, che desideravano portar la risposta al loro signore, e prevenirlo che i cristiani erano tosto per arrivare, affinché egli inviasse loro de' viveri per la strada: laonde il governatore li congedò.
L'indomani mattina ei si rimise in marcia, sempre pella montagna; e la sera prese i suoi quartieri in alcune abitazioni, che trovò in una vallata.
Nel momento che vi fu giunto, il principale inviato che Atabalipa aveva spedito il primo col piccolo presente nelle fortezze, sulla strada di Caxas si presentò.
Il governatore parve rallegrarsi molto della sua venuta, e gli domandò quali erano le intenzioni del suo padrone.
Questi rispose: ch'esse erano buone, e che quel principe lo inviava con dieci lamas, che egli conduceva per i Cristiani.
Esso si esprimeva con facilità, e sembrava ai suoi discorsi un uomo di spirito.
Appena che egli ebbe finito di parlare il Pizarro domandò agl'interpreti ciò che aveva detto: al che risposero, che le sue espressioni erano le stesse di quelle espresse dall'altro inviato del giorno innanzi; che anch'egli aveva parlato molto della gran potenza del suo signore, e della forza considerabile della sua armata, certificando sempre e protestando che il governatore sarebbe ricevuto con amicizia, e che Atabalipa lo tratterebbe da amico e da fratello.
Il Pizarro gli dette una lusinghiera risposta, come all'altro ambasciatore.
Costui aveva un equipaggio da gran signore: possedeva cinque o sei vasi d'oro fino, ed offriva della chicha [è questa una bibita fermentata fatta col formentone], che aveva portato seco a bere agli Spagnuoli; e disse inoltre, che desiderava viaggiare col governatore fino a Caxamalca.
Il Pizarro si rimesse in viaggio l'indomani mattina, e marciando nelle montagne come per l'avanti, pervenne a de' villaggi di Atabalipa, ove si riposò un giorno intero.
Il posdomani, l'inviato che aveva spedito a questo principe e che era uno de' capi Indiani della provincia di Sant Miguel, arrivò in questi villaggi, e vedendo l'ambasciatore diAtabalipa che era presente, sim precipitò sopra di lui, lo prese per le orecchie, e lo tirò con forza.
Il governatore gli ordinò di rilasciarlo, giacché se si fosse lasciato fare, questa rissa sarebbe stata molto seria; quindi gli domandò il perché avesse trattato in tal modo l'ambasciatore di suo fratello Atabalipa.
Perché, rispose il nostro inviato, perché quest'uomo è un gran furfante, uno spione di Atabalipa, che vien qui a dire delle menzogne ed a farsi credere un capo.
Atabalipa si dispone seriamente alla guerra nella pianura di Caxamalca, ha seco lui una numerosa armata, ed ho trovato la città deserta.
Di là mi sono portato al campo, ed ho veduto che aveva delle truppe numerose, dei bestiami, molte tende, e che tutte le sue genti erano pronte a combattere: hanno anche tentato di uccidermi; e l'avrebbero fatto, se io non avessi loro detto, che se mi uccidevano, sarebbero stati uccisi i loro ambasciatori, né si concederebbe loro di partire fino a che io non fossi di ritorno. Ecco perché mi lasciarono partire; ma non hanno voluto provvedermi gratuitamente di alimenti, per cui sono stato obbligato a dare altri oggetti in cambio [siccome usava presso le popolazioni del Perù spesare gli Ambasciatori, ricusare gli alimenti a quello del Pizarro era quanto dire di non riconoscere il di lui carattere].
Io domandai di vedere Atabalipa, e di esporgli il soggetto della mia ambasciata: ma essi vi si sono opposti, dicendo, che osservava il digiuno e che non voleva parlare a chicchessia. Uno de' suoi zii venne a ricevermi: io gli dissi, che era il tuo inviato, e tutto ciò che tu mi avevi incaricato di fargli sapere. Egli domandò che gente si erano i Cristiani, e quali erano le loro armi: io gli risposi, che si erano valorosi uomini, attissimi alla guerra, che possedevano de' cavalli veloci come il vento, e che quelli che gli montano hanno delle lance lunghissime colle quali uccidono tutti coloro che vogliono, perché gli raggiungono in due salti. I cavalli, diss'io loro, fanno un gran massacro colla loro bocca e co' loro piedi. I Cristiani che vanno a piè sono agilissimi, portano al braccio uno scudo rotondo di legno col quale si difendono, e delle fitte vesti imbottite di cotone; hanno spade taglientissime, che ad un sol colpo fendono un uomo in due parti, e troncano la testa di un lamas, e con queste spade troncano tutte le armi di cui si servono gl'Indiani; ed altri hanno delle balestre, colle quali tirano da lontano, ed ogni colpo uccide un uomo. Essi hanno pure delle armi a polvere, che spingono delle palle di fuoco, ed uccidono una gran moltitudine di uomini.
Essi risposero che tutto questo non era nulla; che i cristiani erano in piccol numero; che i cavalli non erano armati, e che gli ucciderebbero colle loro lance.
Io lor replicai, che essi avevano la pelle dura, e che le loro lance non potrebbero scalfirla: le armi a fuoco, dissero essi, non ci spaventano, giacché i Cristiani non ne avevano che due.
Al momento di partire, domandai di esser presentato ad Atabalipa, poiché i suoi inviati vedevano il governatore e gli parlavano, sebbene più potente di loro: ma essi non vollero acconsentirvi, ragione per cui io sono ritornato.
Tu, dunque, puoi giudicare se ho ragione di volere uccidere quest'uomo; giacché è uno spione di Atabalipa, come mi è stato detto: egli parla e mangia con te, ed io, che sono un cacico, non potei parlare ad Atabalipa, né volle darmi da mangiare; e debbo alle buone ragioni che ho loro addotte, se ho potuto sfuggire alla morte.
L'inviato di Atabalipa parve tutto spaventato in vedere con qual fuoco si esprimeva l'altro Indiano: ma rispose, che se nessuno abitava la città di Caxamalca, ciò era perché le case fossero luibere, onde gli Spagnuoli potessero alloggiarvi; e che Atabalipa teneva la campagna perché tale era il suo costume fin dal principio della guerra.
Se ti hanno impedito di parlare ad Atabalipa , aggiunse egli, la ragione si è, che secondo il suo uso ei digiunava, e prò non ti hanno permesso di vederlo; perché quando egli osserva il digiuno e vive in solitudine, nessuno gli può parlare; e niuno ha ardito di fargli sapere che tu eri giunto. S'ei l'avesse saputo, ti avrebbe ammesso alla sua presenza, e ti avrebbe offerto da mangiare.
Egli aggiunse aziandio molte altre ragioni, accertando che Atabalipa stava attendendo gli Spagnuoli con buone intenzioni.
Ma se scriver dovessi tutta la conferenza che ebbe luogo tra questo Indiano e il Pizarro, ne formerei un libro.
Io dirò dunque in conclusione, che il governatore gli rispose esser ben persuaso che così stesse la cosa, e che non si aspettava di meno dal suo fratello Atabalipa.
Egli non cessò di trattarlo così bene come per l'avanti, e mostrava del risentimento verso l'Indiano suo inviato, facendo credere a quello di Atabalipa che ei l'odiava per averlo maltrattato in sua presenza: ma in segreto, egli era persuaso che il suo Indiano aveva detto il vero, giacché conosceva la perfidia de' nativi.
Il giorno seguente il Pizarro partì, e andò a passar la notte in certe praterie, affine d'arrivare il posdomani a mezzogiorno a Caxamalca, che per quanto si diceva, non era molto lontana.
I messaggeri di Atabalipa vi si recarono con de' viveri per i Cristiani.
Allo spuntar del giorno il capitano si pose di nuovo in marcia colle sue truppe schierate in buon ordine, e si avanzò fino a una lega da Caxamalca, ove aspettò la sua retroguardia: la quale arrivata, il governatore dispose la sua armata ad entrare nella città.
Fece tre corpi della sua cavalleria e de' pedoni, marciando con quest'ordine, inviò de' messaggeri ad Atabalipa, per dirgli di venire a Caxamalca affine d'aver seco una conferenza: e quando fu all'ingresso della città, vide il campo d' Atabalipa, che era posto sul fianco di una montagna a una lega da Caxamalca.
Il Pizarro entrò in questa città un venerdì, a ora di vespro (il 15 novembre 1532 del nostro Signor Gesù Cristo).
Nel centro della medesima evvi una gran piazza circondata da mura di terra e paglia, e da case abitabili.
Il governatore non avendo incontrato nessuno, si stabilì in questa piazza, e spedì un espresso ad Atabalipa per fargli sapere il suo arrivo, e per impegnarlo a venire a vederlo, e indicargli ove gli fosse destinato l'alloggio.
Frattanto, mentre quest'uomo era per strada, Il Pizarro fece esaminare la città per vedere, se vi era una posizione più forte nella quale trincerarsi, dando ordine che nessuno uscisse dalla piazza, e proibì a' cavalieri di por piede in terra fino a che non si sapesse la venuta di Atabalipa.
Quando si fu esplorata la città, riconoscemmo che non vi era posizione più vantaggiosa della piazza.
Questa città, è la più considerabile della vallata, è fabbricata sul declive d'una montagna, ed ha una lega di superdicie.
Due riviere traversano la vallata, la quale da una parte è piana e popolatissima, e circondata di montagne dall'altra.
Caxamalca conta duemila abitanti: all'ingresso vi sono due ponti, e le due riviere passano da questa parte.
La piazza è più grande di qualunque altra di Spagna, ed è tutt'attorniata di edifizi: due porte vi danno accesso, e corrispondono colle strade della città.
Le case hanno più di dugento passi di larghezza, e sono benissimo fatte, e circondate da mura di terra e paglia di tre tese: i tetti sono coperti di paglia e di legni, che si appoggiano sulle muraglie.
Vi sono delle case, che nell'interno hanno appartamenti divisi in otto parti, e queste sono meglio disposte dell'altre: le mura di queste case sono di pietra viva molto ben lavorata, e gli appartamenti sono separati da muri di terra, e ciascuno ha la sua porta: ne' cortili poi vi sono dei bacini d'acqua, condotta da lontano a forza di canali per servizio degli abitatori.
Davanti alla piazza, nella direzione della campagna, evvi una fortezza di pietra, e per mezzo di una scala parimente di pietra squadrata si ascende dalla piazza alla fortezza: una piccola porta recondita con una scala segreta, corrisponde dalla parte della campagna, per cui si può salire alla fortezza senza passare dalla piazza.
Al di sopra della città, dalla parte della montagna ove cominciano le case, sorge un'altra fortezza, costruita sopra uno scoglio quasi all'intorno tutto tagliato a picco.
Questa, siccome più grande della prima, ha un triplice recinto, e vi si ascende per mezzo di una scala a chiocciola: né si erano ancora vedute presso gl'Indiani simili fortezze.
Tra la montagna e la gran piazza ve n'è una più piccola, tutta circondata di abitazioni, le quali erano piene di donne al servizio di Atabalipa.
Prima di arrivare nella città trovasi una casa recinta da muraglie di terra e paglia con un cortile adorno di alberi.
Gli abitanti dicono, che questa è la casa del sole; d'altronde quest'astro ha de' templi in tutti i villaggi. Incontransi molti altri templi in questa città ed in tutto questo paese, i quali sono in così gran venerazione, che quando gl'Indiani vi entrano, lasciano i loro calzari sul limitare.
Appena giunti nelle montagne trovammo gli abitanti molto migliori di tutti quelli che avevamo lasciato indietro, cioè molto più propri ed intelligenti.
Le donne sono eziandio più ritenute; hanno sulle loro vesti de' cordoni ben lavorati e legati in cintola. Al di sopra di questa veste esse portano un pezzo di stoffa di lana che le cuopre dalla testa fino alla metà della gamba, e che rassomiglia ad una mantiglia.
Gli uomini poi portano delle piccole camicie senza maniche ed una coperta di lana.
Tutte le donne tessono nelle loro case della lana e del cotone, e fabbricano le stoffe necessarie ed i calzari degli uomini colla stessa materia. Questi calzari sono fatti a guisa di scarpe.
Il Pizarro era rimasto indietro cogli Spagnuoli per aspettare Atabalipa, o qualcuno che gli destinasse un alloggio da parte di lui: ma vedendo che si faceva tardi, spedì un capitano e venti cavalieri per dire a quel principe di portarsi colà per parlargli.
Gli raccomandò di evitare di battersi colle di lui genti, a meno di non esservi assolutamente costretto; di fare per parte sua tutto il possibile per pervenire fino a lui, e di ritornare con una risposta.
Allorché questo capitano fu a metà del cammino, il governatore salì in cima della fortezza, e vide rimpetto alle tende alzate nella campagna, una gran moltitudine di Indiani. Temendo che i Cristiani non si trovassero in pericolo in caso di attacco, egli inviò loro suo fratello, il capitano Ferdinando, con altri venti cavalli, affinché potessero più facilmente difendersi e batter la ritirata, raccomandandogli però di evitare di venire alle mani.
Poco dopo, essendo incominciato a piovere e a grandinare, il Pizarro dette ordine a' Cristiani di alloggiarsi negli appartamenti del palazzo, e fece piazzare il capitano dell'artiglieria, e i suoi pezzi nella fortezza.
In qyesto mentre arrivò uno Indiano da parte di Atabalipa, per dire al governatore che alloggiasse ove volesse, meno che nella fortezza, e riferì che il suo padrone non poteva venire, perché osservava il digiuno.
A costui il governatore rispose che così farebbe, e che aveva inviato suo fratello per pregare quel principe di venirlo a vedere, giacché, a motivo del bene che gli era stato detto della sua persona nutriva gran desiderio di conoscerlo.
Il messaggero partì con questa risposta, ed il capitano Ferdinando Pizarro, con i Cristiani, fu di ritorno al calar della notte.
Quando i Cristiani furono al cospetto del governatore gli dissero, che nella loro marcia avevano trovato un cattivo passo, cioè un pantano, che da lungi rassomigliava ad una strada: infatti una larga via di petra conduce fino al campo di Atabalipa: ma siccome ella passa per luoghi difficili, essi si erano impegnati in questo cattivo passo, ed avevano traversato da un'altra parte, passando, prima di arrivare al campo, due correnti d'acqua, una delle quali scorreva davanti ai trinceramenti d'Atabalipa, e gl'Indiani la varcavano sopra un ponte; cosicché da questa parte il campo era circondato dall'acqua.
Il capitano, che era partito il primo, aveva lasciato le sue genti al di quà della riviera, per timore di spaventare i nativi, e non aveva voluto passare il ponte, per tema che non gli mancasse sotto; ma aveva traversato l'acqua seco conducendo il suo interprete, e passando in mezzo ad una truppa di gente ordinata in battaglia. Arrivato all'alloggio di Atabalipa, vide quattrocento Indiani nel mezzo di una piazza, i quali sembravano essere di guardia.
Il tiranno (el tyrano) era sulla porta della sua dimora assiso sopra piccolo seggio, e gran numero d'Indiani d'ambo i sessi stavano in piedi davanti a lui, quasi circondandolo.
Egli aveva sulla testa una nappa di lana, che si sarebbe presa per seta di color cremisi, alta due mani, e legata con cordoni che scendevano fin su gli occhi; il che lo faceva sembrare molto più grave di quello che in effetti non fosse: teneva gli occhi fissi a terra senza rimuovere lo sguardo.
Quando il capitano Ferdinando fu davanti a questo principe gli fece dire per mezzo del suo interprete o turcimanno, che egli era un ufiziale del governatore, il quale l'inviava per fargli visita, e per esprimergli il desiderio di vederlo: aggiungendo, che il Pizarro sarebbe soddisfattissimo, s'egli si compiacesse andar da lui: e gli tenne pure altri discorsi, a' quali Atabalipa non rispose, né alzò pure la testa per guardarlo: ma un capo parlò per lui.
In questo mentre il secondo capitano arrivò al luogo ove il primo aveva lasciato le sue genti, e informatosi di ciò che era avvenuto del suo collega, gli fu risposto che era andato a parlare al cacico.
Egli pure lasciò il suo seguito, passò la riviera, ed arrivò ove era Atabalipa.
Allora il primo capitano disse: Ecco il fratello del governatore, parlagli poiché egli viene a trovarti.
A queste parole il cacico alzò gli occhi, e disse: Mayçabilico, un capo che io ho sulle sponde della riviera di Turicara, mi ha fatto sapere come voi maltrattate ed incatenate i cacichi, ed in prova di ciò, mi ha inviato un collare di ferro e mi ha significato di avere ucciso tre Cristiani e un cavallo; nullameno domani mattina andrò a vedere il governatore, e sarò l'amico de' Cristiani, purché sieno buoni.
Ferdinando Pizarro gli rispose: Mayçabilico è un mentitore, poiché un solo Cristiano basterebbe ad uccider lui, e tutti gl'Indiani di quella riviera. Infatti, come oserebb'egli uccidere i Cristiani ed i cavalli, s'egli è un vile (unas gallinas) al pari degli altri? Né il governatore, né i Cristiani maltrattano i cacichi, se questi non osano fargli la guerra, e noi ci diportiamo molto bene a riguardo degl'Indiani che desiderano esser nostri amici. Per quelli poi che voglion la guerra, noi gliela facciamo fino al loro esterminio, e allorché tu avrai veduto ciò che sono i Cristiani, quando ti aiuteranno nella guerra contro i tuoi nemici, allora saprai che Mayçabilico ha mentito.
Ebbene!, disse Atabalipa: un cacico ha ricusato di sottomettersi a' miei ordini, le mie truppe partiranno con voi, e voi gli farete la guerra.
Ferdinando Pizarro rispose: Per un sol cacico, non è necessario che la tua armata si metta in campagna; dieci cavalieri Cristiani bastano per vincerlo.
Atabalipa si pose a ridere, e invitò i capitani a bere; ma siccome questi si diffidavano, gli risposero che digiunavano; pure cederono alle sue istanze e accettarono.
All'istante comparvero delle donne con de' vasi d'oro, ne' quali eravi della chicha di formentone; ma appena Atabalipa le vide, gettò su di esse uno sguardo significantissimo, per cui tosto si allontanarono e ritornarono con altri vasi d'oro più grandi de' primi, presentendoli ai Cristiani per bere.
Quindi essi presero congedo da Atabalipa, dopo avere insieme convenuto ch'egli visiterebbe il governatore l'indimani mattina.
Il campo di questo principe era sul pendio d'una collina; le tende, tessute di cotone occupavano una lega di lunghezza, e nel mezzo si elevava quella di Atabalipa.
Tutto il suo esercito era schierato fuori delle tende, e le loro armi, che sono lance della grossezza delle picche, erano piantate in terra: così che questi due capitani credettero vedere trentamila uomini nel campo.
Tosto che il Pizarro fu istruito di ciò che era accaduto, fece fare una buona guardia: al suo comandante in capo fece visitare i ponti, e ordinò che per tutta la notte delle pattuglie percorressero gli approcci de' trinceramenti, e così fu fatto.
L'indomani, sabato, il governatore ricevette di buon'ora un messaggero d'Atabalipa, che gli disse: Il mio signore m'invia a te per prevenirti che desidera vederti: egli condurrà seco le sue truppe armate, poiché ieri tu hai fatto altrettanto: domanda che tu gl'invii un Cristiano per accompagnarlo.
Dì al tuo signore, gli rispose il Pizarro, che egli venga sotto buoni auspici, e come gli aggrada: in qualunque modo ch'egli si presenti, io lo riceverò da fratello e da amico; ma non gli invierò alcuno de' cristiani, perché non è uso tra noi che un principe ne invii ad un altro.
Il messaggero se ne ritornò con questa risposta; e appena arrivato al campo, le nostre sentinelle videro gl'Indiani mettersi in marcia.
Poco dopo, un altro inviato si presentò, e disse al governatore: Atabalipa mi ha incaricato di farti sapere, ch'egli non vuol più condurre i suoi guerrieri, e che invece di loro, molte delle sue genti verranno senz'armi, perché desidera averle al suo seguito, ed alloggiarle in questa città, e perché debbono preparargli un alloggio nella piazza ond'egli possa dimorarvi: e ciò vuol che sia fatto nella casa detta del serpente, perché vi è nell'interno un serpente di pietra.
Il governatore rispose: che sia fatto il suo volere, e che Atabalipa venga al più presto, giacché desidero conoscerlo.
Nell'istante [scrive lo Xeres nella sua cronaca, dopo che l'Inca si è accordato con Ferdinando Pizarro, fratello di Francesco, per entrare in Caxamalca ad incontrare pacificamente il governatore Francesco Pizarro] tutta la campagna fu piena di gente, che si avanzava e si arrestava quasi ad ogni passo per aspettare quelli che venivano dal campo.
Questo concorso di uomini, che marciavano divisi in colonne, durò fino alla sera.
Quando ebbero oltrepassato tutti i cattivi passi, si arrestarono nella campagna presso al campo de' Cristiani, e in tutto questo tempo la gente esciva da quello di Atabalipa.
Allora il Pizarro comandò agli Spagnuoli di armarsi nei loro alloggiamenti, di tenere i loro cavalli sellati e imbrigliati sotto gli ordini di tre capitani, e proibì che nessuno uscisse per andare in piazza.
Ordinò al capitano d'artiglieria di puntare i suoi cannoni sui nemici che occupavano la pianura, e di fargli fuoco quando fosse tempo.
Pose quindi la sua gente in agguato nelle strade che conducevano alla piazza, e scelse venti fantaccini, che restaron seco nel suo alloggiamento, per aiutarlo ad impadronirsi d'Atabalipa, se fosse proditoriamente venuto, come pareva fare, poiché si faceva accompagnare da tanta gente.
Egli raccomandò di prenderlo vivo, e che nessuno abbandonasse il suo posto, quand'anche si vedesse entrare il nemico nella piazza, fino a che non si fossero intese le scariche dell'artiglieria.
Molte sentinelle stavano in osservazione: e se Atabalipa si presentasse con cattive intenzioni, egli darebbe il segnale di accorrere, e allora tutti dovevano uscire da' loro alloggiamenti, e i cavalieri montare a cavallo gridando Sant Jago.
Con queste disposizioni il governatore attese l'ingresso d' Atabalipa, senza che alcun Cristiano si mostrasse nella piazza, eccetto la sentinella, che dovea osservare quello che accadeva nell'armata nemica.
Il Pizarro ed il comandante in capo visitarono i posti degli Spagnuoli, esaminando se erano pronti a marciare, quando ne fosse giunto il momento, e a tutti dicendo di farsi una fortezza del loro cuore, poiché non ve n'erano altre, né vi era da aspettar soccorso che da Dio, che ne' grandi pericoli protegge quelli che marciano in suo servigio.
Benché ogni cristiano debba combattere contro cinquecento Indiani, essi aggiungevano, mostrate quel coraggio di cui la gente di cuore fa prova in tali occasioni, e sperate che Dio combatterà con voi. Al momento dell'attacco, precipitatevi con forza e prontezza, e date la carica al nemico senza che i cavalli si gettino gli uni sopra gli altri...Tali erano i discorsi, che il governatore e il comandante in capo tenevano ai Cristiani per incoraggirgli; giacché questi avrebbero preferito uscire in aperta compagna, piuttosto che restare nelle case.
Ciascuno, a vedere il loro coraggio, parea valer cento uomini, né, tanta moltitudine di gente nemica li spaventava.
Il governatore vedendo che il sole stava per coricarsi, che Atabalipa non si muovevano, e che uscivano sempre delle truppe dal suo campo, mandò a pregarlo per uno Spagnuolo d'entrar nella piazza, e di venirlo a vedere prima che si facesse notte.
["La cattura dell'Imperatore": una fra le tante pagine del crollo degli Imperi del Sole dopo la scoperta e la conquista del Nuovo Mondo o America] Quando il messaggero fu in presenza di Atabalipa, lo salutò e gli fe' segno di portarsi presso il governatore; e tosto il il principe si messe in marcia colle sue genti.
Quelli che formavano la vanguardia avevano delle armi nascoste sotto le loro camicie, le quali erano una specie di giustacuori fortissimi, imbottiti di cotone, lo che provava le loro cattive intenzioni.
Appena che la vanguardia incominciò ad entrare nella piazza, una truppa d'Indiani, coperti d'una specie di livrea a diversi colori disposti come gli scacchi di uno scacchiere, marciava innanzi e spazzava la strada.
Dopo di loro venivano cantando e danzando tre gruppi di gente vestita in differente maniera, e quindi una moltitudine di persone portanti delle corone d'oro e d'argento.
In mezzo di esse Atabalipa stavasi in una lettiga ornata di penne di pappagalli di tutte le specie di colori, e arricchita di laminette d'oro e d'argento.
Un gran numero d'Indiani lo portavano su le loro spalle; e lo seguivano due altre lettighe e due brande all'americana, nelle quali eranvi i principali personaggi.
Finalmente una moltitudine di gente divisa in colonne marciava appresso, e portava corone d'oro e d'argento.
Tosto che le prime schiere furono entrate nella piazza, si allontanarono e fecero posto alle altre; e quando Atabalipa fu arrivato in mezzo, fece fermar tutti ed ordinò che si continuasse a tenere sollevata la sua lettiga e le altre.
Entrava sempre gente nella piazza, e intanto un capo Indiano della vanguardia salì alla fortezza, ov'era l'artiglieria, e sollevò due volte una lancia come per dare un segnale.
Da che il governatore lo vide, domandò a Fra Vincenzo di Valverde, se volesse andare a parlare ad Atabalipa, e si espresse in questo modo per l'organo del suo interprete: Io sono un sacerdote di Dio; insegno a' cristiani le cose del Signore, e vengo a insegnarle a voi pure; io insegno ciò che Dio ha rivelato, e ciò che è contenuto in questo libro. E' in questa qualità che io ti prego, da parte di Dio e de' Cristiani, d'essere il loro amico, giacché Dio lo vuole, e tu te ne troverai bene. Va' dunque a parlare al governatore che ti attende.
Atabalipa domandò che gli porgesse il libro per vederlo, e il Valverde glielo presentò chiuso; ma siccome non gli riusciva di aprirlo, il religioso stese il braccio per mostrargli come conveniva fare; ma Atabalipa gli dette con sdegno un colpo sul braccio non volendo permetterlo, e sforzandosi di aprirlo vi riuscì.
Egli non si fece caso di vedere né i caratteri né il foglio, come gli altri Indiani, e lo gettò cinque o sei passi lungi da se.
Ei rispose eziandio con molto sdegno e in questi termini, al discorso che il monaco gli aveva fatto intendere per mezzo del turcimanno: Io sono bene istruito di ciò che voi avete fatto pella strada, e come voi avete bistrattato i miei cacichi, e saccheggiato le case.
Il padre Vincenzo gli rispose: I Cristiani non hanno agito come tu dici: alcuni Indiani avendo portato diversi oggetti senza che il governatore ne fosse istruito, li ha rinviati.
Ebbene! -rispose Atabalipa- io non mi muoverò di qui fin che voi non mi abbiate reso il tutto.
Il religioso ritornò presso il governatore con questa risposta.
Atabalipa si alzò sulla sua lettiga, ed esortò i suoi a tenersi pronti.
Il padre Vincenzo raccontò al governatore ciò che era avvenuto con Atabalipa, e che costui aveva gettato a terra la santa Scrittura.
All'istante medesimo il Pizarro vestì una corazza imbastita di cotone; prese la sua spada, il suo scudo, traversò la folla degl'Indiani con gli Spagnuoli che aveva ritenuti presso di se, e coraggiosamente accompagnato da quattro uomini, che soli avevano potuto seguirlo, giunse fino alla lettiga d'Atabalipa, e senza il minimo timore gli afferrò il braccio sinistro, esclamando: Santiago!.
A questa voce tosto s'intesero le scariche dell'artiglieria unitamente al suono delle trombe, e tutta la cavalleria ed i pedoni uscirono.
Appena che gl'Indiani videro galoppare i cavalli, quasi tutti abbandonarono la piazza, e se ne fuggirono con tanta precipitazione, ch'essi abbatterono una parte del recinto della città, e in gran numero caddero gli uni sopra gli altri.
I cavalieri passarono su di loro uccidendoli e calpestandoli, per inseguire i fuggitivi.
L'infanteria attaccò con tanta furia quelli che restarono nella piazza, che in poco tempo quasi tutti furono passati a fil di spada.
Frattanto il governatore teneva sempre Atabalipa per il braccio, non potendolo tirare a basso dalla sua lettiga, perché era troppo elevato: laonde gli Spagnuoli uccisero molti portatori per far cadere la lettiga, e se il governatore non avesse protetto Atabalipa, questa volta quel barbaro avrebbe espiato tutte le crudeltà che aveva commesso; giacché per difenderlo egli fu leggermente ferito in una mano.
In tutto il tempo dell'azione nessun Indiano fece uso delle sue armi contro gli Spagnuoli, tanto fu grande il loro spavento vedendo il Pizarro in mezzo a loro, i cavalli che accorrevano in suo aiuto, e udendo tutto ad un tratto le scariche dell'artiglieria; le quali cose erano tutte nuove per lor, per cui cercarono piuttosto di fuggire che di combattere.
Quelli che portavano la lettiga d'Atabalipa parevano esser de' capi; i quali furono tutti uccisi, insieme con quelli che erano sulle lettighe e sulle brande: stava in una di quelle lettighe un gran signore, che adempiva presso Atabalipa la carica di scudiere, e che egli stimava molto; gli altri pure erano personaggi potenti e suoi consiglieri.
Tra questi il cacico di Caxamalca fu massacrato, ed anche un gran numero di capi morirono; ma non se ne tenne conto attesa la loro moltitudine, poiché tutti quelli che componevano la guardia d'Atabalipa erano persone di distinzione: il governatore ritornò alla sua abitazione sol suo prigioniero, spogliato de' suoi vestimenti, che gli Spagnuoli gli avevano strappato procurando di farlo scendere dalla sua lettiga.
E' cosa maravigliosa vedere un principe sì grande e potente fatto prigioniero in sì poco tempo.
Intanto il governatore inviò nella città a cercargli delle vesti, per farlo rivestire e lo consolò del dolore di vedersi sì repentinamente caduto dalla sua potenza, dicendogli tra le altre parole consolanti queste: Non ti vergognare di essere stato vinto e fatto prigioniero: i Cristiani che io conduco sono è vero poco numerosi, nondimeno ho conquistato con loro degli stati più vasti de' tuoi, ed ho assoggettato de' principi più potenti di te all'obbedienza dell'imperatore mio signore, re di Spagna e del mondo intiero. Noi siam venuti per ordine suo a conquistare questo paese perché tutti abbiano la conoscenza di Dio, e della santa fede cattolica; laonde noi non abbiam che delle buone intenzioni.
Noi siam venuti perché tu impari a conoscere il Signore, e perché tu abbandoni questa credenza diabolica e brutale, nella quale tu vivi. Ecco perché Dio, creatore del Cielo, della terra e di tutto ciò che esiste, ha permesso che una piccola truppa come la nostra sia vittoriosa d'una sì gran moltitudine di nemici. Quando tu conoscerai l'errore nel quale sei vissuto, tu vedrai ancora qual vantaggio sia stato per te che noi siam venuti in questo paese per ordine di Sua Maestà. Tu devi reputarti fortunato di non essere stato vinto da una nazione crudele come la tua, la quale non risparmia alcuno. Ma noi trattiamo con umanità i nostri nemici vinti: non facciamo la guerra che quando ci attaccano, e anche quando noi potremmo distruggerli, lor perdoniamo: e infatti, allorché teneva in mio potere il cacico dell'isola, l'ho rimesso in libertà, affinché si conducesse bene per l'avvenire, e mi sono diportato nella stessa maniera con quelli di Tumbez, di Chilimasa ed altri, i quali, dopo esser caduti nelle nostre mani, quantunque meritassero la morte, io gli ho perdonato. Se noi ci siamo impadroniti della tua persona, e se abbiamo ucciso la tua gente, la ragione si è che tu sei arrivato con un'armata numerosa, quando noi ti avevamo fatto pregare di presentarti da amico, e perché hai gettato per terra il libro che contiene la parola di Dio: perciò il Signore ha permesso che il tuo orgoglio sia umiliato, e che nessun degl'Indiani potesse ferire un sol Cristiano.
Atabalipa rispose al discorso del governatore in questa sentenza: I miei uffiziali mi hanno ingannato, dicendomi di non far conto degli Spagnuoli, poiché la mia intenzione era di presentarmi da amico; ma essi non hanno voluto acconsentirvi. Tutti quelli che mi hanno dato questo consiglio, sono stati uccisi; ed io ho potuto vedere la bontà e il coraggio degli Spagnuoli, che a torto Mayçabilica ha calunniati.
Siccome era sopraggiunta la notte, vedendo il governatore che quelli che avevano inseguito i fuggitivi, non erano ancor di ritorno, fece tirare una scarica d'artiglieria e suonar la tromba, onde essi cominciarono la loro ritirata.
Poco dopo rientrarono tutti nel campo co' numerosi prigionieri che avevano fatto, i quali ammontavano a più di tremila.
Il governatore domandò a' suoi se ve n'erano de' feriti, ed il suo comandante in capo, che era alla loro testa, gli rispose che un sol cavallo aveva ricevuta una leggera ferita.
Il governatore, pieno di gioia, gli disse: Io ne ringrazio vivamente Dio nostro Signore; e tutti noi, o signori, rendiamogli numerose azioni di grazia per il luminoso miracolo, che quest'oggi ci ha fatto; noi possiamo credere in verità, che senza la sua protezione particolare non avremmo potuto entrare in questo paese, e almeno restar vincitori d'una sì grande armata; piaccia a Dio, poiché per sua misericordia egli ha voluto accordarci tali favori, che ci conceda ancora la grazia di condurre a fine altre opere simili per meritare il suo santo regno. Ma voi, o signori, siete stanchi, e però ciascuno se ne vada a riposare a' suoi alloggiamenti, e sebbene Dio ci abbia fatto vincere, non cessiamo di stare in guardia, poiché queste genti sono in rotta, è vero, ma sono artificiosi e agguerriti, e questo principe, voi lo sapete, è temuto e obbeddito. Essi porranno in opra tutte le perfidie e tutte le astuzie, per ritrarlo dalle nostre mani. Questa notte adunque, e tutte le susseguenti, si faccia buona guardia e facciansi vigilare le pattuglie, onde possimo essere avvertiti.
Dopo questa allocuzione essi andarono a cenare, ed il Pizarro fece sedere Atabalipa alla sua tavola e lo trattò con bontà.
Questo capo fu servito come lui: in seguito egli mandò a cercare quelle delle sue donne che erano state prese, ed il principe stesso ne scelse una.
Il governatore ordinò che si aggiustasse un buon letto per Atabalipa nella camera dov'egli dormiva; né lo fece sorvegliare che da una sola guardia, senza farlo incatenare.
La battaglia aveva durato poco più di mezza ora, giacché il sole era digià tramontato quando l'azione incominciò.
Se non fosse sopraggiunta la notte, di trenta mila uomini e più (poiché que' che avevano veduto delle armate in aperta campagna, furono di parere che ve ne fosse più di quarantamila), pochissimi sarebbero sfuggiti.
Vi erano nella piazza più di duemila morti non compresi i feriti, e si notò in questo scontro un fatto maraviglioso: i cavalli, che la vigilia non potevano muoversi a causa de' dolori provenienti dal freddo che avevano sofferto, galopparono in questo giorno con tanto ardore, che parevano non mai essere stati malati.
Nella notte, il capitano comandante in capo fece l'ispezione alle sentinelle ed ai posti, e le collocò in luoghi convenienti.
L'indomani mattina, il governatore inviò un capitano con trenta cavalieri per scorrere tutto il piano, e fece spezzare le armi degli Indiani.
Durante questo tempo, quelli che erano restati al campo fecero togliere dalla piazza, col mezzo de' prigionieri Indiani, i cadaveri che vi si trovavano.
Il capitano ed i cavalieri raccolsero tutto ciò che vi era nel campo e nelle tende d'Atabalipa, e ritornarono avanti mezzogiorno ne' trinceramenti de' cristiani con un convoglio d'uomini, di donne, di armenti e dell'oro e dell'argento, e del bottino.
In questo scontro i Cristiani guadagnarono 80.000 pesi d'oro, 7000 marchi d'argento, e quattordici smeraldi: l'oro e l'argento erano in pezzi enormi, in piatti grandi e piccoli, in secchie, in anfore, bracieri, grandi tazze, ed altri vasi di differenti forme.
Atabalipa disse, che tutti quei vasi erano per suo uso, e che gl'Indiani che se n'erano fuggiti ne avevano portato via una quantità considerevolissima.
Il governatore ordinò di sciogliere tutto il bestiame, perché ve n'era anche di troppo, e perché riusciva d'imbarazzo; di ucciderne ogni giorno quanto ne abbisognasse; e di condurre nella piazza i prigionieri, che si erano fatti la vigilia, onde i cristiani si prendessero quelli di cui avevano bisogno per farsi servire.
Ordinò ancora dare agli altri la libertà, perché se ne tornassero alle case loro, essendo di differenti paesi, da' quali Atabalipa li aveva fatti venire per far la guerra, e per il servizio della sua armata.
Molti Spagnuoli furono d'avviso di uccidere tutte le persone atte alla guerra, o almeno di tagliar loro le mani: ma il governatore non volle acconsentirvi, dicendo che non conveniva esser così crudeli.
Convenne che Atabalipa era possente, che poteva, è vero, riunire delle grandi forze; ma riconobbe che il potere di Dio era senza dubbio superiore; che il Signore proteggeva i suoi colla sua infinita bontà; i quali dovevano esser certi, che colui che gli aveva preservati dal pericolo del giorno avanti, gli sosterrebbe ne' pericoli futuri: e siccome i cristiani avevano il doppio progetto, di conquistare questi selvaggi infedeli al servizio di Dio, e d'istruirli nella santa fede cattolica, essi non dovevano, diceva egli, irritare queste genti nelle crudeltà che commettevano, e ne' sacrifizi che fanno de' loro prigionieri.
La morte di quelli, che sono periti nell'azione, basta -aggiunse egli-; queste genti sono state condotte come al macello, non è bene di ucciderle, e far loro del male.
Laonde, furono tutti rimessi in libertà.
Si trovarono in questa città di Caxamalca delle case piene da cima a fondo di stoffe legate in piccole balle, e si diceva che erano state riunite per i bisogni dell'esercito d'Atabalipa.
I Cristiani presero tutto ciò che vollero; nulladimeno lasciarono queste case così piene come se nessuno vi avesse posto le mani.
Queste stoffe erano le migliori che si fosser vedute agl'Indiani, e pella maggior parte intessute d'una lana finissima e sceltissima; altre poi eran fatte di cotone di diversi colori, e benissimo lavorate.
Ecco le loro armi da guerra e come essi se ne servono: i frombolieri, che lanciano pietre della grossezza di un uovo, rotonde come i ciottoli de' fiumi e lavorate a mano, marciano nella vanguardia.
Queste genti portano scudi, che fanno di tavole sottili e fortissime, ed hanno pure corazze imbottite di cotone.
Dopo di questi vengono altri guerrieri armati di azze, e di clave, che sono della lunghezza di un braccio e mezzo, e della forza delle lance de' nostri capitani d'infanteria: la mazza che è all'estremità di metallo della grossezza di un pugno, ed ha cinque o sei punte acute, ciascuna della grossezza del dito, e maneggiano quest'arme a due mani.
Le loro azze sono della medesima grandezza o più grandi, e la parte tagliente è di metallo, lunga un palmo, e fatta appresso a poco come il ferro d'una alabarda: molte di queste azze e di queste mazze ferrate, specialmente quelle de' capi, sono d'oro e d'argento.
Questi guerrieri sono seguiti da gente, che hanno delle piccole lance appuntate come dardi.
E la retroguardia è formata di soldati armati di picche della lunghezza di trenta palmi, e portano al braccio sinistro un bracciale guarnito di cuscinette in cotone coll'aiuto del quale essi maneggiano le loro arme.
Sono tutti divisi in compagnie, che hanno i loro stendardi e i loro capi, con lo stesso ordine de' Turchi.
Molti hanno elmi di legno, che gli cuoprono la testa fino agli occhi, e questi sono foderati di cotone, e così solidi come il ferro.
Tutti i guerrieri che Atabalipa aveva nella sua armata, erano uomini destri e agguerriti, come persone che combattevano continuamente: erano givani e di alta statura; talché mille di questi guerrieri furono sufficienti a conquistare questa città che conta ventimila abitanti.
L'abitazione d'Atabalipa, situata in mezzo del suo campo, è la più bella che siasi veduta presso gl'Indiani.
Sebben piccola, ella è divisa in quattro appartamenti: nel mezzo evvi una corte, ove l'acqua arriva per un condotto; e quest'acqua è sì calda, che la mano non può sopportarne la temperatura: esce così bollente da una delle vicine montagne. Un altro condotto porta dell'acqua fredda che mescesi alla prima, e tutte e due si gettano nello stesso bacino; ma quando non se ne vuole avere che una, chiudesi l'altro canale.
Il bacino è grande e costruito di pietra.
Fuori della casa, cioè nella corte, evvi un'altra conserva d'acqua, che non è così ben fatta come la prima. Questa è munita di scale di pietra per discendervi quando si va a bagnarsi.
la camera ove Atabalipa si tratteneva nel corso del giorno, ha una terrazza che guarda sul giardino; e l'altra ove dormiva, vicina a quella, ha una crociata che mette sulla corte ed alla conserva.
La terrazza pure corrisponde sul cortile, e le mura sono intonacate d'un bitume rosso brillantissimo, e più bello della sinopia.
Le travi che sostengono le tettoie sono dipinte del medesimo colore; un altro appartamento sul davanti è composto da quattro camere rotonde della forma di altrettante campane, le quali sono tutte e quattro riunite insieme, e tinte d'un bianco così puro come la neve. Le altre due parti, servono per la sua gente. La riviera scorre davanti a questa real residenza.
Noi abbiamo descritto la vittoria de' Cristiani, e come Atabalipa fu fatto prigioniero; abbiamo parlato del suo campo e della sua armata, ed ora ci facciamo a raccontare, come il padre d'Atabalipa si rese potente, e daremo notizie sulle sue forze, e i suoi stati, come lo stesso Atabalipa le ha narrate al governatore.
Il padre d'Atabalipa , nominato Cuzco, regnava sopra tutta quella contrada: era obbedito per un'estensione di trecento leghe, e gli veniva pagato il tributo.
Egli era di una provincia al di là di Guito: ma trovando il paese ch'egli abitava tranquillo, fertile e ricco, vi si stabilì; ed una gran città, ove si fermò, preso il nome di Cuzco.
Egli era così temuto ed obbedito, che veniva trattato quasi come una divinità.
Molte città conservano gli statuti di quel principe, il quale aveva cento figli e figli, di cui la maggior parte vive tuttora.
Egli morì, già sono otto anni, lasciando erede uno de' suoi figli, che portava lo stesso suo nome, nato dalla sua moglie legittima, che così chiamano la prima delle loro donne, o la più amata dal marito.
Questo principe era maggior d'Atabalipa , a cui Cuzco l'antico lasciò la sovranità della provincia di Guito, che fu separata dalle sue possessioni le più importanti.
Gli avanzi mortali di Cuzco sono sepolti nella provincia di Guito, ove cessò di vivere; ma la sua testa è stata trasportata nella città di Cuzco, ove la si conserva con gran rispetto, rinchiusa nell'oro e nell'argento; giacché la stanza, la muraglia, e la soffitta della casa, ove ell'è deposta sono tutte coperte di lamiere d'oro e di argento, divise in compartimenti.
In questa città si contano una ventina di case, le di cui muraglie sono ornate di foglie d'oro, nell'interno e al di fuori: vi sono ancora molti ricchi edifizi ove Cuzco conserva il suo tesoro, che si compone di tre piccole camere ripiene di pezzi d'oro, di altre cinque piene d'argento, e di cento mila tejuelos (verghe d'oro cilindriche) che erano state tratte dalle miniere: ciascun di questi tejuelos pesa cinquanta castellanos: e questo era il prodotto del tributo de' paesi da lui soggiogati.
Al di là di questa città, ve n'è un'altra chiamata Collao, ove passa un fiume che porta una gran quantità di oro.
A dieci giornate di marcia dalla provincia di Caxamalca, si trova in una provincia detta Guaneso, un altro fiume così ricco come il primo; e tutte queste contrade posseggono un gran numero di miniere d'oro e di argento.
Questo ultimo metallo si scava con sì poca fatica, che un Indiano ne estrae ogni giorno cinque o sei marchi; e siccome si trova mescolato con piombo, stagno e zolfo, conviene in seguito depurarlo.
Per esplorarlo gl'Indiani attaccano il fuoco alla montagna, e a misura che lo zolfo si infiamma, l'argento cade a pezzi.
Le migliori miniere sono quelle di Guito e di Chincha.
Di là fino a Cuzco valutansi quaranta giornate di marcia d'uno indiano col bagaglio, percorrendo un paese popolatissimo; e Chincha, ch'è una gran città resta a metà del cammino.
Numerosi armenti di vigogne o lamas percorrsono le campagne, od un gran numero di questi animali divengono selvaggi, giacché è impossibile custodire tutti quelli che nascono.
ogni giorno gli Spagnuoli che sono col governatore ne ammazzano cento cinquanta, né sembrano diminuire, e ve ne sarebbe sempre in questa vallata quand'anche vi restasse per un anno.
Tutti gli Indiani ne fanno in generale il loro nutrimento.
Atabalipa disse pure, che dopo la morte di suo padre era stato sette anni in pace con suo fratello, ciascuno nel territorio che aveva ricevuto in parte: ma dopo un anno circa, Cuzco, aveva preso le armi coll'intenzione di impadroninrsi degli stati d'Atabalipa, il quale gli aveva mandato a dirgli di non fargli la guerra e di contentarsi di ciò che suo padre gli aveva lasciato; ma Cuzco non volle acconsentirvi.
Allora Atabalipa abbandonò la sua capitale, chiamata Guito, col maggior numero d'uomini che gli fu dato di porre insieme, e marciò a Tomepomba, ove combattè contro suo fratello; gli uccise più di mille uomini, e lo astrinse a prender la fuga.
Siccome quest'ultima città era difesa, egli la incendiò, e ne uccise tutti gli abitanti; voleva pure saccheggiare tutti i luoghi di questo paese, ma abbandonò tale impresa per darsi ad inseguir suo fratello, che s'era rifugiato ne' suoi stati.
Atabalipa conquistò tutto il paese, giacché ciascheduna città gli apriva le porte, inteso il massacro di Tomepomba.
Erano già sei mesi, che questo principe aveva inviato due de' suoi ufiziali, uomini valorosissimi, uno chiamato Quisquis e l'altro Chaliachin, alla testa di quarantamila uomini contro la capitale di suo fratello; e questi s'erano resi padroni di tutto il paese, ed anche della città ove risiedeva Cuzco: essi avevano ucciso un numero considerabile di gente, e s'erano impadroniti della sua persona e del tesoro di suo padre.
La qual cosa saputa da Atabalipa, egli ordinò di inviargli il prigioniero, e con lui un tesoro considerabile; i suoi capitani erano rimasti nella città che era stata espugnata, per custodire il tesoro, che vi si trovava, con una guarnigione di diecimila uomini, scelti tra i quarantamila che avevano condotto.
Gli altri trentamila erano ritornati alle case loro, seco portando la respettiva parte del bottino, poiché questo principe aveva in suo potere tutto ciò che suo fratello aveva posseduto.
Atabalipa, ed i suoi capi principali, marciavano portati in delle lettighe.
Dal principio della guerra in poi, essi avevano ucciso molta gente, e questo principe aveva esercitato molte crudeltà contro i suoi nemici.
Ei riteneva presso di se tutti i cacichi delle città che aveva conquistate, nelle quali erano stati istallati per suo ordine nuovi governatori; altrimenti non avrebbe potuto conservare il paese in pace e sottomesso com'è.
Con questo mezzo egli si è fatto temere ed obbedire, e le sue genti di guerra erano aiutate e ben trattate da' nativi.
Questo principe, se non fosse stato prigioniero, meditava di terminare la conquista di tutte le città delle vicinanze di Tomepomba che s'erano difese, e di popolarle con nuovi abitanti presi tra' propri sudditi.
I suoi capi dovevano inviargli quattromila uomini maritati presi a Cuzco, per popolare Tomepomba.
Atabalipa aggiunse, ch'egli presenterebbe al governatore il suo fratello Cuzco, che i suoi capi avevano preso nella propria capitale, affinché egli ne facesse ciò che giudicherebbe aproposito.
E siccome egli stesso temeva di essere ucciso, offerse agli Spagnuoli che l'avevano istruito nella religione una gran quantità d'oro e d'argento.
Il governatore gli domandò quanto ne darebbe, e quando: ed Atabalipa promesse di empire di pezzi d'oro, di sigilli, di vasi, di verghe e di altri pezzi simili, una gran sala lunga ventidue piedi e larga diciasette, fino ad una linea bianca che segna la metà dell'altezza della sala, ad una tesa e mezza dal pavimento.
Di più consegnerebbe in argento due volte la capacità di questa stanza tutta intera, e ciò in due mesi.
Il governatore gli significò che spedisse dei messaggeri a questo oggetto, e che s'egli manteneva la sua parola, nulla aveva da temere.
Tosto questo principe inviò degli espressi a' suoi uffiziali, ch'erano nella città di Cuzco, ond'essi gli inviassero duemila Indiani carichi d'oro, e molto argento, oltre quello che digià avevano spedito con suo fratello.
Il governatore gli domandò, quanto tempo i messaggeri impiegherebbero per andare alla città di Cuzco; ed Atabalipa rispose, che quando inviava in tutta fretta a portare un messaggio, correndo di città in città, e cambiando i corrieri, la nuova arrivava in cinque giorni: ma che se le genti che ne erano incaricate percorrevano tutta la strada, quantunque agili uomini fossero, impiegherebbero quindici giorni per andare.
Il Pizarro gli domandò pure, perché egli avea fatto uccidere molti Indiani, che i Cristiani avevano trovati nel campo quando essi andarono a riconoscerlo: ed egli rispose, che il giorno in cui il governatore gli aveva inviato suo fratello, Ferdinando Pizarro, per parlargli, uno de' cristiani avendo urtato col suo cavallo molti Indiani, ei gli avea fatti mettere a morte perché si erano fatti indietro e quindi dati alla fuga.
Atabalipa era un uomo di trent'anni, di bella presenza, ben fatto, piuttosto pingue, di viso bellissimo: avea l'aria crudele e gli occhi pieni di sangue.
Parlava con lentezza e gravità come un gran signore, ma ragionava benissimo; per cui gli Spagnuoli, avendolo inteso, lo giudicarono un uomo di spirito.
Sebbene crudele, egli era allegro; parlava a' suoi con durezza, ma allora nascondeva il suo naturale buon umore.
Nelle sue conversazioni con il Pizarro gli disse: che a dieci giornate da Caxamalca, vi era in una certa città un tempio, che gli abitanti riguardavano come la loro metropoli e tutti ci andavano ad offrirvi dell'oro e dell'argento.
Suo padre, e lui pure, avevano gran venerazione per questo edifizio, nel quale egli assicurò che erano rinchiuse grandi ricchezze; poiché sebbene ogni luogo avesse il suo tempio, ove sono degl'idoli particolari, l'idolo generale degl'Indiani era in quel sito.
Un gran saggio, che, secondo gl'Indiani, conosceva l'avvenire per rivelazione di questo idolo, abitava il tempio.
Il governatore, avendo inteso raccontare ad Atabalipa questo fatto, ch'egli digià conosceva, gli fece comprendere, come tutti questi idoli non fossero che impostura, e che era il diavolo che parlava per la loro bocca onde trascinar gli uomini alla loro perdita, come aveva trascinato tutti quelli che eran vissuti e morti in questa credenza.
Gli disse, che non vi era che un Dio, solo creatore del cielo, della terra, di tutte le cose visibili e invisibili, e nel quale i Cristiani credevano; che noi non dobbiamo riguardare che lui come Dio, obbedire a' suoi comandamenti, e ricevere il battesimo; che quelli che faranno così guadagneranno il suo regno, e che gli altri soffriranno le pene dell'inferno, ove bruciano eternamente coloro che non l'hanno conosciuto.
Voi avete servito il diavolo -continuò egli- offrendogli de' sacrifizi, e inalzandogli dei templi; tutte cose che devono cessare, perché l'imperatore, che è il re di tutti i cristiani e di voi tutti, m'ha inviato qui.
Perché vivete ed avete sempre vissuto nell'ignoranza di Sio, il signore ha permesso che voi, con tutta la vostra numerosa armata, siate vinto e fatto prigioniero da sì poca gente: considerate dunque la poca protezione che il vostro Dio via ha accordato, e riconoscete che è il diavolo che vi inganna.
Atabalipa avendo risposto, che siccome al presente né lui né i suoi antenati non avevano veduto i Cristiani, ignorava tutto questo ed aveva vissuto come i suoi padri; ed aggiunse, esser persuaso di ciò che aveva udito, e convinto che colui che parlava negl'idoli non era il vero Dio, poiché gli era stato così poco propizio.
Quando gli Spagnuoli si furono riposati dalle fatiche del viaggio e del combattimento, il governatore inviò dei messaggeri alla città di Sant Miguel, per far sapere a' suoi compagni quanto era avvenuto, per informarsi di ciò che essi facevano, e sapere se erano arrivati de' bastimenti.
Quindi dette l'ordine di costruire nel centro della piazza di Caxamalca una chiesa, ove si celebrasse il santo sacrifizio della messa.
Ordinò eziandio di gettare a terra il recinto della città, perché era troppo basso, e ne fece ricostruire un altro di terra e paglia all'altezza di due tese sopra cinquecento cinquanta passi di lunghezza.
Egli fece fare altre opere per migliorare le fortificazioni, ed ogni giorno domandava se si formavano degli attruppamenti d'indigeni e ciò che accadeva nel paese.
Quando i cacichi di questa contrada furono informati dell'arrivo del governatore, e della schiavitù d'Atabalipa, vennero in gran numero, a far dimostrazioni di amicizia e veder questo principe; e molti comandavano a trentamila Indiani, tutti sudditi d'Atabalipa.
Tosto che essi arrivavano davanti al loro sovrano, facevano dei saluti rispettosi, gli baciavano i piedi e le mani, nel tempo che questi ricevevagli senza guardarli.
La severità d' Atabalipa, e l'obbedienza assoluta de' suoi sudditi erano cose veramente sorpendenti: ogni giorno venivangli portati de' presenti, ed abbenché fosse prigioniero, egli aveva un treno [accompagnamento] da Principe, e sembrava di buonissimo umore.
E' vero, che il governatore lo trattava benissimo; sebben più volte gli rinfacciasse aver gl'Indiani riferito agli Spagnuoli, ch'ei riuniva guerrieri a Guamachuco, e in altri luoghi.
Ma Atabalipa rispondeva: non esser alcuno in tutto il paese che osasse mettersi in marcia senza i suoi ordini; e che se delle genti di guerra si presentavano, non potea che lui stesso averle appellate, ma allora egli era garante della sua persona, poiché si riteneva prigioniero.
Gl'Indiani facevano molti falsi rapporti, per cui i Cristiani erano molto inquieti.
Tra i numerosi messaggeri che vennero ad Atabalipa, ne arrivò uno di quelli che conducevano il suo fratello prigioniero, il quale disse che Cuzco era di già ucciso, allorché essi avevano avuto notizia della schiavitù di Atabalipa.
Il governatore, saputo ciò, ne dimostrò molto dispiacere, poiché avea ordinato di non farlo morire e di condurglielo vivo, ed avea detto che se altrimenti si facesse ei porrebbe a morte Atabalipa.
Costui affermava, che i suoi capi avevano agito in tal modo senza sua saputa.
Ma il governatore interrogò i messaggeri, e seppe, che effettivamente egli era stato ucciso.
Alcuni giorni dopo, arrivano da Cuzco, alcune genti di Atabalipa ed uno de' suoi fratelli, e conducevano seco alcune delle sorelle e delle donne d'Atabalipa.
Portavano pure una gran quantità di vasellame d'oro, di sigilli, di vasi, altri oggetti e molto argento: e dissero anche che una maggior quantità era per strada; che, attesa la lunghezza del viaggio, i portatori Indiani erano costretti a riposarsi, per cui non potevano arrivare sì presto ma asserirono che ogni giorno giungerebbe una parte dell'oro e dell'argento che restava indietro.
Infatti poco tempo dopo arrivarono ventimila pesos d'oro, un altro giorno trenta, poi cinquanta, e finalmente sessantamila, consistenti in vasi, in grandi bacini di due a tre arrobe, in sigilli, ed in enormi vasi d'argento, come pure molt'altri oggetti.
Il governatore fece tutto deporre in una casa ove alloggiava la guardia d'Atabalipa, fino a tanto che quest'oro, unito a quello che doveva arrivare, non completasse la quantità promessa.
Addì venti dicembre dello stesso anno, alcuni Indiani, inviati da sant Miguel, giunsero con una lettera che fece sapere, che erano arrivati in un porto di quella spiaggia chiamato Concebi, presso di Quaquo, ne' quali vi erano cento cinquanta Spagnuoli e ottantaquattro cavalli.
I tre più grandi di questi bastmienti venivano da Panama; erano montati dal capitano Diego de Almagro con cento venti uomini, e tre minori navigli erano partiti da Nicaragua con trenta uomini.
Essi venivano in questo governo con l'intenzione di prendervi servizio; e sbarcate le truppe e i cavalli, che presero il cammino di terra, un vascello partì da Concebi per sapere ove si trovava il governatore.
Essendo arrivato a Tumbez, il cacico non aveva voluto dargliene nuova, né rimetter la lettera che il Pizarro aveva lasciato per i vascelli che arriverebbero: questo bastimento era dunque ripartito senza nuove del governatore.
Ma un altro, che più tardi aveva salpato, continuò a costeggiare fino al porto di sant Miguel, ove il capitano del naviglio pose piede a terra e si portò alla città, i di cui abitanti si congratularono molto del suo arrivo.
Questo ufiziale ripartì subito colle lettere che il governatore aveva inviate in questa città, e nelle quali raccontava la vittoria che Dio aveva accordato a lui ed alle sue genti, e l'immensa ricchezza del paese.
Il Pizarro ed i suoi concepirono la più gran gioia per l'arrivo di questi vascelli.
Egli spedì all'istante de' corrieri, e scrisse al capitano de Almagro e ad altre persone che l'accompagnavano, affrettando la loro venuta, ed esternando ad esse come il loro arrivo gli sarebbe piacevole.
Appena sbarcati nel porto di Sant Miguel -egli loro diceva- vi porterete presso i cacichi delle vicinanze di Caxamalca per non essere a carico della colonia, e perché quei capi hanno dei viveri in abbondanza.
Io avrò cura di far fondere dell'oro per pagare i noli de' trasporti, onde voi ripartiate prontamente.
Ogni giorno si presentavano dei cacichi al governatore; ed una mattina ne arrivarono due, che si chiamavano i capi de' ladri, perché i loro sudditi aggredivano qualunque attraversasse il loro paese: essi abitano sulla strada di Cuzco.
Erano ormai sessanta giorni che Atabalipa era in schiavitù, quando il cacico della città ov'era il tempio principale, ed il custode di questo edifizio, e si presentarono al governatore: il quale, avendo domandato ad Atabalipa chi essi si fossero, egli rispose che l'uno era il capo della città del Tempio, e l'altro il suo custode; e soggiunse, che egli era molto contento del loro arrivo, perché gli farebbe pagar caro gli errori ch'essi avevano commesso.
Domandò quindi una catena per mettere in ferri il custode, perché lo aveva consigliato a far la guerra a' Cristiani, facendogli credere, che l'idolo avesse detto ch'ei gli ucciderebbe tutti.
Egli aveva pure assicurato al padre d'Atabalipa, mentre era nel letto di morte, che non soccomberebbe.
Il governatore mandò a cercare una catena, colla quale Atabalipa incatenò quest'uomo, dicendo che non si rimettesse in libertà finché non avesse fatto portare tutto l'oro del tempio; ed aggiunse, che voleva dar quest'oro a' Cristiani poiché il suo idolo era un impostore; dicendo quindi al custode: Io voglio vedere se colui che tu appelli il tuo Dio ti libererà da questa catena.
Il Pizarro, e il capo che era venuto col custode, mandarono acercare l'oro del tempio e quello che possedeva questo cacico; ed i messaggeri promessero di ritornare in cinquanta giorni col tesoro che vi era.
Il governatore seppe intanto, che gl'Indiani si riunivano, e che Guamachuco era occupata da gente di guerra: laonde inviò Ferdinando Pizarro, con venti cavalieri e alcuni fanti, in questa città che è a tre giornate da Caxamalca, per informarsi di ciò che accadeva, e per far venire l'oro e l'argento.
Il capitano Pizarro partì da Caxamalca, la sera della festa dell'epifania del 1533.
Quindici giorni dopo, molti Cristiani arrivarono con una quantità considerabile d'oro e d'argento, ascendente a più di trecento carichi di uomo: consisteva in grandi vasi ed altri pezzi.
Il governatore ordinò di depositare tutti quegli oggetti nella casa delle guardie d' Atabalipa, con ciò che vi era di già portato; dicendo, che egli custodirebbe questo principe come cauzione fino a che egli avesse adempiuto la sua promessa; e per maggior sicurezza, lo affidò a dei cristiani, i quali dovevano sorvegliarlo giorno e notte.
Al momento di porre in magazzino gli oggetti, furon tutti contati, perché non vi fosse frode.
Un fratello d'Atabalipa era arrivato con tutte le sue ricchezze; e riferiva che aveva lasciato a Xauxa una quantità d'oro e d'argento ancor più considerabile, e che un capo d'Atabalipa chiamato Chilicuchima l'accompagnava.
Ferdinando Pizarro fece sapere, che egli aveva preso delle informazioni sul paese, e che non vi si parlava di attruppamenti: aggiungeva, ch'egli era a Xauxa con un capo, che desiderava sapere quali fossero le intenzioni di suo fratello e se voleva che continuasse ad avanzarsi, giacché egli non si muoverebbe senza aver risposta.
Il governatore gli scrisse, che avendo il custode nelle sue mani si portasse verso il Tempio, perchè Atabalipa aveva dato ordine di prendervi il tesoro che vi si trovava; che egli dunque si affrettasse a portarlo via prima dei commissari d' Atabalipa.
Gli raccomandò inoltre di scrivergli da tutte le città ov'egli passerebbe, e così fece.
Il capitano Ferdinando Pizarro, vedendo l'estrema lentezza che si impiegava a portare l'oro, spedì tre Cristiani per far venire quello che era a Xauxa, e per visitare la città di Cuzco.
Egli autorizzò uno di loro a prender possesso di quella città e delle vicinanze, in sua vece ed in nome di sua Maestà, alla presenza di un notaro, che lo seguiva.
Lo fece accompagnare da un fratello d'Atabalipa, e gli proibì di maltrattare i nativi, di torre oro ed altri oggetti loro malgrado, di non oltrepassare gli ordini del capo, che avevano seco per paura che non restassero uccisi.
Gli ordinò pure che procurassero di vedere la città di Cuzco, e scrivessero la relazione di tutto ciò che loro accaderebbe.
Essi partirono da Caxamalca, li quindici febbraio dello stesso anno.
Il capitano Diego de Almagro arrivò a Caxamalca con alcune truppe, la sera della domenica delle palme, addì 14 del mese d'aprile 1533, e furono ben ricevuti dal governatore e da' suoi compagni.
Un negro, che era partito con i cristiani che andavano a Cuzco, ritornò il 23 aprile, con settecento carichi d'oro e sette d'argento.
Egli veniva da Xauxa, ove aveva incontrato gl'Indiani che arrivavano con dell'oro.
Gli altri Spagnuoli avevano continuato il loro viaggio verso Cuzco.
Questo negro disse, che il capitano Ferdinando Pizarro sarebbe tosto di ritorno, e ch'era stato a Xauxa per avere una conferenza con Chilicuchima.
Intanto il governatore fece depositare quest'oro coll'altro, e fece al solito contare i pezzi.
Il 25 marzo, il capitano Ferdinando Pizarro entrò in Caxamalca con tutti i Cristiani che aveva condotti, ed il capo Chilicuchima, il quale fu ben ricevuto dal governatore e dagli altri cristiani.
Questo capitano riportò dal Tempio venticinque carichi d'oro e duemila marchi d'argento; e rimesse al governatore una relazione ridotta di Miguel Stette, che avea fatto parte di questo viaggio in qualità d'inspettore, ed è la seguente:
RELAZIONE
DEL VIAGGIO FATTO DAL CAPITANO
FERDINANDO PIZARRO
D'ORDINE DEL GOVERNATORE SUO FRATELLO
DALLA CITTA' DI CAXAMALCA A PARCAMA E DA PARCAMA A XAUXA

Mercoledì, giorno dell'Epifania, volgarmente detto de' re Magi, addì 6 gennaio 1533 il capitano Ferdinando Pizarro partì da
Caxamalca alla testa di venti cavalli e di alquanti fucilieri.
Lo stesso giorno ancò a passar la notte in certe abitazioni a cinque leghe da questa città, e l'indomani desinò in un altro villaggio nomato Ycocha, ove fu ben ricevuto e gli vene somministrato, a lui ed alle sue genti, quanto poteva abbisognare.
Quel giorno dormì in un piccolo villaggio appellato Guancasanga, che dipende da Guamachuco; ed il giorno seguente, di buon'ora, arrivò in questa gran città, situata in una valle circondata di montagne; ell'è di un bell'aspetto, e gli edifizi son ben costruiti.
Il cacico si chiama Guamanchoro, ed accolse molto bene il capitano ed i suoi uomini.
Ivi giunse un fratello d'Atabalipa, che era stato inviato per affrettare la spedizione dell'oro di Cuzco, ed il Pizarro seppe da questo Indiano, che il capo Chilicuchima era in marcia a venti giornate di là, e che portava tutta la quantità di metallo prezioso comandata da Atabalipa.
Il capitano, vedendo che l'oro arrivava sì lentamente, inviò un espresso al governatore per sapere ciò che doveva fare, dicendogli che attendeva la sua risposta per proseguire la marcia.
Egli domandò in questa città, a degli Indiani, se Chilucuchima veniva di molto lontano; ed avendo sottoposto alla tortura alcuna de' principali abitanti, seppe da loro, che questo capo non era che a sette leghe di distanza, nella città di Andamarca, con ventimila uomini di guerra; e che costui veniva per uccidere i cristiani e liberare il suo padrone; l'Indiano che fece questa confessione asserì aver desinato seco il giorno innanzi; ed un amico di questo capo, essendo stato interrogato in particolare, lo confermò.
Appena il capitano ebbe cognizione di ciò, risolse di marciare all'incontro di Chilucuchima; ed avendo disposto la sua truppa in buon ordine, si messe in strada.
Quel giorno andò a passar la notte in un piccolo villaggio chiamato Tambo, sul territorio di Guamachuco: ivi egli prese delle nuove informazioni, e tutti gli Indiani che furono interrogati risposero, nel medesimo tenore dei primi; per cui nella notte fece fare buona guardia.
L'indomani mattina egli si portò in avanti in buonissimo ordine, ma quel capo non vi era: il capitano non poté averne altre nuove, se non che egli era in una città chiamata Xauxa, come l'aveva detto il fratello d'Atabalipa, e che si avanzava con molto oro.
Frattanto il governatore ricevè ad Andamarca questa risposta del governatore:
"Voi sapete che Chilicuchima viene con l'oro di lontano, e che io ho nelle mie mani il capo del Tempio di Pachacama; voi sapete pure quale quantità d'oro egli ha promesso: informatevi del cammino che conduce a quest'ultimo luogo, e se credete che ciò sia conveniente di andarvi andatevi, perché frattanto arriverà l'oro di Cuzco".
Il capitano s'informò della strada del Tempio, e ad onta che le sue genti fossero mal provvedute d'armi e d'altri oggetti necessari per un viaggio così lungo, considerando l'importante servigio che si renderebbe a Sua Maestà andando a cercare quest'oro, risolvè d'intraprenderlo per timore che gl'Indiani lo involassero.
Volle pure esaminare il paese, e vedere se poteva essere colonizzato da' cristiani, sebbene egli sapesse che la contrada era attraversata da numerosi torrenti, i quali conveniva passare sopra ponti di corde e non ignorasse che erano da superare assai cattivi passi, e che la strada era lunga.
Condusse seco molti capi che conoscevano il paese, e si messe in cammino addì 14 gennaio.
Lo stesso giorno egli superò molti pericolosi passi delle riviere, e andò a pernottare sul declive d'una montagna, in un villaggio chiamato Totopamba; ove gl'Indiani lo ricevettero molto bene, e gli dettero generosamente de' viveri, con quanto potevali abbisognare nella notte; e per l'indomani lo provvidero di portatori per il bagaglio.
Il giorno seguente il capitano lasciò questo luogo, e fu a dormire in un altro piccolo villaggio detto Coronga.
A metà della strada trovò una montagna tutta coperta di neve, e da per tutto un numero considerabile di armenti con i loro pastori, che abitano le montagne come in Spagna.
Questo villaggio, dipendente da Guamachoro, somministrò de' viveri, de' facchini, e tutto ciò che fu necessario.
L'indomani il capitano andò a passare la notte a Pinga, luogo poco importante; ivi non trovò anima vivente, essendosene fuggiti gli abitanti dallo spavento.
La giornata era stata penosissima a cagione d'una discesa di scale in pietra molto ripide e pericolose per i cavalli.
Il giorno seguente, all'ora di pranzo, pervenne ad una gran città situata in una valle, ove una riviera rapidissima, che si passa sopra due ponti riuniti fatti di cordami, traversava la strada; que' ponti son fatti in questa guisa: un grosso pilastro si eleva dal livello dell'acqua fino ad una grande altezza; da una riva all'altra passano delle funi fatte di sermenti somiglianti al vimino, grosse come la coscia, e fermate a grandi pietre: queste funi son distanti tra loro la larghezza d'una carretta, e son traversate da forti corde ben intrecciate; in basso poi, vi sono alcuni scogli che consolidano questi ponti.
Le persone del popolo passano sopra uno di que' ponti, che ha un portiere per ricevere il prezzo del pedaggio; e l'altro è riservato per i principali abitanti e per i capi: questo ponte è sempre chiuso, né si aprì che per far passare il capitano e le sue genti, eccetto i cavalli i quali traversarono il fiume a nuoto senza difficoltà.
Ivi si riposarono due giorni, perché il capitano e la sua gente erano affaticati dal loro penoso viaggio.
Gli Spagnuoli furono benissimo ricevuti, laonde i nativi ed il capo del luogo per nome Pumapaecha gli somministrarono de' viveri e quanto avevano di bisogno.
Il capitano Ferdinando Pizarro lasciò questo luogo, e se ne andò a desinare in un piccolo villaggio ove gl'Indiani apporatrono tutto ciò che gli era necessario.
La truppa passò quindi sopra un altro ponte di funi simile al primo, e andò a dormire in un villaggio lontano due leghe, ove gli abitanti vennero a ricevere i Cristiani con delle dimostrazioni di amicizia, e anch'essi somministrarono viveri e faccini per portare i bagagli.
Marciarono in seguito in una vallata piena di campi di formentone, e sparsa di piccoli borghetti fabbricati sulla dritta e sulla sinistra della strada.
Il Pizarro partì l'indomani, giorno di domenica, ed arrivò sul mattino a un villaggio ove ricevette la migliore accoglienza; poiché gl'Indiani gli donarono molto bestiame, della chicha, e quanto aveva di bisogno.
Tutto questo paese è ricchissimo in grano ed in armenti, de' quali i cristiani ne incontravano un gran numero lungo il loro cammino.
Il capitano lasciò questo villaggio il giorno seguente: seguì la valle, e giunse ad una gran città che si chiama Guarax, ed il suo capo ha nome Pumacapilly.
Quest Indiano ed i suoi sudditi ministrarono molti viveri e de' facchini.
Guarax rimane in una pianura presso una riviera; e nelle vicinanze si vedono altre città ricche in armenti ed in grani: in un sol parco vi erano dugento lamas, che furono tutte destinate per nutrimento del Pizarro e della sua gente.
Il capitano partì la sera, e andò a riposarsi in un luogo nominato Sucaracoay, ove fu ben ricevuto, ed il cui cacico si chiamava Marcocana.
Ivi riposò per un giorno, giacché la gente e i cavalli erano affaticati dal cammino.
Questa città era considerabile, aveva guarnigione, e Chilicuchima occupava le vicinanze con cinquanta mila uomini.
L'indomani Ferdinando Pizarro partì da Sucaracoay, traversò una valle coltivata e ricca in armenti, e andò a passar la notte due leghe più lontane, in un borghetto chiamato Pachicoto.
Egli abbandonò in questo punto la strada maestra, che conduce a Cuzco, e prese quella della pianura.
Il giorno successivo si rimesse in marcia, ed andò a dormire ad un villaggio che si appella Marcara, il di cui capo si chiamava Corcora.
Gli abitanti sono proprietari d'armenti che hanno i loro pastori, che certe epoche dell'anno gli conducono nella pianura per fargli pascolare, come si usa in castiglia e nell'Estremadura.
Da questo paese, le acque discendono al mare e rendono il cammino difficile.
L'interno delle terre è fertilissimo, coperto di fanghi e di nevi, ma la costa è assai calda.
Vi piove poco per nutrir la semente; ma le acque che scorrono dalle montagne irrigano la terra, che è fertilissima di frutti e in viveri di ogni sorta.
L'indomani egli marciò lungo un fiume, fiancheggiato da giardini e da campi, e andò a passar la notte in un casale detto Guaracanga.
la notte seguente si arrestò in un grosso borgo, che gl'Indiani appellano Parpunga, e risiede sulla riva del mare.
Vi si vede una fortezza e cinque casematte dipinte in diverse maniere al di fuori e al di dentro; le porte sono d'un bel lavoro, secondo l'uso di Spagna, e l'ingrsso principale è adorno da due tigri.
Gli abitanti furono compresi di spavento vedendo i Cristiani gente nuova per loro, e soprattutto i cavalli gli cagionavano molto stupore.
Il capitano fece sì che l'interprete li tranquillizzasse, e questi Indiani si resero utilissimi.
Lasciando questo borgo ei prese un'altra strada più larga, fatta per le popolazioni delle vicinanze, la quale è fiancheggiata da muraglie da ambo le parti.
Il Pizarro rimase due giorni a Parpunga, per far riposare la sua gente e per aspettare che i cavalli fossero ferrati.
All'uscire da questa città passò una riviera colle sue genti, gli uomini su delle zattere ed i cavalli a nuoto, ed andò a dormire in un villaggio nomato Guamamayo, posto sopra di un burrone sul lido del mare.
Presso a questo luogo i Cristiani traversarono a nuoto un altro fiume con grandi difficoltà, essendo oltre modo gonfio e rapidissimo.
In questa parte del paese non si trovano ponti perché i fiumi sono larghissimi e senza argine.
Il capo del villaggio e gli abitanti prestarono soccorsi ai Cristiani e li aiutarono a passare il bagaglio, e li provvidero in quantità di viveri e di portatori.
Il Pizarro e le sue genti lasciarono questo luogo il nove gennaio [?], ed andarono a passare la notte tre leghe più lontano, in un villaggio sottoposto al cacico di Guamamayo.
Quasi tutta la strada è fiancheggiata di campi, di boschetti e di giardini: ell'è piana, e da ogni parte ha un muro di terra e paglia.
La sera andò a dormire in una gran città sul lido del mare nomata Guarva, la quale è fabbricata in bella posizione, e possiede belli edifizi.
I Cristiani furono ben ricevuti dai capi e dagl'Indiani, che somministrarono loro quanto ebbero di bisogno.
Sul far dell'aurora il capitano partì colla sua gente, e andò al villaggio di Llachu ove egli dormì, ed a cui dette il nome di villaggio della Pernice, perché in qualche casa ve ne erano in gabbia.
Gli abitanti si presentarono da amici, ricevettero il capitano con dimostrazioni di gioia, gli resero molti servigi; ma il cacico non si fece vedere.
L'indomani il capitano partì di buon mattino, perché gli era stato detto che per quel giorno il viaggio da farsi era lunghissimo; e andò a desinare in un gran villaggio detto Siculacumbi, che resta cinque leghe più lontano.
Il capo del paese ed i nativi si presentarono con dimostrazioni pacifiche, e donarono tutti i viveri necessari per la giornata.
Il capitano si rimesse in viaggio all'ora di vespro, accompagnato dalle sue genti, per giungere alla città, ov'era il Tempio.
Egli traversò a guado una riviera, seguì una strada fiancheggiata da muri di terra e paglia, ed andò a passar la notte in una città ad una lega e mezza di distanza.
Il giorno seguente [si legge nella Relazione di M. Stette inserita da F. Xeres nella sua Relazione del Conquisto del Perù], domenica 30 gennaio, il capitano continuò il suo viaggio; e traversando de' boschi e dei casali, arrivò a Pacalcami, che è il luogo ove è situato il Tempio.
A metà del cammino evvi un villaggio, ove il capitano desinò: il capo di Pacalcami ed i principali abitanti vennero a riceverlo con amicizia, ed attestarono agli Spagnuoli eccellenti disposizioni.
Tosto il capitano andò ad occupare de' grandi alloggiamenti che sono nella città e senza più tardare disse al capo, che veniva per ordine del signor governatore a cercare l'oro del Tempio che il cacico gli aveva promesso, e che conveniva all'istante andarlo a prendere e consegnarglielo, ovvero portarlo ove era suo fratello.
Tutti i principali del paese ed i sacerdoti dell'idolo essendosi consultati, risposero che lo darebbero; ma dissimularono per guadagnar tempo.
Fimnalmente ne portarono una piccolissima quantità, dicendo che non ve n'era di più; ma il capitano, dissimulando la sua intenzione, domandò di veder l'idolo e di esservi condotto, il che fu fatto.
Esso era in una casa ben dipinta, in mezzo ad una bella sala molto oscura, fetida e ben chiusa.
Questo idolo era di legno e molto brutto; per tutto i naturali ci dissero che esso era il Dio che gli aveva creati, e che faceva vegetare tutte le loro semente: a' suoi piedi vi erano alcuni gioielli d'oro.
Essi hanno tanto rispetto per quel Dio, che non vi ha che i sacerdoti suoi servi, com'essi li chiamano, che possono servirlo; gli altri non osano entrare, né si pensano esser degni di toccare colla mano le mura della sua casa: e sono concordi nel dire, che il diavolo è in questo idolo, e ch'egli parla con i suoi ministri, i quali hanno insieme delle conferenze diaboliche, che poi pubblicano in tutto il paese.
Nullameno lo riguardono come un Dio, e gli fanno moltiplici sacrifizi; per cui da trecento leghe all'intorno si viene in pellegrinaggio a visitare questo diavolo, con dell'oro, dell'argento e delle ricchezze: quelli che le portano, si presentano al portinaio, che s'informa della loro offerta; dopo di che essi parlano all'idolo, e gli domandano ciò che desiderano.
I sacerdoti prima di servire questa divinità devono digiunare per più giorni, e astenersi da qualunque commercio colle donne.
In tutte le strade di questa città, alle porte principali, e nelle vicinanze del Tempio, vedesi un gran numero di questi idoli di legno, che gl'Indiani adorano ad imitazione del loro diavolo.
Risulta da rapporti di molti capi del paese, che dalla città di Catamez, ove comincia questo governo, tutti gli abitanti portano a questo Tempio dell'oro e dell'argento; e che ogni anno pagano un certo tributo, per la percezione del quale vi erano degl'intendenti e delle case apposite; ove si trovò un poco d'oro e degl'indizi comprovanti che ve n'era stato molto di più.
Sapemmo dagli Indiani, che il diavolo aveva loro comandato che involassero questi tesori, e potrebbonsi dire molte cose sulle idolatrie praticate a riguardo di questa falsa divinità; ma io non ne parlerò più a lungo, onde evitare d'esser prolisso.
Gl'Indiani pretendono soprattutto, che l'idolo gli dica: egli essere il loro Dio; poterli distruggere se lo disgustano e non lo servono bene; e tenere in suo potere tutte le cose di questo mondo.
I nativi erano sì turbati e sì spaventati d'aver veduto solamente il capitano entrare per vederlo, che credevano che non tosto i Cristiani sarebbero usciti da quel Tempio, che l'idolo farebbeli tutti perire.
I Cristiani fecero intendere agl'Indiani il grossolano errore nel quale erano; che l'essere che parlava in questo idolo era il diavolo che ingannavali: e impegnaronli d'ora in avanti a non vi creder più, ed a disprezzare ciò che esso lor consigliava. tennero pure altri discorsi sopra la loro idolatria, e il capitano ordinò di abbattere la sala oscura ov'era l'idolo e di spezzarlo sotto gli occhi di tutti gli Indigeni, facendo loro comprendere molte cose aventi rapporto alla nostra santa religione, e insegnando loro il segno della croce, ond'essi si difendessero dal demonio.
Xachacama è una città considerabile: vedesi presso al Tempio un edificio consacrato al sole, situato sopra un'eminenza cinta da cinque muraglie ben fatte, vi sono delle case coon terrazze come in Spagna, e la città sembrava antica a giudicare dagli edifizi in ruina che vi si vedono. La più gran parte del muro del recinto è diroccato: il principal capo del luogo si chiama Taurichumbi.
I cacichi de' contorni si mossero per vedere il capitano, gli offersero in dono de' prodotti de' loro territorii, dell'oro e dell'argento, e si maravigliarono assai che egli avesse osato penetrare ove era l'idolo e distruggerlo.
Il cacico di Malaque, che si chiamava Liucoto, venne a far atto si sommissione a Sua Maestà e portò un regalo di oro e di argento.
Quello di Noaxz, detto Alincay, fece lo stesso: quello di Gualco, appellato Guarilli, offrì parimente oro ed argento.
Il cacico di Chincha e dieci de' suoi principali sudditi, presentarono pure dell'oro e dell'argento; egli disse, che il suo nome era Tambiunuea; quello di Goarva si nomava Guaxchapaicho; quello di Colixa, Aci; e quello di Sallicaimarca, Yspilo.
Altri dapi de' contorni portarono i loro doni d'oro e d'argento, che, uniti a quello che si era involato dal Tempio, formò novantamila pesos.
Il capitano parlò con bontà a tutti questi capi, e gli ringraziò della loro visita; raccomandò loro in nome di Sua Maestà di condursi sempre egualmente, e rinviogli soddisfattissimi.
Ferdinando Pizarro seppe a Xachacama, che Chilicuchima il capitano di Atabalipa , era a quattro giorni di marcia dalla città con molta gente ed oro, né voleva venire più avanti; si diceva ancora, che aveva l'intenzione di combattere i Cristiani: laonde il capitano gli spedì un messaggero con una scorta, a imporgli di portar loro, poiché egli sapeva che il suo sovrano era prigioniero, che lo aspettava da lungo tempo, e che il governatore ancora era mal contento del suo ritardo: lo rassicurò per impegnarlo a venire, non potendo andarlo a trovare a cagion de' cavalli, perché il cammino non era praticabile.
Ei gli fece dire di portarsi ad un villaggio situato sulla strada, e che il primo qrrivato colà, aspetterebbe l'altro.
Chilucuchima rispose che egli non mancherebbe di conformarsi alle intenzioni del capitano, il quale partì da Xachacama per raggiugere quel capo.
Lo stesso giorno il capitano Ferdinando Pizarro arrivò al villaggio di Guarva, situato in una pianura, sul lido del mare.
Qui egli lasciò la riva, e guadagnò l'interno delle terre: addì 3 marzo, partìda Guarva, rimontò per tutta la giornata un fiume fiancheggiato dai boschi, e la sera anndò a riposarsi in un villaggio sulla riva di questo fiume, e che è sottoposto al villaggio di Guarva: esso si nomina Guaranga.
Egli ne partì l'indomani, e andò a passar la notte in un boschetto chiamato Ayllon, fabbricato appiè d'una montagna: questo luogo, dipendente da Aratambo, villaggio più considerabile, è molto ricco in armenti e in formentone.
Il giorno seguente, cinque dello stesso mese, egli fu a dormire in un villaggio dipendente da Caxatambo (Aratambo), e che si chiama Chincha; per quella strada si trova una gran montagna di neve molto scoscesa, per cui i cavalli vi affondavano fino al ventre. Il bestiame è numerosissimo in questo villaggio, ove il capitano soggiornò due giorni.
Ne ripartì il sabato 7, e fu a passar la notte a caxatambo, che è una gran città situata in una profonda valle ricca in armenti.
Si trovano per tutta la strada de' porci e de' lamas. Il nome del cacico è sachao, il quale si mostrò officiosissimo agli Spagnuoli.
Si prese in questa città la gran strada che Chilicuchima doveva seguire; la distanza era di tre giornate di marcia. Il capitano Pizarro s'informò se questo capo era passato per abboccarsi con lui come aveva promesso; e tutti gl'Indiani gli dissero di sì, e che egli portava tutto l'oro: ma, come si vide in appresso, era loro stata data tal lezione, perché rispondessero così qualora il capitano comparisse; poiché Chilicuchima era fermo a Xauxa, senza pensare di trasferirsi al luogo convenuto, ed è ormai convenuto che gl'Indiani dicono raramente la verità.
Sebbene dessa si fosse un'intrapresa malagiata e pericolosa, pure il capitano si decise a marciare per la grande strada dove Chilicuchima doveva arrivare, affine di qaggiungerlo, e , qualora non avesse preso questo cammino, d'anadre a trovarlo da per tutto ove egli fosse, onde impadronirsi dell'oro, disfare la sua armata, o guadagnarlo a forza di buoni trattamenti.
Il capitano prese dunque il cammino di una città chiamata Pomba, che rimane sulla strada maestra.
Il lunedì, 9 del mese, fu a dormire nel villaggio d'Oyu, situato nel mezzo delle montagne.
Il capo si presentò pacificamente, e dette a' Cristiani tutto quello di cui abbisognavano per la notte.
Questi partirono la mattina, e la sera ci si ridusse ad un casale di pastori, presso di un piccolo lago d'acqua dolce della larghezza di tre leghe, ed in una pianura ricca in armenti di mezzana grossezza, come quelli di Spagna, e di cui la lana è finissima.
Il mercoledì di buon ora il capitano Ferdinando Pizarro e le sue genti arrivarono a Pomba, ove tutti i principali della città ed alcuni capi d'Atabalipa, che vi si trovavano riuniti, vennero a riceverlo con alcuni guerrieri.
In questo luogo trovò cinquanta arrobe d'oro, che aveva inviato Chilicuchima, il quale era fermo a Xauxa colla sua armata.
Appena il capitano si fu stabilito ne suoi alloggiamenti, domandò agli ufiziali d'Atabalipa perché questo capo inviava quell'oro, e non veniva lui stesso come aveva promesso.
Essi risposero, che ciò dipendeva perché egli aveva una gran paura de' Cristiani; che una quantità considerabile d'oro veniva da Cuzco, ma ch'egli non osava presentarsi perché gli pareva poco.
Ferdinando Pizarro gli inviò da questa città un messaggio per tranqquillizzarlo e dirgli, che non essendosi egli mosso andrebbe lui stesso a trovarlo, ma che non ne fosse spaventato.
Il capitano fece riposare un giorno i cavalli, che erano stanchissimi, perché potessero combattere in caso di bisogno.
Il venerdì, 14 marzo, egli si mosse con tutte le sue genti a piede ed a cavallo per portarsi a Xauxa.
La sera fu a riposare a Xacamalca, a sei leghe da Pomba, senguendo una pianura nel mezzo della quale evvi un lago di acqua dolce che comincia presso la città ed ha otto o dieci leghe di circonferenza: esso è tuto recinto da villaggi; pascolano sopra i lidi molti armenti, e vedonvisi in gran numero uccelli acquatici di specie differentissime, e piccoli pesci.
Il padre d'Atabalipa, e lui stesso, avevano fatto venire da Tumbez molte sorte di navicelli per loro divertimento.
Un fiume che passa per Pomba, esce dal lago e traversa un certo quartiere della città; esso è tortuoso e profondo, e si può discendendolo per sbarcare venire ad un ponte vicino a Pomba; ma quelli che lo passano, pagano un diritto come in Spagna. I lidi di questo fiume sono coperti di bestiame, e gli fu dato il nome di Guadiana perché rassomiglia molto a questo fiume dell'Andalusia.
Sabato, 15 del mese di marzo, il capitano partì di Xacamalca, e desinò in una casa lontana tre leghe, ove fu ben ricevuto e ben nutrito.
Egli andò a dormire altre tre leghe più lontano in un villaggio chiamato Carma, che è fabbricato sul pendio d'una montagna; e il capitano si stabilì in una casa dipinta, ove trovò eccellenti appartamenti. Il cacico gli fece una buona accoglienza, e lo provvide di viveri e portatori.
La domenica mattina lasciò questo villaggio, giacché il viaggio di quel giorno doveva essere malagevole; e cominciò a marciare colle sue genti distribuite in buon ordine, per timore che Chilicuchima non gli avesse teso delle imboscate; poiché egli non aveva inviato nessun messaggero.
Verso l'ora di vespro il capitano arrivò in un villaggio detto Yanaymalca, donde partì per riscontrarlo; e seppe, che Chilicuchima aveva lasciato Xauxa, il che aumentò i suoi sospetti: ma siccome non n'era lontano che una lega, tosto, dopo aver desinato, si rimise in marcia; ed allorché si fu alla vista di quella città, scorse dall'alto di una collina numerosi attruppamenti, senza distinguere se erano guerrieri o radunanze di popolo: ma essendo arrivato sulla piazza principale, il Pizarro vide, che questi attruppamenti erano formati dagli abitanti, che si erano riuniti per fargli festa.
Prima di scendere da cavallo, il capitano domandò di Chilicuchima; e gli fu risposto ch'egli era ito in un'altra città, sotto pretesto d'alcuni affari; ma che ritornerebbe l'indomani.
Questo capo s'era assentato per conoscere, dagl'Indiani che accompagnavano il Pizarro, quali fossero le intenzioni degli Spagnuoli; giacché conoscendo di avere agito male non mantenendo la sua parola, ed avendo permesso che il capitano facesse ottanta leghe per vederlo, sospettava che si venisse per prenderlo ed ucciderlo; poiché temeva i Cristiani e sopratutto i cavalli.
Il capitano conduceva seco un figlio di Cuzco l'antico; il quale, appena saputo che Chilicuchima era partito, volle recarsi presso di lui, e vi andò in una lettiga.
Per tutta la notte seguente i cavalli stettero sellati e imbrigliati, e fu proibito a' capi del paese di lasciar comparire alcun Indiano sulla piazza, dicendo loro che i cavalli erano malcontenti, e che li ucciderebbero.
Il figlio di Cuzco ritornò l'indomani con Chilicuchima, tutti e due montati su delle lettighe e ben accompagnati.
Entrando nella piazza essi scesero, lasciarono tutta la loro gente, e andarono all'alloggio di Ferdinando Pizarro con alcune persone del loro seguito.
Chilicuchima si scusò di non esser venuto, secondo la sua parola, prima di lui, protestando che non aveva potuto farlo per cagione delle sue importanti occupazioni.
Il capitano avendogli domandato perché egli non fosse venuto all'appuntamento, come aveva promesso, rispose, che il suo signore Atabalipa gli aveva inibito di muoversi.
Il Pizarro gli replicò: io non sono più in collera; andate a riposarvi, perché verrete meco presso del governatore, che ritiene prigioniero il vostro signore Atabalipa, il quale non sarà posto in libertà altro che dopo aver consegnato l'oro che ha promesso: so che voi ne custodite molto; conviene prenderlo tutto, noi partiremo insieme, e voi sarete ben trattato.
Ma Chilicuchima gli disse, che il suo signore gli aveva imposto di non mettersi in marcia, e che per conseguenza, se non riceveva nuovi ordini, non oserebbe di andarvi; giacché quel paese era testè conquistato, e se lo abbandonava potrebbe sollevarsi.
Ferdinando Pizarro discusse lungamente con questo capo, e finì con dirgli che nella notte vi pensasse e gli rendesse risposta l'indomani mattina.
Il capitano volle persuaderlo con buone ragioni, per timore di eccitare una rivolta nel paese, e perché non avvenisse del male a' tre Spagnuoli che erano andati a Cuzco.
L'indomani mattina, di buon'ora, Chilicuchima si portò all'alloggio del capitano, e gli disse: che poiché voleva che andasse seco, egli non poteva che conformarsi a' suoi desideri; che vi acconsentiva, e che lascerebbe un capo colle sue genti di guerra.
Questo giorno si raccolsero trenta carichi d'oro di bassa lega, e fun convenuto che si partirebbe fra due giorni.
In questo tempo furono portati trenta o quaranta carichi di argento.
Gli Spagnuoli stettero in guardia, e i cavalli restarono sellati giorno e notte; poiché questo capo d'Atabalipa comandava delle forze così numerose, che se i Cristiani fossero stati attaccati di notte, potevano risultarne grandi sventure.
La città di Xauxa, fabbricata in una bella vallata e sotto un cielo temperato, è grandissima; in vicinanza vi passa una riviera considerabile; il suolo è fertilissimo; essa è costruita come quelle di Spagna, e le strade sono ben tracciate; nelle sue vicinanze vi sono molti villaggi, che ne dipendono.
La popolazione di Xauxa e del suo territorio è molto numerosa; giacché secondo il calcolo che ne fecero gli Spagnuoli, ogni giorno riunivansi più di centomila uomini sulla piazza, e nullameno i mercati e le strade rimaneano popolatissime.
Vi erano delle persone incaricate di noverare tutta questa popolazione, affine di sapere quali fossero quelli che dovevano servire i guerrieri; ed altri dovevano osservare ciò che si portava nella città.
Chilicuchima aveva degl'intendenti incaricati di provvedere l'esercito, dei manufattori che lavoravano il legno; e, come un gran principe, teneva attorno di se molta gente per il servizio o per la guardia della sua persona: al suo palazzo aveva tre o quattro guardaportoni, e si faceva servire come il suo padrone, e lo imitava nelle più piccole cose.
In tutta la contrada egli era temuto a cagione del suo gran valore, poiché aveva saputo conquistare a prò del suo sovrano più di seicento leghe di paese, e aveva dato delle numerose battaglie in piano ed in alcuni passi pericolosi, ove era sempre rimasto vincitore.
Il venerdì, 20 marzo, il capitano Ferdinando Pizarro partì da Xauxa per ritornare a Caxamalca, conducendo seco Chilicuchima.
Lo stesso giorno andò fino a Pomba, ove viene a far capo la strada maestra di Cuzco, vi si trattenne il giorno del suo arrivo e il giorno appresso.
Il mercoledì, attraversando pianure ricche in bestiame, andò ad alloggiare in alcune grandi case; in quella notte nevicò moltissimo.
Il giorno dopo dormì in un villaggio che si chiama Tambo, in mezzo alle montagne, e nelle cui vicinanze evvi una riviera profonda traversata da un ponte, alla quale si discende fino alla sponda dell'acqua per mezzo di una scala di pietra pericolosissima; se il nemico occupava l'altura, avrebbe potuto farci molto male.
Il capitano ricevè dal cacico di questo luogo quanto ebbe di bisogno; vi si fece allegria, sì per la venuta di Ferdinando Pizarro, come per quella di Chilicuchima, essendo uso di dargli delle feste.
Il venerdì successivo, il capitano andò a riposare in un villaggio nomato Tonsucancha, il cui cacico si chiama Tillima; ivi fu ben ricevuto, e molte genti vennero ad offrirgli il loro servizio; poiché sebbene il villaggio fosse piccolo, una moltitudine di abitanti de' controni accorsero per vedere i Cristiani. Vi sono in questo luogo piccoli armenti la di cui lana molto buona assomiglia a quella di Spagna.
L'indomani andò a passar la notte cinque leghe più lontano, in una città chiamata Guaneso, onde la strada è selciata, e vi sono due canali scavati per il corso delle acque; i quali, per quanto si dice, furono fatti a cagione delle nevi che cadono in questo paese ad una certa epoca dell'anno. Guaneso è una città ben fabricata in una valle circondata da elevatissime montagne, e di tre leghe di circonferenza; dalla parte di Caxamalca bisognò valicare una montagna molto scoscesa.
Il capitano ed i Cristiani ricevettero una buonissima accoglienza: e ne' due giorni che vi soggiornarono, furon fatte molte feste.
Questa città ha molti villaggi sotto la sua dipendenza, e gli armenti vi sono numerosissimi.
L'ultimo giorno dello stesso mese, il capitano colle sue genti lasciò Guaneso, ed arrivò ad un ponte che traversa una gran riviera: egli è costruito di grosse travi, ed un portiere è incaricato di ricevere il pedaggio, secondo l'uso del paese.
Questa sera dormì in un villaggio lontano quattro leghe dall'ultimo luogo: Chilicuchima fece dare ai Cristiani quanto loro occorreva pel viaggio.
Il primo di aprile passarono la notte a Pincasmarca, villaggio situato sul pendio d'un'alta montagna, il cui cacico si chiama Parpay; ed il giorno dopo alloggiarono a Guari, bella città irrigata da un'altra riviera larga e profonda, attraversata da un ponte.
Questo sito è fortissimo, a cagione delle frane profonde che da tutte le parti lo circondano: Chiculichima disse avervi sconfitto l'armata di Cuzco che aveva aspettato i suoi in questo luogo, e che la città s'era difesa due a tre giorni: quando le genti di Cuzco furono vinte, passarono il ponte e vi misero il fuoco; ma Chilicuchima e la sua armata traversarono il fiume a nuoto, ed uccisero una gran parte de' nemici.
Ferdinado Pizarro partì da questa città nel giorno appresso, ed andò a dormire a Guacango, lontano cinque leghe: quindi il giorno successivo, a Piscobamba, gran città fabbricata sul fianco di un'altura, il cacico della quale si chiama Tanguamè: questo Indiano ed i suoi sudditi lo ricevettero benissimo, e resero molti servigi ai Cristiani.
A metà di cammino tra questa città e Guacabamba trovasi una profondissima riviera, sopra la quale vi è un doppio ponte di corde, come quelli che già descrivemmo, cioè a dire, ch'esso è costruito nello stesso modo: un pilastro di pietra si eleva in vicinanza dell'acqua; da una parte all'altra del fiume sono tesi canapi grossi come una coscia, fatti di vimini; delle forti corde bene intrecciate traversano questi canapi, ed i parapetti sono bene elevati: in basso poi vi sono delle grandi pietre murate per consolidare il ponte.
I cavalli passarono facilmente, sebbene il ponte tremasse quando si traversava, il che è cosa molto spaventevole, allorquando non vi si è assuefatti; ma non vi è pericolo, perché questi ponti sono solidissimi.
Tutti hanno de' custodi come in Spagna, e ciò è organizzato come abbiamo già detto.
Lasciata questa città, il capitano andò ad alloggiare nelle abitazioni che sono cinque leghe distanti, e il giorno seguente ripartì da questo luogo detto Agoa, che dipende da Psicobamba. E' questo un ricco villaggio dovizioso di formentone, e fabbricato in mezzo alle montagne. Il cacico ed i suoi, fornirono ciò che fu necessario pel cammino; e la mattina procurarono le genti di cui i Cristiani ebber bisogno.
La sera dell'indomani il capitano fu ad alloggiare a Lonchucho, villaggio discosto quattro leghe da Agoa, il di cui sentiero è assai malagevole.
Lonchucho è situato in basso: una mezza lega prima di arrivarvi, trovasi una strada larghissima tagliata nello scoglio, nella cui pietra sono scavati de' gradini; per la qual cosa vi sono de' passi pericolosissimi, e per chi volesse difendervisi fortissimi.
Ferdinando Pizarro andò in seguito ad Andamaca, donde partì per Pachamaca, città nella quale si riuniscono le due strade maestre che conducono a Cuzco.
Da Pomba a questo luogo si contano tre leghe di sentiero difficilissimo, giacché si scende e si sale per mezzo di scale di pietra.
Dalla parte del pendio della montagna vi sono de' parapetti di pietra per impedir di cadere, perché incontransi de' punti, ove se uno sdrucciolasse si fracasserebbe in pezzi; e sono altresì atilissimi per i cavalli che senza di essi rovinerebbero.
E' a metà del cammino un ponte di pietra e legno costruito tra due scogli con molta arte; da una parte di questo ponte sono alloggi molto ben fabbricati e una corte lastricata nella quale, secondo gl'Indiani, si davano de' festini e delle feste a' sovrani del paese, quando vi passavano.
Da questo luogo in poi, Ferdinando Pizarro, seguì infino a Caxamalca la medesima strada che aveva battuta partendo: sicché ritornò in questa città con Chilicuchima, addì 25 del mese di maggio 1533.
Fu vista allora una cosa inaudita dalla scoperta dell'Indie in poi; ed è un fatto da farlo rimarcare agli Spagnuoli.
Al momento in cui Chilicuchima passò la porta della città ove il suo sovrano era prigioniero egli prese da un portatore Indiano del suo seguito un fardello e se lo pose sulle spalle; un gran numero de' capi principali che l'accompagnavano seguì il suo esempio, e carichi in questa guisa entrarono ove era il loro signore.
Tosto che Chilicuchima lo vide, alzò le mani verso il sole e rese grazie a questo astro di avergli permesso di rivederlo: quindi avvicinandosi al suo sovrano con molta tenerezza e piangendo, lo baciò in viso, nelle mani e sui piedi, e gli altri capi che eran venuti seco fecero lo stesso.
Atabalipa mostra però tanta fierezza, che sebbeno non fosse ne' suoi stati persona che amasse di più, non lo guardò in faccia, né fece più caso di lui che dell'infimo degl'Indiani che erano presenti.
Questo costume di portare un peso nel presentarsi al cospetto di Atabalipa era in uso presso tutti i sovrani che hanno regnato in questo paese.
La presente relazione è fatta da me Miguel Estete, inspettore, che ha accompagnato il capitano Ferdinando Pizarro, ed ho riferito tutti i fatti tali e quali sono accaduti
MIGUEL ESTETE

CONTINUAZIONE DEL RACCONTO DEL XERES
Il governatore pensò, che i sei navigli che erano nel porto di sant Miguel non potevano soggiornarvi più a lungo; e che, se fosse ritardata la loro partenza, finirebbero col perdersi; oltre di che i capitani di questi bastimenti gli avevano domandato d'esser pagati e spacciati.
Il Pizarro convocò dunque un consiglio perché essi fossero congedati, e perché una relazione di quanto era avvenuta fosse inviata a Sua Maestà.
Fu convenuto con gli ufiziali di fondere tutto l'oro che era in città e che
Atabalipa vi aveva fatto trasportare, con più tutto quello che arriverebbe nel tempo che si sarebbe occupato in questa operazione: e fu stabilito, che appena terminata e fatta la divisione del prezioso metallo, il governatore anderebbe a colonizzare il paese secondo gli ordini di Sua Maestà.
Addì 3 marzo dell'anno 1533, fu annunciato pubblicamente che si incominciava a fondere l'oro, e tosto fu posto mano all'opera.
Dieci giorni dopo [quindi il 13 marzo annota F. Xeres nella seconda parte di questa sua relazione], uno de' cristiani ch'era stato a Cuzco arrivò a Caxamalca, ed era colui che partì in qualità di notaro.
Egli era latore di una relazione, nella quale si raccontava come fosse stato preso posssesso di questa città in nome di Sua Maestà, e si descrivevano i luoghi che sono sulla strada: vi era detto che se ne contavano trenta principali, ed altri più piccoli; che la città di Cuzco è così grande come già riferimmo; ch'ella risiede sul pendio d'una montagna, presso d'una pianura: che le sue strade sono ben disegnate e lastricate; e che durante il soggiorno degl'inviati che fu di otto giorni, essi non poterono vedere tutto quello che conteneva.
Cuzco [il sovrano] vi possedeva una casa ricoperta di lamiera d'oro, quadra e ben costruita, la quale ha per ogni facciata trecento cinquanta passi di lunghezza; essi avevano preso da questa casa settecento lamiere d'oro, che pesavano l'una per l'altra cinquecento pesos.
Gl'Indiani ne ritrassero da un'altra casa dugento mila pesos; ma siccome questo metallo era di un grado bassissimo, i nostri non ne vollero, perché non vi era che sette o otto carati per pesos.
Queste due case erano le sole incrostate in oro che essi videro, non avendo gl'Indiani lasciato loro osservare tutta la città; la quale a giudicarne dall'apparenza e dagli ufiziali ivi residenti, pareva contenere grandi ricchezze.
Gli spagnoli vi trovarono il capo detto Quisquis, che comandava la piazza per Atabalipa; egli era alla testa dei trentamila uomini di guarnigione che la difendeano dalle aggressioni de' caribi e d'altri popoli che sono in guerra con questa città.
Il notaro parò molto a lungo delle cose che si vedono a Cuzco, e del buon'ordine che vi regna.
Egli disse, che il capo degli Spagnuoli, che vi erano stati inviati, ritornava colla sua truppa carico di seicento piastre di oro e d'argento, come pure una quantità considerabile di questi metalli, dono del capo che Chilicuchima aveva lasciato a Xauxa.
Di maniera che tutto l'oro che essi portavano ammontava a cento sessantotto carici di paligueres [questa parola non è Spagnuola. Si può supporre con qualche ragione ch'essa significhi una barella o palanchino, termine che non è senza analogia con questa espressione], condotti da quattro Indiani; ma avean seco poco argento.
Non ricevendo l'oro che poco a poco, essi dovevano aspettare, e vi era d'uopo di molti Indiani per andarlo a prendere, giacché si raccoglieva di città in città; per cui il notaro pensava ch'essi sarebbero a Caxamalca in un mese.
I convogli d'oro che venivano da Cuzco, come abbiamo già detto, arrivarono a Caxamalca li 13 giugno 1533; consistevano in dugento carichi d'oro, e in venticinque d'argento: l'oro poi sembrava ascendere a cento trenta quintali.
Quando quest'oro fu giunto, ne arrivò ancora sessanta carichi di bassa lega, la più gran parte del quale era in piastre somiglianti a delle tavole da casse di tre o quattro palmi di larghezza; e queste tavole erano state tolte dalle mura degli appartamenti; aveano de' fori che sembravano indicare di essere state inchiodate.
Si terminò di fondere e di far la divisione di quest'oro il giorno di San Giacomo; e pesato tutto l'oro e l'argento, la totalità ascese ad un milione e trecentomila cinquecento trentanove pesos d'oro fine: sul quale, prelevato il diritto del fonditore, Sua Maestà doveva avere il quinto, che ascese a dugento sessantaduemila cinquecento nove pesos d'oro fine.
E l'argento produsse cinquantunmila seicento dieci marchi, di cui diecimila cento ventuno furono per l'imperatore.
Il Pizarro, prelevato il quinto e il diritto del fonditore su la totalità, divise il rimanente fra i conquistatori che l'avevano guadagnato.
Ad ogni cavaliere toccò ottomila ottocento ottanta pesos d'oro, e trecento sessantadue marchi d'argento: e ad ogni fante, quattromila quattrocento quaranta pesos, e cento ottantuno marchi d'argento; ma ciascuno ebbe più o meno, secondo la qualità delle persone e le pene sofferte.
Avanti la divisione dell'oro, il governatore ne aveva messo da parte una certa quantità, che egli poscia donò: a' coloni che erano rimasti a Sant Miguel: a tutti quelli che erano venuti col capitano Diego de Almagro; a tutti i mercanti, ed a tutti i marinari che arrivarono dopo il termine della guerra: di maniera che qualunque si trovò nel paese, n'ebbe la sua parte.
Si può dunque chiamare questa fusione, una fusione generale, giacché essa fu generale per tutti.
Durante questa operazione accadde un avvenimento degno d'esser notato: in un solo giorno si fusero ottantamila pesos d'oro, mentre che ordinariamente non se ne fondevano che cinquanta o sessantamila: e questa fusione fu fatta dagl'Indiani, i quali hanno fra loro degli orefici e de' fondatori abili, che lavorano con nove fornelli.
Io non ometterò di parlare de' prezzi dei viveri, e di certe mercanzie in questo paese, benché vi saranno delle persone che non mi crederanno, essendo questi prezzi esorbitanti; ma io posso parlar per pratica poiché ho veduto comprare ed ho comprato diversi oggetti.
Un cavallo s'è venduto millecinquecento pesos, ed un altro tremila trecento; il prezzo ordinario era di duemila cinquecento, e anche non se ne trovava: una bottiglia di vino di tre açcumbres (6 litri e 1/2), sessanta pesos.
Io ho pagato due açumbres di vino quaranta pesos, e de' calzari lo stesso prezzo: un mantello da cento a centoventi pesos: una spada da quaranta a cinquanta: un capo d'aglio un mezzo pesos<: un quaderno di carta dieci pesos; e le altre cose nella stessa proporzione.
Per avere un poco più di una mezza oncia di zafferano poco perfetto, io stesso dovetti sacrificare dodici pesos, ciascuno de' quali vale un castellano.
Io avrei molte altre cose da dire se volessi parlare dell'aumento de' prezzi, e del poco conto che si faceva dell'oro e dell'argento in quel paese: le cose erano giunte a questo punto, che se qualcuno andava debitore di un altro, gli dava un pezzo d'oro a caso, senza pesarlo; e abbenché talvolta pagasse il doppio di ciò che doveva, poco gli importava.
Cosicché quelli che avevano de' debiti, andavano di casa in casa con un Indiano carico d'oro, a cercare i loro creditori per pagarli.
Ecco come fu fatta la fusione ed il reparto dell'oro e dell'argento; e tale era la ricchezza di questo paese, che tali metalli veniano del pari poco stimati dagli Spagnuoli, come dagl'Indiani.
Esiste una città dipendente da Cuzco, ma che apparteneva ad Atabalipa, ove dicesi, sono due case in oro, e gli embrici che le cuoprono sono della stessa materia.
Con l'oro che arrivò da Cuzco erano alcune spighe di grano in oro sodo, aventi le loro ariste all'estremità, esattamente come esse nascono nei campi.
Se fosse d'uopo descrivere le differenti forme degli oggetti d'oro che furon portati, vi sarebbe da non venirne mai a fine: vi erano de' pezzi di oreficeria che pesavano otto arrobe; cioè delle grandi fontane con le cannelle conducenti l'acqua in un bacino che faceva parte dello stesso pezzo, ov'erano molti uccelli di diverse specie, e degli uomini in atto d'attinger acqua; e tutto questo fatto in oro.
Secondo il rapporto d'Atabalipa, di Chilicuchima e di altre persone, questo principe aveva a Xauxa degli armenti e de' pastori tutti in oro, e questi armenti e questi pastori erano della grandezza naturale; i quali oggetti appartenevano a Cuzco (l'antico) padre di Atabalipa, che promesse di donargli agli Spagnuoli.
Del resto, si raccontano sulle ricchezze di questi due principi delle cose sorprendenti.
Riferiamo ancora un fatto [scrive ancora F. Xeres a conclusione della Cronaca], che merita d'esser citato: un capo Indiano, cacico di Caxamalca, si presentò al governatore e per mezzo degli interpreti gli disse: Io ti fo sapere che dal momento in cui Atabalipa è in schiavitù, egli ha inviato ordini a Guito ed in tutte le altre provincie dei suoi stati, per far riunire un gran numero di guerrieri, all'oggetto di attaccare te e le tue genti ed uccidervi tutti. Quest'armata viene sotto gli ordini di un abile capitano chiamato Lluminabe; ella è molto vicina di qui, e deve arrivare di notte; attaccherà i vostri trinceramenti mettendo il fuoco da tutte le parti, e tu il primo vogliono uccidere per por quindi Atabalipa in libertà.
Da Guito arriveranno dugentomila uomini da guerra, con trentamila Caribi, che cibansi di carne umana: ed una provincia chiamata Paçalta, in unione ad altre contrade, hanno pure fornito un gran contingente di uomini.
Il Pizarro avendo ricevuto questo avviso, ringraziò moltissimo il cacico, lo ricolmò d'onori, ed ordinò ad un notaro di scrivere questo rapporto e di fare delle indagini: questo ufiziale fece arrestare uno zio d'Atabalipa, molti capi ed alcuni Indiani, e si scuoprì, che tutto ciò che il cacico di Caxamalca aveva detto, era vero.
Il governatore ebbe una conferenza con Atabalipa, e gli disse: "Qual tradimento è questo che tu macchini contro di me, che ti ho onorato come mio fratello e che mi son fidato alla tua parola?".
Poscia gli ripetè tutto quello che aveva scoperto.
"Ti burli di me" -rispose Atabalipa- "giacché tu mi dici sempre delle facezie? Che siamo noi, io e tutte le mie genti? Potremmo noi aver speranza di vincere uomini bravi come voi?".
Egli diceva ciò senza mostrare il minimo turbamento e ridendo, per meglio dissimulare la sua perfidia. Ma da che egli era prigioniero, aveva così di sovente mentito col sorriso d'un furbo, che gli Spagnuoli, i quali l'intesero, furono maravigliati in vedere tanta sagacità in un selvaggio.
Il Pizarro mandò all'istante a cercare una catena, e gliela fece porre al collo: poi spedì due Indiani in qualità di spioni per scuprire che fosse veramente di questa armata che si diceva essere a sette leghe da Caxamalca, desiderando specialmente sapere se ella si trovava sopra un terreno ove si potessero mandare cento cavalieri.
Ma seppesi che questa si avanzava a poco a poco in un paese montuoso, e che nel momento in cui Atabalipa era stato incatenato, aveva spedito degli espressi per dire al suo comandante che il governatore volea farlo morire.
Laonde appena questo capo e la sua armata ebbero ricevuto questo messaggio, se ne ritornarono indietro; ma avendo Atabalipa spedito altri emissari per portar l'ordine di venire senza ritardo, indicava ai suoi l'ora e per qual parte dovevano attaccare i trinceramenti, ed aggiungeva ch'egli era ancor vivo, ma che lo porrebbero a morte se tardassero a liberarlo.
Il governatore avendo avuto cognizione di tutto questo, fece entrare molti viveri nel campo, e la notte fece fare delle ronde da tutti i cavalieri: sul far del giorno cento cinquanta di essi andavano a riconoscere i posti.
Tutte le notti, il governatore ed i suoi capitani vegliavano, visitavano le pattuglie, e prendevano tutte le necessarie disposizioni. I soldati che dormivano non lasciavano le loro armi, ed i cavalli stavano continuo sellati.
Tutte queste precauzioni si osservavano nel campo, allorché un sabato, al levar del sole, due Indiani che erano al servizio degli Spagnuoli, vennero a dire, ch'essi avevano preso la fuga davanti l'esercito nemico che era a tre leghe di là, e che la notte prossima o la successiva, il campo de' Cristiani sarebbe attaccato; giacché il nemico s'avanzava in tutta fretta, in conseguenza degli ordini dati da Atabalipa.
Allora il governatore, di concerto con gli ufiziali di Sua Maestà, i capitani ed altre persone esperimentate, condannò a morte Atabalipa; ed ordinò nel suo decreto, che atteso il tradimento di cui questo principe s'era reso colpevole, sarebbe stato bruciato vivo, a meno che'egli non abbracciasse il cristianesimo: e ciò per sicurezza de' Cristiani, per il bene e la tranquillità del paese; giacché morto Atabalipa, era evidente che tutta la sua armata si sbanderebbe, e le sue genti non avrebbero il coraggio di attaccarci per vendicarlo.
Si andò dunque a prenderlo per condurlo al supplizio: quando egli fu arrivato sulla piazza, disse che voleva esser Cristiano, lo che tosto fu fatto sapere al governatore, il quale ordinò fosse battezzato.
Il reverendo padre Vincenzo di valverde, che si prendea cura della sua salvazione, lo battezzò.
Allora il Pizarro ordinò di non bruciarlo, ma di appiccarlo pella gola ad un palo, come fu fatto, ed ivi rimase dino all'indomane mattina: i religiosi, il governatore e gli altri Spagnuoli lo portarono alla Chiesa per esservi sepolto con molta solennità, e con tutti i più grandi onori possibili.
Così finì questo uomo che era stato tanto crudele!
Morì con molto coraggio, senza mostrare debolezza, e raccomandando i suoi figli al governatore.
Al momento in cui si andava a seppellirlo, s'intesro le grida di dolore delle sue donne e dei suoi servitori.
Egli morì di sabato, all'ora stessa in cui era stato vinto e fatto prigioniero; e molti dissero esser accaduto per i suoi peccati ch'egli spirasse nel medesimo giorno ed alla stessa ora.
Ecco come Atabalipa espiò i suoi grandi delitti, e le crudeltà che aveva esercitate sopra i suoi sudditi; giacché tutti ad una voce dicevano, ch'egli era stato il più crudele ed il più sanguinario degli uomini: per il più leggero motivo distruggeva una città: per il più piccolo sbaglio di un solo uomo ne faceva uccidere diecimila; e teneva in schiavitù tutta questa contrada colla sua tirannia, per cui tutti gli abitanti detestavanlo.
Subito dopo la sua morte, il governatore scelse un altro figlio di Cuzco l'antico chiamato Atabalipa pur esso, il quale pareva amare i cristiani, e lo rivestì della sovranità in presenza de' cacichi, de' capi del paese, e d'altri indiani; ed ordinò a tutti di riguardarlo come loro signore, di obbedirgli come avevano obbedito ad Atabalipa; conciossiaché egli fosse il loro sovrano naturale, essendo figlio legittimo di Cuzco l'antico. Tutti risposero che lo considererebbero come loro signore, e che gli obbedirebbero come il governatore aveva comandato.
Ora mi si permetta di raccontare un fatto sorprendente.
Venti giorni prima di questi avvenimenti, e quando nulla si sapeva dell'esercito che Atabalipa aveva fatto riunire, questo principe, scherzando un giorno allegramente con gli Spagnuoli, scoperse nel cielo, verso dieci ore, dalla parte della città di Cuzco, un segno simile ad una cometa che brillò per una gran parte della notte; e appena l'ebbe veduto disse: "che bentosto un gran principe morrebbe in quella contrada".
Quando il governatore ebbe investito Atabalipa il giovane del potere e della sovranità del paese, come abbiamo riferito, disse che desiderava comunicargli gli ordini di Sua Mestà, e ciò che doveva fare per esser suo vassallo: Atabalipa rispose, esser d'uopo, che prima di tutto egli si ritirasse per quattro giorni senza parlare ad alcuno, perché tale era il costume, quando moriva un sovrano, affinché il suo successore fosse temuto, obbedito, e quindi tutti i sudditi gli facessero atto di sommissione.
Egli dunque passò quattro giorni nel ritiro: poscia il governatore stabilì con lui le condizioni della pace al suono delle trombe, e gli rimesse nelle mani lo standardo reale, che questo principe ricevè e inalzò di sua propria mano in nome dell'imperatore nostro signore, e si riconobbe vassallo di Sua maestà.
Allora tutti i capi principali, ed i cacichi che erano presenti, lo salutavano con molto rispetto come loro sovrano, gli baciarono le mani e la gota, e rivolgendosi verso il sole, lo ringraziarono a mani giunte dicendo, ch'esso aveva dato loro un padrone legittimo.
Così questo principe fu eletto in luogo di Atabalipa, e tosto gli fu posta sulla testa una ricchissima nappa, che discendeva sulla sua fronte: questa presso di loro è la corona del principe che governa Cuzco, e la portava anche Atabalipa.
Quando tutto questo fu finito, molti degli Spagnuoli che avevano conquistato il paese, soprattutto quelli che vi erano da lungo tempo, che soffrivano delle infermità, che non potevano né servire né restare a cagione delle loro ferite, domandarono il loro congedo al governatore, supplicandolo di permettergli di ritornare alle case loro con l'oro, l'argento, le pietre preziose ed i gioielli che avevano avuto in parte; e questo permesso fu loro accordato, e molti se ne ritornarono in Spagna, con Fercinando Pizarro fratello del governatore.
Più tardi furono accordati altri congedi; giacché ogni giorno arrivavano nuovi soldati accorsi alla fama delle ricchezze che i primi avevano acqusitate. Il governatore fece consegnare a tutti gli Spagnuoli congedati, dei lamas e degl'Indiani per portare il loro oro, il loro argento ed i loro effetti fino a Sant Miguel: cionostante, nel viaggio alcuni perdettero molt'oro ed argento, essendo fuggite le bestie co' loro carichi; e degl'Indiani pure se ne fuggirono, per cui queste perdite assommarono a più di venticinquemila castellanos.
Lungo la strada da Cuzco al porto, che è di dugento leghe in circa, essi ebbero molto a soffrire per la fame, la sete, la fatica, e pel difetto di bestie da soma o d'Indiani che portassero le loro ricchezze.
Finalmente, essi si ridussero per mare a Panama, e di là passarono a Nombre-de-Dios, ove imbarcaronsi, e Iddio Signor nostro li condusse fino a Siviglia, ove sono digià arrivati quattro vascelli che hanno portato le seguenti quantità d'oro e di argento.
L'anno 1533, li 5 del mese di dicembre, il primo di questi quattro bastimenti arrivò a Siviglia.
Aveva a bordo il capitano Christoval de Mena, e portava ottomila pesos d'oro e novecento marchi d'argento, che appartenevano a questo ufiziale.
Un sacerdote nativo di Siviglia, per nome Giovanni de Soza, portava seco seimila pesos d'oro e ottanta marchi d'argento.
Oltre di ciò questa nave era carica di trentotto mila novecento quarantasei pesos d'oro.
L'anno 1534, il 9 di gennaio, la seconda nave, per nome Santa Maria del campo, entrò nella riviera di Siviglia.
Avea a bordo il capitano Ferdinando Pizarro, fratello di Francesco Pizarro, governatore e capitano generale della Nuova Castiglia.
Il bastimento era carico di cinquantatre mila pesos d'oro, e di cinque mila quattrocento ottanta marchi d'argento, appartenenti al re.
Portava altresì, per conto di passeggeri e di particolari, tecento dieci mila pesos d'oro, e tredicimila cinquecento marchi d'argento.
Qyesti metalli erano in barre ed in verghe rinchiuse in grandi casse.
Vi erano ancora a bordo del naviglio, e per conto di Sua Maestà, trentotto vasi d'oro e quarantotto d'argento, fra i quali era un'aquila d'argento che conteneva due otri d'acqua, e due grandi bacini, uno d'oro e l'altro d'argento, in ciascheduno de' quali poteasi cuocere un bove tagliato in pezzi; due sacchi d'oro della capacità di due faneghe di grano; un idolo d'oro della grandezza di un fanciullo di quattro anni, e due piccoli tamburi.
Gli altri vasi erano bacini d'oro, della capacità di due arrobe e più per ciascheduno.
V'erano pure per i passeggeri ventiquattro vasi d'argento e quattro d'oro.
Questi tesori furono scaricati sul molo, e trasportati alla camera di commercio.
I vasi e gli altri oggetti furono spediti in ventisette casse, e vi fu d'uopo di un paro di buoi per trascinare una carretta carica di sole due casse.
Addì 3 giugno dello stesso anno, arrivarono insieme due vascelli, uno capitanato da Francesco Rodriguez, l'altro da francesco Pavon.
Questi bastimenti portavano cento quarantasette mila cinquecento diciotto pesos d'oro, e trentamila cinquecento undici marchi d'argento, appartenenti a passeggeri o particolari.
Senza contare i vasi e gli oggetti in oro e in argento di già descritti, l'oro di questi quattro bastimenti ascese a settecentotto mila cinquecento ottanta pesos, ognuno dei quali vale un catsellanos, e vendesi comunemente quattro cento cinquanta maravadis, piccola moneta di Spagna.
Laonde, sommado l'oro de' quattro vascelli, senza contare i vasi e gli altri oggetti, la totalità ascese a trecento diciotto milioni otteconto sessantun mila maravedis.
L'argento poi ammontò a quarantanovemila otto marchi, ciascheduno di otto oncie: che conteggiando duemila dugentodieci maravedis, danno un totale di centotto milioni trecentosette mila seicento ottanta maravedis.
Una delle due ultime navi che arrivarono (quella che era comandata da Francesco Rodriguez) apparteneva a Francesco Xeres, nativo di questa città di Siviglia, autore della presente relazione, scritta per ordine del governatore Francesco Pizarro, durante il suo soggiorno a
Caxamalca, nella provincia della Nuova Castiglia, in qualità di segretario del governatore.
LODI A DIO
[N. B. - Questa relazione è seguita da un'ode di nove stanze diretta dall'autore all'imperatore Carlo V, ma essa non merita di esser tradotta]