Informatizzazione a cura di B. Durante

GIOVANNI GIOLITTI nacque nel 1842 in provincia di Cuneo, da genitori borghesi e morì a Cavour nel 1928.
Dopo aver lavorato per ben vent’anni al ministero delle Finanze entrò in Parlamento nel 1882 come deputato per Dronero che rappresentò per il resto della vita.
Valendosi della sua esperienza in materia finanziaria divenne ministro del Tesoro sotto CRISPI nel 1889 e primo ministro nel 1892.
Travolto dallo scandalo della BANCA ROMANA (ideata allo scopo di porre ordine al SISTEMA CREDITIZIO NAZIONALE) si dimise nel novembre del 1893.
Tornò al governo sei anni dopo, sotto Zanardelli, come ministro degli Interni sull’onda del liberismo.
La sua politica progressista gli guadagnò l’appoggio dei socialisti moderati e sotto il suo governo la classe lavoratrice organizzata godette i benefici della prosperità economica e dell’aiuto dello stato.
Non simpatizzava né per il clericalismo né per l’anticlericalismo, e pensava che lo Stato e la Chiesa fossero "due parallele che non devono incontrarsi mai".
Per questo favorì l’integrazione nella vita della nazione tanto dei cattolici quanto dei socialisti; fu proprio questo l’impegno che gli costò più tempo.
La DESTRA e la Sinistra, tuttavia, lo accusavano di clericalismo.
Negli anni 1911/12 si rese protagonista di due azioni che riteneva necessarie, ma che avrebbero condotto l’epoca di Giolitti al declino: la conquista della Libia e il suffragio universale.
Nel marzo del 1914 Giolitti si dimise e nel maggio del 1915 l’Italia entrò in guerra.
Il SISTEMA CREDITIZIO ITALIANO, al pari di quello di altri paesi occidentali, è il risultato di una lunga e travagliata evoluzione storica, che è proceduta con lo sviluppo economico e sociale del paese e che può essere distinta in diverse fasi.
Inizialmente il prevalere di teorie economiche di tipo liberistico consentiva uno svolgimento senza vincoli dell'attività creditizia, mentre la legislazione dello stato riguardava solo alcuni aspetti come fornire alla collettività servizi essenziali quali strade, scuole ed edifici pubblici.
Le banche, che operavano anche come istituti di emissione, non erano disciplinate organicamente e perseguivano in modo libero e incontrollato le loro finalità.
Questo sistema liberistico si protrasse fino agli anni dopo il 1870, anni in cui le banche, oltre ad operare come istituti di emissione, cominciarono a svolgere anche una funzione intermediatrice fra coloro che offrivano capitali e coloro che li richiedevano.
Lo scopo principale per cui le banche sorgevano ed operavano era quello di apportare un considerevole aiuto ai regnanti del tempo così come accadde nel 1888 con CRISPI quando, per finanziare l'espansione coloniale italiana, accadde lo scandalo della BANCA ROMANA.
Nel 1893, allo scopo di dare una maggiore organizzazione ed un primo coordinamento fra i diversi istituti, si avvertì la necessità di creare un'unica Banca con sede a Roma che nascerà dall'unione delle banche italiane sottoforma di S.p.a. con cap. soc. di 300.000.000 di lire: la Banca d'Italia.
Queste sono solo le prime forme di progetto di banca moderna che funzioneranno come base per ciò che avverrà successivamente con la fine della guerra, quando il sistema bancario non sopravviverà alla riconversione da un' industria bellica a un' industria civile.
Nel periodo che va dal 1870 al 1925 si ebbe una serie di progetti di legge e di studi di un certo interesse che denotano l'aspirazione di dare un assetto organico al settore del risparmio e del credito, onde risolvere i vari problemi connessi all'importanza che l'attività bancaria andava assumendo nell'economia moderna.
Così molti progetti tendevano a stabilire una speciale garanzia a favore dei depositanti nei confronti delle società anonime esercenti il credito, mediante il privilegio legale sugli ultimi tre decimi del capitale sociale, da versarsi solamente in caso di liquidazione o di fallimento delle società anzidette.
Nel 1892 la BANCA ROMANA, quella che nel passato era la Banca dello Stato Pontificio, era uno dei sei istituti autorizzati ad emettere biglietti a corso legale sui quali era fondato il sistema bancario italiano (altri Istituti di emissione erano: la Banca Nazionale del Regno d'Italia, la Banca Nazionale Toscana, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia) fu tra le prime ad approfittare dell'ondata di speculazione edilizia che attraversò Roma e altre città d'Italia tra il 1889 e il 1893.
A causa dei crediti eccessivi concessi all'industria edile della capitale la circolazione cartacea prodotta dalla Banca superò di 65 milioni il limite legale. Buona parte della circolazione eccedente (incluse banconote false per 40 milioni emesse in serie doppia) fu utilizzata per prestiti politici a deputati e ministri, tra i quali CRISPI e GIOVANNI GIOLITTI.
La commissione d'inchiesta nominata nel 1889, quando i primi fallimenti bancari di quell'anno lasciarono trapelare l'eccedenza della circolazione, attirò l'attenzione su questa e altre irregolarità (tra le altre fu accertato un ammanco di cassa pari a 9.000.000 di lire, coperto abusivamente mediante l'emissione di biglietti a vuoto).
I risultati dell'inchiesta, che Crispi e Giolitti avevano voluto mantenere segreti adducendo la preoccupazione per eventuali gravi contraccolpi nel sistema creditizio, furono resi pubblici nel dicembre del 1892.
La successiva inchiesta amministrativa condotta nel gennaio del 1893 portò all'arresto di autorevoli personaggi.
Si concluse nel luglio 1894 con la clamorosa assoluzione degli imputati; i giudici per non coinvolgere figure di spicco del mondo politico, tra le quali Crispi, affermarono che nel corso dell'inchiesta erano stati sottratti documenti importanti.


FRANCESCO CRISPI, ex-mazziniano dal temperamento fortemente individualistico e insofferente di ogni dissenso, nel 1859 aveva organizzato la rivoluzione siciliana preparando così il terreno alla Spedizione dei Mille; nel 1865 aveva aderito alla monarchia ("la repubblica ci dividerebbe mentre la monarchia ci unisce") ed era stato poi tra i più fieri oppositori di Depretis.
Benché fosse giunto alla presidenza del consiglio ormai settantenne dimostrò subito di non aver perso nulla del proprio carattere aspro e autoritario, che lo portava ad essere un grande ammiratore del Bismack e del militarismo prussiano, e quindi un deciso sostenitore della politica legata alla Triplice Alleanza.
Convinto avversario del parlamentarismo e delle "astratte" ideologie liberali, egli svolse fra il 1887 e il 1896 una luna pratica di governo, che può essere divisa in due fasi ben distinte.
Iniziata nell'agosto del 1887 e conclusa nel 1891, la prima fase fu contraddistinta da un indirizzo in buona parte diverso rispetto a quello seguito da Depretis.
Sotto la sua direzione la trasformazione dello stato, già avviata nell'epoca del trasformismo, giunse a una compiuta maturazione: lo stato fu concepito come uno strumento finalizzato alla politica di potenza e all'estensione del prestigio internazionale e, in quanto tale, legittimato ad esercitare una dura pressione sulla società civile.
In questo intreccio di autoritarismo e imperialismo emergeva il segno delle crescenti difficoltà incontrate dalla nascente nazione italiana in una fase di pesante congiuntura economica e politica.
L'aggravarsi della crisi agraria, l'espandere della crisi edilizia e i fallimenti della banche più esposte nel settore delle costruzioni, le difficoltà dell'industria, favorite anche dalla "finanza allegra" praticata negli anni precedenti dal ministro Agostino Magliani, avevano creato una situazione di acuta tensione sociale, caratterizzata da scioperi e tumulti nelle città e nelle campagne.
Inoltre la difficile situazione internazionale e i fallimenti della spedizione militare nel Mar Rosso andarono accentuando il clima di malessere e di frustrazione rischiando di ridare fiato ai gruppi irredentisti.
A ciò si aggiungeva la crisi istituzionale approfonditasi negli ultimi anni del governo Depretis con il rafforzamento di quel che la DESTRA definì il "mostruoso connubio" tra accentramento e parlamentarismo, che comportava una sempre più estesa invadenza del personale politico (deputati e autorità di governo) nelle questioni amministrative e una pericolosa degenerazione clientelare.
Influiva inoltre sul nuovo modello politico, il carattere "strutturale" che andava assumendo il blocco sociale protezionista industriale-agrario, interessato ad una politica di potenza e di riarmo.
L'attività di governo di Crispi si orientò subito verso una profonda riforma dello stato, una connotazione in senso aggressivo delle alleanze internazionali e una decisa espansione coloniale in Africa.
Nel periodo dei primi due ministeri da lui presieduti, fu approvato un elevato numero di provvedimenti legislativi di grande importanza al fine di completare l'opera di accentramento dello stato già avviata negli anni precedenti.
L'ordinamento e la funzione dei prefetti dipesero dal governo centrale in misura superiore al passato, e si configurarono come strumento di controllo politico del potere centrale nella periferia.
Con la legge del 12 febbraio 1888 sul riordinamento dell'amministrazione centrale dello stato furono rafforzati i poteri dell'esecutivo rispetto al parlamento e quelli del presidente del consiglio all'interno del governo.
Con la riforma sanitaria del 22 dicembre 1888, al vecchio concetto della "carità legale" subentrò il moderno principio dell'interesse pubblico alla tutela della salute dei cittadini, anche se ciò fu realizzato nell'ambito di una concezione che vedeva l'attività di prevenzione e di intervento sanitario più come un'attività di polizia che non di assistenza.
Appartiene a questo periodo la riforma del codice penale (1889), rimasta legata al nome del ministro della giustizia Giuseppe Zanardelli.
Essa prevedeva tra l'altro: il tacito riconoscimento dello sciopero, che, non risultando menzionato dal nuovo testo legislativo, non poteva essere più considerato illegale e come tale vietato;
l'abolizione della pena di morte e la sua sostituzione con l'ergastolo per i reati più gravi: il che poneva l'Italia al primo posto tra le nazioni civili nella pratica attuazione di quanto Cesare Beccaria aveva sostenuto nel '700.
Non meno importante fu anche -quale prima concreta soddisfazione offerta alle aspirazioni e alle richieste dei partiti democratici- la nuova legge comunale e provinciale del 10 febbraio 1889. Essa estendeva l'accesso ai consigli comunali ai rappresentanti della minoranza fino ad allora esclusi in quanto tutti i posti in consiglio venivano riservati alla lista vincente, e istituiva la nomina del presidente delle Amministrazioni provinciali da parte non più del prefetto bensì dei consiglieri eletti; parimenti i sindaci dei comuni con più di 10.000 abitanti furono eletti dai Consigli Comunali e non più investiti da un Regio Decreto su designazione di un prefetto.
Il Testo Unico del 28 marzo 1895 determinando un sensibile aumento del numero degli elettori e dei deputati da eleggere, contribuì ad avvicinare le classi popolari alla vita pubblica e a favorire la nascita di formazioni politiche decisamente più democratiche rispetto a quelle del recente passato.
Inoltre al fine di dare una struttura più organica e accentrata allo stato, fu unificata la Corte di Cassazione; venne istituita una quarta sezione del Consiglio di Stato, con funzioni non semplicemente consultive come le prime tre, bensì giurisdizionali; fu organizzato il corpo delle guardie di Pubblica Sicurezza allo scopo evidente di consolidare l'esecutivo, la cui inefficienza ed incisività rispondeva pienamente a una concezione borghese dello stato, ampiamente diffusa tra i politici del tempo a qualunque gruppo appartenessero.
Crispi tentò anche un riavvicinamento tra Stato e Chiesa, che per la verità fallì miseramente.
Il problema era tornato allora di grande attualità per le tendenze "conciliaristiche" manifestatesi in seno alla comunità ecclesiale da parte di alcune personalità di primo piano nel mondo cattolico, quali l'arcivescovo il Milano Geremia Bonomelli e lo storico Luigi Tosti, abate di Montecassino.
Costoro, preoccupati per le continue manifestazioni di reciproca intolleranza fra mondo laico e mondo cattolico, avevano aderito al cosiddetto "partito della conciliazione", erede in un certo senso del neo-guelfismo risorgimentale, e nello stesso tempo avevano assunto una posizione critica nei riguardi del "non expedit".
La reazione dei cattolici intransigenti fu dura e ribadì il rifiuto dello stato liberale e di ogni contaminazione fra liberismo e cattolicesimo trovando autorevole espressione nell'"Osservatore Cattolico" e nel suo direttore Davide Albertario, il quale non indietreggiò neppure di fronte al Vaticano, allorché il nuovo papa, Leone XIII, giudicò le sue posizioni troppo radicali.
Il nuovo papa, infatti, già durante il periodo trascorso come vescovo a Perugia, aveva dato prova di una certa apertura nei riguardi di una possibile soluzione della "questione romana", forse anche perché memore della positiva esperienza vissuta come nunzio apostolico del Belgio, una nazione a regime liberale e pertanto aperta al progresso moderno, nella quale i cattolici partecipavano attivamente alla vita pubblica e dove tra mondo laico e mondo cattolico erano più le convergenze che le divergenze.
Leone XIII lasciò ai "conciliataristi" la possibilità di esprimere voti di pacificazione e di prendere iniziative che risolvessero quello che nel concistoro del 23 maggio 1887 egli aveva definito un "funesto dissidio", auspicando che potesse essere tolto di mezzo al più presto, purché fossero salvaguardate "la giustizia e la dignità della Sede Apostolica" e purché il Papa "non fosse soggetto alla potestà di alcuno e godesse di una piena e vera libertà come postulano i suoi diritti".
Fu appunto in tale circostanza che Luigi Tosti, incoraggiato dalla posizione assunta dal pontefice, procedette alla pubblicazione di un opuscolo, divenuto ben presto famoso, dal titolo "La Conciliazione", il cui testo, auspicante un rapido accordo tra il Vaticano (residenza del Papa) e il Quirinale (residenza del re d'Italia), era stato stesso da Tosti direttamente con Crispi, ugualmente desideroso di tentare il "miracolo della conciliazione" non riuscito né a Cavour, né ai suoi successori.
Tale aspirazione non si realizzò sia per l'intransigenza di alcuni ambienti ecclesiastici, fermamente decisi a richiedere il riconoscimento del potere temporale e la restituzione di Roma al suo "legittimo sovrano", sia per le pressioni esercitate sul papa da alcune potenze straniere prima tra esse la Francia.
Di fronte a tale atteggiamento, aggravato da una netta presa di posizione del Vaticano nei confronti dell'opuscolo di Tosti, Crispi si riarmò del suo antico anticlericalismo rendendo di nuovo particolarmente acuta la tensione fra Stato e Chiesa:
fu abolito, ad opera del ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli, l'insegnamento religioso nelle scuole primarie;
le istituzioni di beneficenza (le cosiddette "opere pie" già "Congregazioni di carità") furono sottratte alla sorveglianza delle autorità ecclesiastiche e vennero da allora in poi amministrate da autorità civili e poste sotto il diretto controllo dei prefetti;
fu istituita la punibilità per i ministri del culto che si fossero comportati in modo sleale e oltraggioso nei confronti dello Stato e dei suoi legittimi rappresentanti;
infine nel 1889 nel Campo dei Fiori a Roma fu eretto un monumento a Giordano Bruno, simbolo della inconciliabilità fra pensiero laico e pensiero religioso.
Sul piano della politica estera il principio informatore dell'azione di Crispi fu costituito dal permanente tentativo di rovesciare il segno decisamente difensivo della Triplice Alleanza in direzione offensiva, così da farne un utile strumento di sostegno all'espansione italiana nel Mediterraneo. In questa prospettiva egli scelse di appoggiare apertamente l'Austria nella "questione balcanica" anche a costo di inimicarsi definitivamente la Russia e abbandonò la politica perseguita nel passato dal ministro degli esteri Carlo Felice di Robilant, volta a favorire l'allentarsi delle tensioni.
Egli anzi tese ad esasperarle, accentuando anche i contrasti commerciali e politici con la Francia e puntando così a collocare l'Italia al centro di un sistema politico-militare mediterraneo di cruciale interesse per gli equilibri europei.
A sostegno di questa politica egli accentuò la repressione contro i movimenti irredentisti antiaustriaci, aprì le frontiere alla penetrazione del capitale tedesco, assunse pesanti oneri finanziari per far fronte ai crescenti impegni militari richiesti dagli alleati, pagando nel contempo un durissimo prezzo economico a causa della paralisi del commercio con la Francia (che il 27 ottobre 1888 decise l'applicazione delle tariffe di guerra contro l'Italia).
Crispi quindi, preoccupato di rialzare le sorti del conflitto etiopico, conclusosi con l'eccidio di Dogali, inviò rinforzi in Africa orientale, dando allo stesso tempo inizio ad un'azione diplomatica a vasto raggio, che si concluse con il Trattato di Uccialli (1889) stipulato con il negus Menelik asceso al trono nel 1889 dopo la morte di Giovanni Cassa.
In base ad esso erano definiti i limiti della zona che gli Italiani avrebbero occupato sulla costa del Mar Rosso e nel retroterra e veniva riconosciuto il protettorato dell'Italia su tutta l'Etiopia: subito dopo poteva essere proclamata la costituzione della colonia Eritrea (1890).
Quasi contemporaneamente Crispi si accordava con il sultano di Zanzinbar per l'acquisto di Benadir e con i sultani dell'Obbia e della Migiurtina per il riconoscimento del protettorato italiano sulla costa somala, dando così origine al primo nucleo della Somalia Italiana.
All'iniziativa che aveva offerto all'Italia la possibilità di registrare un notevole successo e di guadagnare una insperata posizione d'influenza e di prestigio in un territorio esteso dal Mar Rosso all'Oceano Indiano, corrispose un atteso contraccolpo: la Francia, proprio mentre erano in atto trattative economiche importanti e delicate per l'Italia, decise di interrompere ogni rapporto con la controparte, creando le premesse di quella "guerra delle tariffe" che, protrattasi dal 1888 al 1892, danneggiò gravemente il nostro Paese. Crispi, però, piuttosto che cedere alle pressioni francesi e giungere ad un compromesso manovrò in modo da ovviare gradatamente ai danni arrecati all'economia italiana, intensificando i rapporti economici e politici con la Germania ed opponendosi con successo -grazie all'appoggio delle altre potenze europee- al tentativo fatto dal governo di Parigi di trasformare in possedimento il protettorato sulla Tunisia.


ANTONIO DEPRETIS nacque a Mezzana nel 1813 e morì a Stradella nel 1887; uomo politico.
Dopo aver conseguito la laurea in legge a Pavia, si adoperò per organizzare il movimento liberale nella zona di Voghera.
Eletto nel 1848 al parlamento subalpino per la circoscrizione di Broni come esponente della sinistra democratica, nel 1859 fu nominato governatore di Brescia e nel 1860 pro-dittatore in Sicilia, ma poco dopo si dimise in seguito a contrasti con il
Crispi.
Unificata l’Italia fu ministro dei lavori pubblici nel governo Rattazzi (1862), della marina e quindi delle finanze con Ricasoli.
Messosi in luce come leader dell’opposizione di sinistra durante il ministero Minghetti, alla caduta di questo ebbe l’incarico di formare il nuovo governo (25 marzo 1876).
La politica del Depretis, che si muoveva cautamente sia nei confronti del Vaticano sia negli interventi sociali, fu osteggiata dalla DESTRA e dall’estrema Sinistra, per cui nel 1878 dovette dimettersi.
Nel dicembre dello stesso anno fu richiamato come presidente del Consiglio ma si dimise successivamente nel 1879; fu ministro degli Interni con Cairoli e nel 1881 fu ancora capo del governo.
In questi anni realizzò importanti iniziative tra cui l’adozione di una politica protezionistica per favorire le industrie dell’alta Italia. Fu accusato, a ragione, di favorire il diffondersi del TRASFORMISMO POLITICO.
L'avvento della SINISTRA al potere mostrò al paese tutto che il parlamentarismo stava mettendo radici.
Tecnicamente, in base allo statuto del 1848, non c'era alcun obbligo per i governi di considerarsi responsabili nei confronti delle Camere, ma il re riconobbe abilmente i vantaggi di un ampiamento della base della classe politica.
Egli assicurò privatamente i suoi amici che avrebbe continuato a tenere le redini del governo e che per tanto non avevano nulla da temere da Depretis al potere.
Nel gruppo degli uomini di governo furono inseriti alcuni dei radicali più famosi e rumorosi, come Nicotera e Francesco Crispi, e il Mezzogiorno ottenne una più larga rappresentanza nel nuovo ministero.
La maggior parte dei membri dei nuovo gabinetto non erano mai stati ministri prima d'allora e il sistema di ripartire le spoglie fra i vincitori condusse molta gente nuova a ricoprire uffici minori.
Con Agostino Depretis come presidente del consiglio c'era ben scarso pericolo che si dicesse che la sua parte politica fosse accusata di curare solo gli interessi dei suoi aderenti, in quanto egli cercò di promuovere, forse con eccessiva facilità, la fusione fra gruppi e interessi di ogni sorta. La Sinistra si rivelò ancora più della
DESTRA un partito politico privo di una composizione stabile e di una linea precisa.
La tattica politica di Depretis diede origine al fenomeno definito con il termine di "trasformismo". Esso si manifestò apertamente con l'accordo stipulato tra lo stesso Depretis e Marco Minghetti, alla vigilia delle elezioni dell'ottobre 1882, al fine di unire le forze contro l'estrema sinistra, ma esprimeva una più vasta tendenza spontanea "di molti candidati conservatori o moderati ad assumere l'etichetta governativa (quindi di sinistra moderata) sulla base di compromessi locali con le varie clientele elettorali da un lato e con i rappresentanti del governo centrale dall'altro".
Il trasformismo si basava su maggioranze sempre diverse e provvisorie, sui rapporti personali, su interessi ristretti e corporativi, sul "clientelismo" fenomeno diffuso soprattutto nelle regioni meridionali ma non esclusivamente meridionale (si ha clientelismo quando un partito o persone singole cercano appoggi, non sulla base di idee e di programmi, ma per mezzo di favori e di raccomandazione di vario genere).
In queste condizioni i governi non avevano programmi precisi, si ricomponevano di volta in volta con uomini della DESTRA o della Sinistra.
Così le differenze fra gli esponenti dei due gruppi, che non erano mai state rilevanti per quanto riguarda la loro origine sociale, lo divennero ancora meno in seguito alla politica di compromessi e di favoritismi grazie ai quali il governo di Depretis si garantiva l'appoggio dei deputati dell'opposizione, annullando i contrasti derivanti dalla diversità delle idee che esistevano, per esempio sulle riforme da fare o sulla politica estera.
Quindi nel "trasformismo" si manifestava il venir meno dell'antico contrasto di principi tra DESTRA e Sinistra storica di fronte all'emergere di nuovi comuni avversari, il socialismo e il movimento operaio.
Contrariamente all'Inghilterra e alla Francia in Italia non si realizzò un'alternanza di forze al potere, ma il blocco dominante finì per assorbire le forze politiche alla propria DESTRA fino a rimanere, su questo versante, privo di opposizione.
Gli unici che forse avrebbero potuto costituire una valida resistenza in parlamento erano i cattolici, i quali tuttavia, nella loro componente "intransigente", rispettavano rigorosamente il "non expedit" astenendosi al voto (mentre i cattolici "transigenti", conservatori e moderati, aderivano alla maggioranza governativa).
L'unica opposizione, costretta in gran parte per la limitatezza del suffragio a operare al di fuori del sistema politico, rimase quasi radical-socialista.


DESTRA>Con il termine di DESTRA STORICA si indica la classe dirigente dello STATO ITALIANO negli anni che vanno dal 1861 al 1876.
Alla DESTRA STORICA appartennero uomini che nel PARLAMENTO SUBALPINO stavano seduti al centro DESTRA ed avevano caldeggiato la LIBERALE E RIFORMATRICE DI CAVOUR e rappresentanti di altri stati italiani che avevano seguito con grandi aspettative le iniziative del Piemonte costituzionale seguendo con estremo favore l'attività politica del grande ministro nella soluzione dei problemi connessi all'unificazione nazionale.
Tra le figure emblematiche sono da menzionare i piemontesi Quintino Sella, G. Lanza, G. Ponza di S. Martino, i lombardi G. Casati, E. Visconti Venosta, S. Jacini; gli emiliani L. C. Farini e M. Minghetti, i toscani B. Ricasoli, U. Peruzzi e G. Cambray-Diguy, i meridionali R. Bonghi, S. Spaventa, G. Pisanelli, A. Scialoja.
Di formazione culturale diversa (dallo Spaventa neo-hegeliano al Sella nutrito di positivismo, dal Ricasoli ferreo sostenitore dell'unificazione e riformatore religioso al Minghetti più eclettico e duttile) ma con significativi elementi di convergenze sul piano sociale (grandi proprietari terrieri, artistocratici diventati borghesi imprenditori, esponenti del capitalismo finanziario, bancario e anche industriale, liberi professionisti e intellettuali), gli uomini della DESTRA STORICA furono caratterizzati da estrema fedeltà alla monarchia costituzionale giudicata garante di unità, indipendenza, ordine e libertà e notevole fede nella validità dell' idea liberale che volevano estendere a tutti i settori della vita sia individuale che pubblica.
Fiduciosi nell'azione dall'alto, affrontarono con senso del dovere i grandi problemi dell'UNIFICAZIONE sicuri di essere gli autentici interpreti dell'insegnamento di Cavour e, nella loro concezione elitaria, gli unici in grado di dirigere il nuovo stato.
Difesero perciò un suffragio elettorale assai ristretto.
Nell'opera volta a completare l'Unità, continuarono sulla direttrice di Cavour con la CONVENZIONE DI SETTEMBRE e con la LIBERAZIONE DEL VENETO (1866).
A Roma entrarono quando Napoleone III, battuto a Sedan, non si trovò più in grado di curare militarmente la difesa della città.
Di fronte all'esigenza dell'ORGANIZZAZIONE DELLO STATO, respinsero le tendenze iniziali della DESTRA STORICA volte a introdurre la libertà dell'amministrazione ed a finalizzare una politica di decentramento amministrativo per estendere alla Penisola tutta le LEGGI PIEMONTESI (processo di PIEMONTIZZAZIONE) ed a sancire quell' ACCENTRAMENTO BUROCRATICO (legge del 20-III-1865 ) giudicato indispensabile per unificare un paese caratterizzato da notevoli spaccature regionali e sociali.
Tale scelta politica fu ispirata dall'esigenza di salvare l'UNITA' in quanto tale senza riguardo alle AUTONOMIE LOCALI: ciò conferì duratura impronta alla fisionomia dello stato e condizionò lo sviluppo del modo di essere dell'intera nazione.
Gli UOMINI DELLA DESTRA STORICA si dimostrarono certi nella loro convinzione di costituire l'unica garanzia della tranquillità interna e dell'armonia tra le classi e curarono con rigore la difesa dell'ORDINE cioè della SICUREZZA DELLO STATO sviluppando un'energica politica di repressione nei confronti delle dottrine e delle organizzazioni potenzialmente sovversive sia di matrice democratico-repubblicana che cattolico- reazionaria.
In ciò è particolarmente da collocare la pesante repressione del GRANDE BRIGANTAGGIO nel periodo tra il 1861 ed il 1865.
Nell'intento di procurare all'Italia il credito e la stima delle nazioni civili che l'avevano vista venir su quasi miracolosamente, vollero mettere in ordine, a tutti i costi, anche le FINANZE, essendo questo l'indice piu sicuro della solidità di un regime.
Essi mirarono, soprattutto con la tenace azione del Sella, al raggiungimento del PAREGGIO DEL BILANCIO, praticando la scelta dell' ECONOMIA SINO ALL'OSSO e di conseguenza scaricando sul paese OMNIBUS di imposte parecchie delle quali colpirono pesantemente le classi meno forti costringendole a gravi sacrifici come quella del MACINATO (1868) ed inducendole, anche per conseguenza delle crisi agronomiche ottocentesche, alla frequente scelta dell'EMIGRAZIONE e quindi dei "CAMMINI DELLA SPERANZA".
Al risanamento del BILANCIO si contribuì da parte della DESTRA STORICA a provvedere anche con le leggi eversive dell' ASSE ECCLESIASTICO cioè con l'incameramento da parte dello STATO di molte proprietà e diversi beni anticampente di pertinenza della CHIESA. Conquistata Roma, con la LEGGE DELLE GUARENTIGIE (maggio 1871) gli UOMINI DELLA DESTRA cercarono di assicurare la piena indipendenza della sede pontificia nell'esercizio del suo ministero religioso e nelle relazioni con la cattolicità.
Da questa data iniziava un periodo nuovo che prevedeva anche un'apertura politica alla parte più moderata della sinistra parlamentare, come dimostrò il tentativo operato dai Minghetti di includere nel proprio ministero Agostino Depretis (giugno 1873).
Rimasero tuttavia predominanti gli obiettivi dell'ORDINE PUBBLICO e del PAREGGIO DI BILANCIO, il cui raggiungimento i moderati continuarono a ritenere premessa indispensabile per l ' avvio di un processo politico più aperto, perché, nei loro pensieri, tanto piu un governo vuol essere riformatore tanto piu è necessario che sia forte e mantenga inviolate le istituzioni.
La DESTRA STORICA proseguì quindi nella sua POLITICA DI REPRESSIONE, con soprattutto verso il nuovo sovversivismo sociale rappresentato dall'INTERNAZIONALE (cioè dall'ideologia dei movimenti si sinistra fra cui stavano predominando SOCIALISTI e MARXISTI) penetrata in Italia dopo i fatti della COMUNE DI PARIGI.
Il problema della scelta tra due esigenze parimenti importanti- rispetto della LIBERTA' COSTITUZIONALE e AZIONE REPRESSIVA- fu la sostanza della lotta esplosa a livello di opinione pubblica e nei dibattiti alla camera, intorno al progetto sui provvedimenti eccezionali per la PUBBLICA SICUREZZA in Sicilia. Questi ultimi furono proposti dal governo per vincere il SOVVERSIVISMO DEI MALFATTORI (mafia) ma riuscirono a passare solo radicalmente emendati e in pratica resi irriconoscibili e inefficaci (giugno 1875).
Si trattava in effetti di una questione dalle complesse implicazioni, ma il risultato fu il primo segnale dell'inadeguatezza della DESTRA STORICA di resistere all'assalto dell'opposizione che ormai non dava più tregua.
La DESTRA STORICA cadde poco dopo (marzo 1876) sulla questione del RISCATTO ED ESERCIZIO DELLE FERROVIE dal governo e in particolar modo da Spaventa, ministro dei lavori pubblici, il quale riteneva che vi fossero alcuni interessi nazionali - ferrovie, poste, telegrafi - cui esclusivamente lo stato è in grado di provvedere.
La MAGGIORANZA DI DESTRA fu abbandonata dal gruppo toscano (Peruzzi, Bastogi, Cambray-Digny) che fece di Firenze il centro dell'azione antigovernativa, deciso a combattere, al di là del progetto specifico, le tendenze illiberali di accentramento e di aumento delle ingerenze governative e di vincoli dell'azione individuale.
In effetti, il gruppo toscano, che godeva degli appoggi di valenti studiosi, come Francesco Ferrara, si richiamava al principi della SCUOLA ECONOMICA PURA ORTODOSSA e a CAVOUR, e dichiarava di voler combattere il socialismo, la <> e il <>. Il riscatto e l'esercizio delle ferrovie fu, in sostanza, un episodio dello scontro tra due scuole economiche.
La caduta della DESTRA STORICA, se non proprio una RIVOLUZIONE PARLAMENTARE fu sicuramente un momento importante di quel processo di mutamento e di transizione che, incominciato nei primi anni di Roma capitale, si concluse con l'incontro organico tra DESTRA E SINISTRA STORICHE, e cioè con il TRASFORMISMO, tenuto a battesimo, appunto, dal Minghetti e dal Depretis (1882-83).
V. F. CHABOD, Storia della politica estera italiana, Bari 1951.