cultura barocca
INFORMATIZZAZIONE DI B. DURANTE

La CHINA da cui si estrae il CHININO (Cinchona succirubra Pavon -Famiglia: Rubiaceae - detta Quina quina in Perù) è un albero alto fino a 20-30 metri con tronco eretto, non molto robusto, che raggiunge i 30 cm di diametro. La sua corteccia è rossobruna fortemente fessurata, i rametti sono spesso pubescenti. Le foglie hanno un picciolo medio, sono orbicolari o largamente ovali, la cui base varia da cordata a cuneata con il lembo che decorre lungo il picciolo.
L'apice è acuto, talvolta arrotondato. Il margine è intero, la superficie superiore è glabra e lucente, mentre quella inferiore è quasi sempre pubescente e presenta spesso dei ciuffi di peli più densi all'ascella delle nervature secondarie. 1 fiori, riuniti in pannocchie terminali molto grandi, sono portati da piccoli peduncoli e hanno un calice formato da cinque sepali tomentosi e lanceolati saldati tra di loro alla base. La corolla, rossa o rosata, è tubulare e si divide in cinque lobi. Il frutto è una capsula ovoidale, oblunga con striature longitudinali. A maturità si divide in due parti. Contiene numerosi semi che sono circondati da un'ala.
Originaria delle Ande peruviane, dell’Ecuador, della Colombia dove cresce fra i 1000 e i 2000 metri, con punte fino ai 3000 metri.
Dalla CORTECCIA AMARA dell' ALBERO DELLA CHINA si ricava la CHININA, una sostanza alcalina biancastra, tonica e febbrifuga da cui, a sua volta, si ricava il CHININO usato contro le febbri malariche già causa di TANTI DECESSI ANCHE NEL TERRITORIO DI VENTIMIGLIA.
Il nome del genere fu dato in onore della Contessa di Cinchon, moglie del viceré del Perù, che si riteneva essere stata guarita dalla malattia per opera della polvere di queste cortecce e che avesse fatto conoscere le virtù di questa polvere in Europa (1639), ove fu poi ulteriormente diffusa dai Gesuiti sotto il nome di polvere della Contessa o polvere dei Gesuiti.
Varie specie di "Cinchona" furono introdotte nell'Asia meridionale, specialmente in Indonesia: attualmente, a scopo antimalarico si usano soltanto i sali di chinina, mentre le foglie essiccate si usano quasi esclusivamente per le proprietà eupeptiche nella preparazione di liquori.
Il CHININO, a lungo penalizzato per l'alto costo economico e quindi privilegio dei ceti abbienti, divenne finalmente un prodotto di MONOPOLIO in molti Paesi d'Europa tra cui l'ITALIA, finalmente unita, ma la campagna per la sua diffusione come terapia e profilassi della malaria, per quanto avvalorata da un notevole pressione di MESSAGGI PROPAGANDISTICI non ebbe le stesse risultanze e tra le masse rurali del meridione si ebbe una RESISTENZA SORPRENDENTE.
La CHININA possiede comunque svariate altre proprietà medicamentose: è indicata nelle nevralgie reumatiche, per eliminare i catarri dallo stomaco.
Viene usata come tonico per i convalescenti. Usato anche a scopo preventivo da chi si deve recare in un paese in cui la malaria è endemica.
Stimolante, è utile contro l'inappetenza, la dispepsia e gli stati di anemia in genere.
Viene normalmente usata anche per scopi alimentari quale aromatizzante di amari, vermut.
Antonio Tagarelli in un suo saggio "on line" intitolato Resistenza dei ceti rurali alla chininizzazione scrive in merito queste pagine illuminanti:
"Nella maggior parte delle aree meridionali la campagna di diffusione del chinino, come terapia e profilassi della malaria, si mostrò fin dall'inizio più complessa che in altre zone d'Italia.
Sulla sua efficacia esercitarono un peso negativo motivi di ordine psicologico ai quali si sommarono spesso anche conflittualità di ordine sociale.
Il comportamento ostile dei ceti rurali alla diffusione del farmaco fu da molti attribuito ai pregiudizi, alla diffidenza, all'ignoranza; in realtà, sia l'ostilità manifestata nei confronti delle autorità sanitarie che il non riconoscere piena validità alle pratiche della medicina ufficiale, erano strettamente legate all'interpretazione che i contadini davano della malaria.
A differenza di altre epidemie che, pur manifestandosi periodicamente, riuscivano a far perdere traccia di sè nella memoria collettiva poichè tra una manifestazione e l'altra a volte trascorrevano molti anni, la presenza della malaria era stata ed era ancora costante nella vita di numerose popolazioni; si era, perciò, sviluppata quasi un'abitudine a questa forma febbrile che veniva sopportata come un male ineluttabile.
Se a tutto ciò si aggiunge l'ignoranza completa delle cause ed i pregiudizi popolari, si può ben capire quanto l'opera di redenzione dalla malattia sia stata lunga e difficile.
Combattere la malaria in Calabria significò, perciò, sradicare secolari abitudini e sconfiggerne l'alleato più forte e più pericoloso: l'ignoranza, intesa come una non conoscenza dei benefici che solo la medicina ufficiale poteva apportare con l'uso del chinino come cura e soprattutto come prevenzione.
Infatti, se fu relativamente facile far comprendere l'efficacia del farmaco nella cura della malaria, poichè gli effetti erano tangibili, fu molto più difficile far apprezzare l'uso del chinino come prevenzione verso la malattia.
Quello che mancò a tal proposito e per lungo tempo, fu un'adeguata educazione sanitaria rivolta a far apprendere i precetti per conservare la salute continuamente insidiata e minacciata dalla malaria.
Pertanto, nelle campagne fra medicina colta e medicina empirica, era spesso quest'ultima a prevalere perché più comprensibile in quanto frutto di un patrimonio culturale tramandato nei secoli da generazione in generazione.
Nessuna meraviglia, dunque, se al posto del chinino venivano preferite nauseabonde quanto inutili misture a causa della strana convinzione che, poichè la malattia era strettamente legata allo spazio ed al tempo della vita quotidiana contadina, in esse erano da ricercare i rimedi adatti a combatterla.
Per tale ragione spesso i medici impegnati nelle campagne di chinizzazione ebbero a rilevare che il parlar di chinino a quei villici è l'istesso che proporre una presa di veleno.
Il chinino veniva rifiutato perché ritenuto dannoso e capace di provocare disturbi che impedivano di lavorare. Infatti, a quegli inevitabili disturbi provocati dal farmaco erano anche da aggiungere non rare evenienze di anemia emolitica grave direttamente causata dal chinino in soggetti affetti da favismo.
Bastavano, dunque, poche di queste manifestazioni cliniche per creare, in una piccola comunità, paura e perciò rifiuto.
A queste resistenze di ordine non solo psicologico si sommavano, inoltre, diverse conflittualità di ordine sociale; fra tutte, un'aperta avversione per il personale sanitario al punto che si credeva di poter individuare nei medici e nei farmacisti i diffusori del contagio.
L'ostilità verso il personale sanitario era motivata, inoltre, dai rapporti che spesso si stabilivano tra i proprietari terrieri ed i sanitari o tra i "caporali" e quest'ultimi nell'opera di intervento antimalarico nelle campagne. Spesso, infatti, il medico impossibilitato a raggiungere i lavoratori stagionali residenti sui fondi si affidava ai proprietari o ai "caporali" per ricevere notizie sulle condizioni di salute della manodopera ed a essi, molto spesso, affidava anche la quantità di chinino da distribuire. I contadini, così, associavano la figura del medico a quelle categorie ad essi avverse.
Questa tendenza, d'altra parte, non era del tutto ingiustificata se si pensa a quanto limitato fu il contributo che i proprietari ed i capi di azienda portarono alla tutela igienica dei loro dipendenti, all'assistenza dei malati ed alla distribuzione del chinino, anche quando quest'ultima fu regolata da precise leggi di Stato.
Non mancarono, poi, manovre speculative ad opera degli stessi "caporali" i quali, per somministare il farmaco agli ammalati richiedevano forti somme e se i contadini, come spesso accadeva, non erano in grado di pagare erano costretti a vendere a bassissimo costo i piccoli beni che possedevano nei paesi di origine.
Gli stessi comuni, responsabili dell'adempimento della legge, non sempre svolgevano correttamente i loro compiti anche perché i consigli municipali spesso erano a maggioranza formati da quegli stessi proprietari che avrebbero dovuto sopportare l'onere finanziario legato all'applicazione delle norme.
All'ignavia ed alla resistenza economica dei proprietari e delle amministrazioni comunali si aggiungevano, poi, le campagne denigratorie condotte ad opera dei farmacisti restii ad essere defraudati del loro ruolo di manipolatori e venditori di una serie di lucrosi preparati paramedicinali.
Interessi ed appetiti poco consoni alla gravità del male non fecero altro che radicare ancora di più la resistenza culturale della popolazione rurale verso un farmaco che era e restava estraneo alla propria tradizione. Si legge, infatti, in una relazione della Croce Rossa: i contadini rifiutano di prendere il chinino perché si è sparsa la voce che il Governo faceva distribuire dalla Croce Rossa un misterioso veleno sotto forma di confetti. Non c'è da meravigliarsi, dunque, se in alcuni casi si registrarono anche sporadiche rivolte della popolazione rurale miranti ad ostacolare la circolazione del farmaco.
La resistenza alle nuove cure si protrasse, nella maggior parte delle località meridionali ad endemia malarica, per molto tempo e i contadini continuarono a credere nella fatalità di un fenomeno che condizionava quotidianamente la vita dell'intera popolazione".