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" Una delle cose più fini d'età imperiale è un piccolo ritratto del sec. II circa (Biblioteca Vaticana). Notevoli anche un telamone di Pompei e un rilievo discoidale con Apollo in trono, da Ercolano, al museo di Napoli, una statuina d'attore tragico, da Rieti, al Petit Palais di Parigi, con policromia ben conservata. Le placchette son quasi tutte mediocri: abbozzata vigorosamente quella del Vaticano con Giove e l'aquila, forse del sec. I. La produzione continuò anche nelle province e specialmente in Egitto.
L'arte dell'intaglio in a. prese grande sviluppo negli ultimi secoli dell'Impero romano, quando, con la decadenza della cultura classica e, di conseguenza, della grande statuaria che era stata una delle sue massime affermazioni, prevalsero nella plastica quegl'intenti pittorici evidenti specialmente nei rilievi usati a ornamento dei sarcofagi. A porre in atto questi intenti, per cui diveniva necessaria la continua variazione superficiale e il moltiplicarsi dei piani di rilievo così da dare più vivace contrasto tra le parti illuminate e quelle in ombra, mirabilmente si prestava l'a., adatto, per la sua minor durezza rispetto al marmo e per la possibilità di eleganti levigatezze, a ogni raffinata lavorazione. Questo spiega perché i maggiori capolavori plastici della tarda età imperiale si trovino appunto negli esemplari numerosi e notevolissimi d'intaglio in a., principale la serie dei dittici (v.), doppie tavolette unite con una cerniera, intagliate sulla faccia esterna, spalmate di cera per la scrittura nell'interna, che si usavano donare in occasione di qualche avvenimento, come l'entrata in carica di alti funzionarî, specialmente consoli, ai quali soltanto, in epoca posteriore, fu limitato l'uso dei dittici stessi.
La serie dei dittici consolari (v.), molti provenienti da Costantinopoli, che appartengono quasi tutti al sec. V-VI, ci mostra invece che nella capitale d'Oriente, come in altri centri, non si esaurisce il potere creativo, ma si costituisce, per l'armonica fusione delle molteplici tendenze che confluiscono da ogni parte del vastissimo Impero, uno stile originale improntato a principî d'idealizzazione.
Nell'immagine del console, astrattamente composto nella pompa delle insegne del grado e delle sue attribuzioni, seduto sul trono, spesso tra le due personificazioni di Roma e di Costantinopoli, in atto di dare il segnale degli spettacoli del Circo, figurati in alcune scene sul basso della tavola, mentre in alto sono per lo più il nome del personaggio e i ritratti imperiali, è già la grandiosità compositiva dell'arte bizantina, la sua non trita raffinatezza, la nobiltà degli schemi in cui essa tende a conchiudere le sue forme. E questo stile, evidente nei più belli fra i dittici (di Anastasio, di Areobindo, di Magno, per citarne soltanto alcuni tra i più noti), prosegue nell'a. (Firenze, Museo Nazionale) rappresentante un'imperatrice (v. Ariadne) forse da un dittico in cinque parti, notevole per lo sfarzo decorativo e per il robusto rilievo, e certo anteriore al sec. VII-VIII, a cui era stato riferito, mostrando la propria capacità di toccare alte vette, se ad esso, come è probabile, va riunito il dittico con tre personaggi variamente identificati (Monza, Duomo), in cui riaffiorano in nuova ed originale elaborazione le più ideali qualità della statuaria antica.
Oltre ai dittici, importanti per stabilire la cronologia di a. stilisticamente affini, portando in genere, oltre all'immagine del funzionario, una iscrizione col suo nome, possediamo oggetti varî appartenenti alla suppellettile dell'affermantesi culto cristiano, quali le pissidi, scatole cilindriche usate per riporvi le sacre specie o l'incenso, cofanetti per reliquie, e la grande cattedra vescovile detta di Massimiano a Ravenna.
La questione della provenienza e datazione di questo vasto materiale è delle più complesse, rientrando nella questione più generale dei rapporti artistici di allora tra Roma e l'Oriente, e non può dirsi affatto risolta, sebbene abbia ricevuto nuova luce da recenti studî. Mentre infatti si era creduto di poter localizzare fiorenti officine per la lavorazione dell'a. nelle principali città dell'Italia imperiale, cioè a Roma, Ravenna, Milano, Monza, la conoscenza sempre maggiore dell'arte dell'Impero d'Oriente ha permesso di riportare molti tra i più belli a. conservati ai principali centri di quella vastissima zona, dove, per le tradizioni ellenistiche ivi maggiormente persistenti, si elaborava quello stile pittorico caratteristico dell'arte paleocristiana.
Sebbene finora non si sia raggiunta nessuna certezza in merito a questi studi, appare molto verisimile il riferimento alla maggior città dell'Asia Anteriore, Antiochia, d'un capolavoro come la pisside di Berlino (Musei) col Sacrificio d'Abramo e i Santi Pietro, Paolo e Giovanni, del sec. IV o V, prima supposta lavoro romano, in cui la classicità è evidente nella derivazione iconografica delle varie figure e, più, nella loro nobiltà, nel modo con cui in esse si riflette, come sui sarcofagi contemporanei di eguale provenienza, il pieno possesso dell'essenzialità del tipo umano proprio dell'arte classica. E cosi è probabile l'origine siriaca di un'altra importante opera: la lipsanoteca di Brescia (Museo Cristiano), cofanetto per reliquie, ora ricomposto, con figurazioni dell'Antico e del Nuovo Testamento non dissimili per l'iconografia dai sarcofagi romani, ma ben superiori ad essi per il chiaro senso della composizione, ritmica nelle larghe pause tra le varie figure, per la raffinata compiutezza di ogni parte.
Tuttora in discussione è la provenienza dalle officine di Alessandria d'Egitto di un gruppo di opere, fra cui la cattedra di Massimiano (vescovo di Ravenna 546-553) ora nel palazzo vescovile di Ravenna, che presentano particolari caratteristiche di stile, costituito da un vigoroso substrato ellenistico e da influssi pittorici siriaci, originalmente interpretati in rapide abbreviazioni impressionistiche. Questo stile bene si vede nella grande cattedra, da taluni supposta ravennate, mirabile per la indissolubile unione architettonica delle varie parti, in cui le grandi figure di apostoli e i rilievi con le Storie di Giuseppe e del Cristo, di grande scioltezza compositiva e d'influsso palestinese nell'iconografia ispirata ai vangeli apocrifi, sono conchiusi in un tutto strettamente organico dal fine ricamo delle zone ornamentali. Tuttavia, se alessandrini sono i pezzi di stile più sciolto, data la loro disposizione nell'opera, non sembra che alessandrino dovesse essere l'artefice principale della cattedra.
Questi modi, evidenti anche in a. trovati in Alessandria stessa, si ritrovano nelle altre opere dello stesso gruppo (pissidi con Storie di S. Mena, a Londra nel British Museum, e con la Leggenda di Atteone, a. Firenze nel Museo Nazionale, ecc.): principale la grande valva di dittico ora al Louvre, conosciuta col nome di Avorio Barberini, del tipo più complesso, detto "in cinque parti" perché costituito da quattro tavolette laterali intorno a una centrale, usato specialmente nei dittici dedicati a un imperatore. Questa valva, mancante di una delle parti laterali, ha al centro la figurazione equestre supposta con scarso fondamento di Giustiniano o Costantino il Grande, più probabilmente di Anastasio, e in basso una caratteristica rappresentazione di personaggi orientali recanti doni varî, tra cui grandi denti d'elefante, ed è suo grande pregio l'aver evitato ogni fredda imitazione della statuaria monumentale per affermare una propria vivacità figurativa.
Ancora controversa, sebbene evidentemente orientale, è la provenienza di altre opere del sec. V o VI, come il dittico col Poeta e la Musa (Monza, Duomo: v. tavola a colori), di complesso senso pittorico nei panneggi e nel tentativo prospettico dell'architettura dello sfondo; lo splendido Arcangelo del British Museum, frammento di dittico in cinque parti, solenne immagine di maestà che richiama la potente idealizzazione dello stile che s'andava elaborando in Bisanzio; e, d'officine diverse, il cosiddetto dittico di Murano (una valva al museo di Ravenna, l'altra nella Biblioteca Rylands a Manchester), a soggetto cristiano, usato come copertina di libro sacro, e l'altro dittico con Storie di S. Paolo e con la figurazione di Adamo che dà i nomi agli animali (Firenze, Museo Nazionale), notevole per l'euritmia con cui gli animali stessi spartiscono lo spazio presso la figura nobilmente classica di Adamo.
Se però queste opere maggiori e le molte di minore importanza, ad esse affini, si sono potute, con qualche probabilità, riferire all'Oriente, altre sembrano non potere invece separarsi da Roma; primo il bellissimo dittico con le iscrizioni Symmachorum e Nichomachorum (una valva a Parigi, Museo di Cluny, l'altra a Londra, Victoria and Albert Museum) eseguito in occasione di qualche fausto avvenimento che unì le due famiglie, potenti in Roma nel sec. IV. Di derivazione classica quanto all'iconografia, esso si distingue per la spaziosità compositiva e la finezza d'esecuzione, concordando in queste qualità, oltre che con a. cristiani (le Marie al Sepolcro, Milano, Collez. Trivulzio; frammenti di cofanetto, Londra, British Museum, ecc.), con dittici di funzionarî romani; quello, ad es., bellissimo di Rufio Probiano (Berlino, Staatsbibliothek), prefetto di città in anno non ben precisato, quello di Anicio Probo del 406 (Aosta, Cattedrale), quello di Felice del 428 (Parigi, Cab. des Médailles), ecc. Questa circostanza e le rispondenze coi rilievi lignei della porta romana di Santa Sabina inducono a ritenere che questo gruppo di opere fosse eseguito in Roma nei secoli IV e V, ma da artisti orientali, probabilmente siriaci, la cui presenza non fa meraviglia in un grande centro di scambi culturali quale la capitale dell'Impero d'Occidente. Che però le tradizioni importate in Roma da queste officine decadessero durante il sec. V, lo mostrano i dittici romani copiosi in questo secolo; il primo di essi con data sicura, quello citato di Anicio Probo, con immagini dell'imperatore Onorio, ancora si unisce alla raffinatezza di quello dei Simmachi, come la valva del museo di Brescia con la scritta Lampadorium e rappresentazioni di corse nel circo; mentre gli ultimi, di Boezio del 507 (Brescia, Museo Cristiano) e di Basilio (Firenze, Museo Nazionale), appaiono invece profondamente decadenti nelle goffe proporzioni, nell'incerto rilievo, sebbene notevoli per la ricerca di dare individualità ai volti delle figure.
La tecnica di lavorazione non si può credere che sia mai stata diversa da quella moderna. I Romani usarono talvolta tingere l'avorio in rosso e forse in nero, se pure questo colore, riscontrato in qualche oggetto di scavo, non s'e prodotto sotterra per sostanze venute a contatto. La policromia delle figure fu d'uso generale in quasi tutte le arti antiche.
Per un gruppo importante di a. indiani, v. Afghanistan, Battriana, Begram.
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