Inf. di B. Durante

Verso la conclusione dell’anno 1648. Papa Innocenzo X nomina vescovo di Castro, piccola cittadina a pochi chilometri da Roma, CRISTOFORO GIARDA da Novara, barnabita. Il Duca di Parma Ranuccio Farnese, cui spetta la feudale potestà sul ducato di Castro, minaccia il Giarda, invitandolo a non presentarsi a Castro.
In quel periodo la Curia e la famiglia Farnese erano impegnati in una serrata lotta per il possesso del piccolo ducato laziale, una enclave indipendente alle porte di Roma.
Questa contesa si chiuderà il 19 aprile dell'anno successivo, con l'
entrata dell'esercito pontificio a Castro dopo un breve assedio e l'annessione del ducato allo Stato della Chiesa.
Ma un mese prima, il 19 marzo dello stesso anno, il vescovo Giarda aveva già pagato a caro prezzo il tentativo di entrare in "possesso" della propria cattedra episcopale.
Le notizie sul mortale attentato, il cui mandante nell'opinione generale ovviamente il Farnese affiancato dal suo segretario Jacopo Gaufrido, sono prese dal Compendio ed epilogo della vita e morte del monsig. Cristoforo Giarda, ultimo vescovo di Castro (da un Manoscritto conservato dalla famiglia Valvassori di Orvieto).
Forzato dunque dal comandamento di Innocenzo X, il lodato prelato la mattina finalmente del 18 marzo 1649 montando in lettiga col sopradetto Sig. canonico Bisanzone, giunto sulle 22 ore lontano da Monteroso da due tiri di archibugio, da quattro che erano in tutti, fu assalito da due uomini travestiti tutti da capo a piedi vestiti di tela sangalla negra, cavalcando due superbi cavalli, armati di un terzarolo ed una cherubina per uno e con alterate e brutte parole, fermando il lettighiere si posero un di qua e l’altro di là della lettiga a bandinelle alzate nella pubblica strada, e scaricarono solamente contro il mons. Vescovo Giarda due terzarole per uno nell’atto appunto che il buon prelato recitava col Sig. canonico Bisanzone l’offizio dei morti restando a morte ferito nel petto, nel braccio destro e nella coscia sinistra, a quali colpi, come depose il Sig. Bisanzone "Gesù" disse "o Dio misericordia, Signore, che favori, me autem judicasti dignum aliquid pati pro te. Io muoio volentieri per la santa Chiesa, e perdono volentieri a chi mi ha offeso, e fatto offendere"
Viterbo, 20 marzo 1649, processo agli uccisori di Mons. Vescovo Giarda, intentato da mons. Giulio Spinola, Governatore della città di Viterbo: "Il vescovo spedito dal papa, non volendo egli andare perché per lettere minacciato della vita, partì da Roma il Giovedi 18 marzo 1649 per andare sino ad Acquapendente, e poi a Castro, per prendere possesso, ed andava con lui in calesse, come amico, il canonico Gabriele Bisanzone Francese… Era stato fatto vescovo nel mese di giugno 1648 e tardò perché temeva per le minaccie fattegli con lettere, ma fu forzato dal papa ad andare… Giunto al ponte di Monteroso fu assalito, anzi poco prima di arrivare al detto ponte, mentre diceva in calesse l’uffizio dei morti col canonico francese…
Giambattista Pulcinelli vitturino abitante in Viterbo depone che prima di giungere al ponte di Monteroso comparvero due persone a cavallo mascherate, ed avevano in mano una terzarola per ciascheduno, ed avendo detto al vitturino, fermo lettighier B. F. si misero uno di qua e l’altro di là della lettiga, spararono le dette terzarole alla vita del detto vescovo, e poi ne spararono due altre; avendo uno di essi buttato una carta per terra, se ne partirono via per la strada di Ronciglione, e colpirono il vescovo con quattro colpi nella vita. Il detto vescovo fu condotto in Monteroso e medicato e la mattina seguente che fu venerdì ad ore 13 passò all’altra vita. I sicari vestiti con un sacco a guisa di Compagnia di tela sangalla nera con un cappuccio in capo e sopra portavano il cappello, ed il palandrano sopra la veste. Portavano anche una cherubina per uno attaccata alla sella, ma non la spararono. Questi uscirono da una macchiozza poco distante dalla strada".
"Carlo del quondam Angelo d'Amelia vittorino di Viterbo dopo alcune cose depone: era ferito in petto, in un braccio e in una coscia. Gli tirarono una pistonata in testa ma lo colpì nel cappello che gli. levò tutto il fondo. Il vescovo ferito diceva che moriva per il Papa. Vidi venire i Sicari per i campi di Nepi verso la lettiga".
"I due sicari furono il capitan Ranuccio Zambini da Gradoli e il capitan Domenico Cocchi da Valentano, che la mattina erano partiti da Roma dall'osteria della Croce Bianca; ma due o tre altri, tra quali un cognato del Cocchi, stavano già in Roma per esplorare la partenza del vescovo. Il Cocchi era castellano d'Ischia, e prima fu di Montalto. Don Eleonoro Lambertini da Latera, canonico capitolare di Valentano era in Roma con loro; con un fratello del Capitan Pazzaglia, in tutti numero sette. In Roma non avevano che la spada, avendo lasciate le pistole alla porta S. Pancrazio, che Pietro Fabri Fiorentino oste della Croce Bianca portò loro, come depone egli stesso, all'osteria della Croce di Monte Mario. Era in loro compagnia un certo Bartolomeo da Venezia, che andava avanti in dietro da Roma allo Stato di Castro.
Il Cocchi reo di delitto era prima fuggito a Farnese per non essere carcerato, ma dal duca di Parma ebbe la grazia. Il Zambini per essersi usurpato una somma di denaro del duca, col sequestro di tutto il grano, fu carcerato in Valentano, e dall'Auditore Pavoni condannato a morte, ma ancor egli ebbe la grazia dal duca ottenutagli da D. Leonoro Lambertini da Latera, che andò a Parma per lui, e poi andarono insieme a Roma; del Cocchi e Zambini fu fatto in Gradoli il processo per i monopoli di grano, ed usurpazioni delle entrate, quando il Zambini. era esattore generale dello Stato".
"Furono con bando pubblico promessi tremila scudi per ordine del papa a chi avesse dato in mano della Corte almeno uno dei delinquenti. Fu fatto il processo, ma non costa che i rei nominativi di sopra fossero puniti, perché fuggiti e protetti dal duca di Parma, il quale pretendeva di nominare il vescovo di Castro e non voleya che vi andasse l'eletto del papa (...) fu voce comune che fosse ucciso per ordine del duca, e tutti convengono che questo sacrilegio, per cui furono scomunicati i sicari, che ancor s'ignoravano, i scienti e complici in qualunque modo, fosse la rovina di casa Farnese, la causa della distruzione di Castro, della perdita dei due Stati, e poi della estinzione della Famiglia".
"I di lui principali uccisori furono Ranuccio Zambini e Giandomenico Cocchi, contro i quali Innocenzo X P. P. fulminò la scomunica colla taglia di quattro mila cinquecento scudi; ma morto il Cocchi di là a pochi mesi a Sorano, il Zambini il 27 gennaro 1650 capitato sotto la giustizia fu giustiziato per degni rispetti finalmente in Castello".

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L'accusa di nepotismo mossa a Paolo III fu, senza dubbio, quella che incise maggiormente sul giudizio dei suoi contemporanei e questo, lo si è visto, perché il Farnese concesse privilegi e prebende ai suoi discendenti, conferendo loro, nel 1537, addirittura una grossa fetta dello Stato della Chiesa, con l'istituzione del Ducato di Castro e della Contea di Ronciglione. Un territorio, questo, vasto e fertile tanto da essere chiamato il "granaio di Roma", era di una notevole importanza politica e strategica. Basti pensare che le due principali arterie di collegamento da e per Roma (la Cassia nell'attraversamento di Ronciglione e l'Aurelia nell'attraversamento di Montalto) erano soggette al controllo dell'amministrazione Farnese. Si può così comprendere come i Farnese, specialmente dopo la scomparsa del "loro" pontefice, fossero particolarmente invisi a molte casate nobiliari italiane, anche per aver ottenuto l'altro importante ducato di Parma e Piacenza e come a Roma mal si digerisse uno stato autonomo all'interno dello stesso Stato ecclesiastico, come in fondo era il ducato castrense una vera e propria spina nel fianco del papato. Ogni pretesto era buono per contrastare i Farnese, tra l'altro ormai quasi stabilmente trasferitisi nella più gratificante sede del ducato parmense. Si ripercorrono brevemente, attraverso l'indicazione dei Duchi succedutisi a Castro, i poco più di cento anni di vita del possesso farnesiano dopo Pier Luigi (1537-1545), anche perché degli stessi si parlerà più diffusamente nell' illustrazione delle vicende parmensi.
1545-1547: Ottavio, figlio di Pier Luigi, sposo di Margherita d'Austria, figlia naturale di Carlo V. Duca di Parma alla morte del padre.
1547-1553: Orazio fratello di Ottavio, sposo di Diana di Francia, figlia li Enrico II
1553-1586: ancora Ottavio, essendo morto Orazio senza prole. Sotto di lui vennero emanati gli Statuti ducali.
1586-1592 Alessandro, figlio di Ottavio, sposo di Maria di Braganza del Portogallo. E' capitano nella battaglia di Lepanto e Governatore dei Paesi Bassi.
1592-1622: Ranuccio, figlio di Alessandro. Sposo di Margherita Aldobrandini. E' contemporaneamente Duca di Parma e Piacenza. Durante il trentennio del suo dominio non degnò Castro neppure con una breve visita.
1622-1646: Odoardo, figlio di Ranuccio, sposo di Margherita de' Medici, sorella del Duca Ferdinando II. Si scontrò con Urbano VIII e i Barberini nella "prima Guerra di Castro" conclusasi con la pace di Venezia del 1644.
1646-1649: Ranuccio, figlio di Odoardo succede al padre appena sedicenne. Sarà lui l'ultimo duca di Castro.
3 dicembre. Fu dato avviso dallo Spinola a Nostro Signore (Innocenzo X) della compita demolizione di Castro.
Con queste due righe sibilline un anonimo cronista del 1649 chiudeva il Giornale dell'assedio e successiva presa e demolizione di Castro dopo aver annotato, giorno dopo giorno, le fasi e gli avvenimenti legati alla fine della città capitale del Ducato. Mons. Giulio Spinola, Governatore di Viterbo e Rettore del Patrimonio di S.Pietro in Tuscia, aveva ricevuto da Innocenzo X Pamphili un ordine poco gradevole: quello di muovere guerra a Castro, con l'esercito pontificio posto sotto il Comando di Davide Vidman, di assediare la città e di raderla al suolo. Il pretesto finale per questa decisione era nato il precedente 18 marzo allorché, lungo la strada Cassia, nei paesi di Monterosi, due sicari (poi conosciuti come Domenico Cocchi di Valentano e Ranuccio Zambrini di Gradoli) avevano assaltato la lettiga con cui il padre Barnabita Cristoforo Giarda -nominato vescovo di Castro contro il volere farnesiano- si stava recando a prendere possesso della diocesi assegnatagli. Il vescovo, ferito dai colpi di due terzarole, morì il giorno seguente e la sconvolgente notizia aveva messo a rumore il Vaticano. Innocenzo X, dopo aver emesso la scomunica contro mandanti ed esecutori dell'efferato delitto, individuò nella persona di Ranuccio Farnese il responsabile dell'attentato. L'occupazione dello Stato di Castro fu il primo provvedimento adottato. Era questa la tanto ricercata occasione per togliere ai Farnese quel Ducato che aveva creato, con la Chiesa di Roma, non pochi problemi di vicinato anche perché i Farnese, con l'arroganza dei potenti che non pagano mai direttamente le proprie colpe, non s'erano fatti certo scrupolo di abbandonare il Ducato di Castro e ritirarsi nella lontana e più sicura residenza di Parma, utilizzando anzi le rendite delle terre laziali per garantire gli enormi prestiti contratti con la creazione di cosiddetti "Monti Farnesiani" che all'epoca di Urbano VIII Barberini, 1641-1644, avevano causato la "prima guerra di Castro" proprio per il mancato pagamento delle rate dei debiti da parte farnesiana. Il triste epilogo di Castro ancora oggi è un fatto incomprensibile. Come potevano pagare cittadini innocenti le colpe dei Farnese? Sul comportamento di questi si possono avanzare molte riserve e gli storici non sono stati certo benevoli nei loro confronti, ma non meno discutibile appare l'intervento di Innocenzo X che, tra l'altro, in pieno disprezzo dei patti di resa sottoscritti il 2 settembre 1649 fra Sansone Asinelli, comandante il presidio di Castro, e il comandante Davide Vidman, di parte pontificia, disponeva non solo per la prevista demolizione delle fortificazioni della città ducale, ma addirittura dell'intero abitato, senza risparmiare nemmeno le numerose chiese, i conventi e i monasteri.
Molte delle responsabilità di questo tragico "finale" sono attribuite a Donna Olimpia Maidalchini, cognata di Innocenzo X, da molti ritenuta, forse non a torto, la vera ispiratrice della grave decisione pontificia: la potentissima dama aveva infatti in odio Ranuccio II per aver questi concorso a dare in moglie a suo figlio Camillo Pamphli la principessa di Rossano per un matrimonio cui lei si era sempre opposta.
Colei che venne conosciuta anche come la "Pimpaccia di Piazza Navona" e definita "Cardinal Padrone", trovò in Pasquino il pane per i suoi denti: "Chi dice donna dice danno, / Chi dice femina dice malanno, / Chi dice Olimpia Maidalchina / Dice danno, malanno, peste e ruina".
Vuole la tradizione che sulle rovine di Castro fosse sparso del sale e innalzata una colonna infamante con su scritto: "Qui fu Castro".
Con la città di Maremma scomparivano da queste terre anche i Farnese benché dalla lontana Parma continuassero ad avanzare continue, quanto inutili, pretese di ritornare in possesso delle terre ducali.