cultura barocca
Riproduzione ed informatizzazione di Bartolomeo Ezio Durante La PASSIONE DI CRISTO [CLICCANDO QUI VEDI L'ICONOGRAFIA E LEGGI IL TESTO ANTIQUARIO = NELL'IMMAGINE SI PROPONE UNA CROCIFISSIONE SU PALO SEMPLICE -CRUX SIMPLEX CARATTERIZZATA DA SOLO STIPES O PALO VERTICALE GIA' INFISSO A TERRA (MENTRE IL CRISTO FU CROCIFISSO SUL PALO CRUCIFORME, TRASCINANDOSI SUL LUOGO DEL SUPPLIZIO IL PATIBULUM O PALO ORIZZONTALE IN LOCO COLLEGATO ALLO STIPES O PALO VERTICALE)] dall'opera di NICOLO' MANERBI [1422-1481] (volgarmente detto Manerbio) autore di una "volgarizzazione" a stampa ovvero il qui INTEGRALMENTE DIGITALIZZATO Leggendario delle vite de' santi. Composto dal R.P.F. Giacobo di Voragine, ... tradotto già per il R.D. Nicolo Manerbio. Nuouamente ridotto a miglior lingua, riformato, purgato da molte cose souerchie, arricchito de' sommarij, di vaghe figure ornato, e ristampato. Con l'aggiunta di calendario, lunario, & feste mobili ..., In Venetia : appresso Alessandro Griffio, 1584 - [16] , 726, [2] p. : ill. ; 4°. - Impronta: e.o- e.e. o.te stpe (3) 1584 (R) - Lingua: Italiano - Paese: Italia - Marca: Fama (donna alata con un piede sul globo e due trombe, una in bocca e una nella mano sinistra) con Motto: Famam extendere factis est virtutis opus). JACOPO DA VARAZZE (Varazze 1228 - 1298 ) chiamato anche Jacopo o Giacomo da Varagine fu un frate domenicano scrittore in latino di leggende e cronache . Entrò nell'ordine nel 1244 e nel 1265 diventò priore del proprio convento: due anni dopo fu nominatore provinciale per la Lombardia. Dal 1292 fu vescovo di Genova fino al 1298 anno della sua morte . La sua fama si deve ad una raccolta di vite di santi , scritta tra il 1255 e il 1266 dal titolo LEGENDA AUREA (Legenda sanctorum). L'opera, che fu scritta in latino ma in seguito diffusa in versione volgarizzata esercitò grande influenza sulla successiva letteratura religiosa e svolse il ruolo di basilare fonte iconografica per numerosi artisti. Sempre in latino compilò una Cronaca genovese (Chronicon lanuense) che tratta della storia di Genova dalle origini al 1297 e in volgare scrisse Sermoni moraleggianti. Aprosio ne ebbe una conoscenza approfondita attesa la presenza, tuttora, tra gli incunaboli della biblioteca ventimigliese di quattro opere di J. da Varagine fra cui appunto la "LEGENDA AUREA".

" La CROCIFISSIONE (cui Cristo a GERUSALEMME venne sottoposto sul CALVARIO) era, al tempo dei romani, una modalità di esecuzione della pena capitale e una tortura terribile. La pena della crocifissione era tanto atroce e umiliante che non poteva essere comminata a un cittadino romano. Era applicata agli schiavi e agli stranieri. Normalmente la crocifissione era preceduta dalla flagellazione.
La croce consisteva di due pali, uno verticale e l'altro orizzontale: ma il tutto poteva variare anche con la crocifissione ad un SEMPLICE PALO ( come nell'immagine sopra proposta da: Justus Lipsius, Crux Simplex, 1629) .
Normalmente sul luogo delle crocifissioni c'era già, saldamente piantato per terra, il palo verticale (lo stipes). Il condannato si avviava al luogo dell'esecuzione portando sulle sue spalle il palo orizzontale, detto in latino patibulum (da qui la parola italiana "patibolo"), al quale sarebbe stato confisso. Il patibulum aveva normalmente a metà un foro con cui veniva infisso sullo stipes. Vi sono testimonianze che indicano come a volte venisse usato come patibulum la spranga della porta. Pare che il patibulum fosse legato alle braccia del condannato, e in questo modo (se cadeva durante il tragitto) avrebbe urtato il suolo con la faccia.
Per inchiodare gli arti superiori, i carnefici sapevano bene che conficcando il chiodo nel palmo della mano, il peso del corpo avrebbe immediatamente lacerato la mano stessa. Perciò il chiodo veniva posto in un punto del polso dove la struttura articolare riesce ad esercitare lo sforzo di sostenere il peso del condannato.
L'agonia del condannato era abbastanza lenta, potendo durare ore o anche molti giorni.
Non tutti sono unanimi sulle cause della morte: sopravveniva per per collasso cardiocircolatorio (dovuto anche all'ipovolemia causata dalla perdita di sangue e di liquidi) o asfissia. Infatti, per respirare, il condannato doveva fare leva sulle gambe; quando, per la stanchezza, o per il freddo, o per il dissanguamento, il condannato non poteva più reggersi sulle gambe, rimaneva penzoloni sulle braccia, con conseguente difficoltà per respirare oppure tutti questi movimenti dolorosissimi portavano al cedimento del cuore.
I carnefici lo sapevano, e quando dovevano accelerare la morte rompevano con un bastone le gambe del condannato, in maniera che il soffocamento arrivasse in breve.
Presso le civiltà antiche la crocifissione era molto diffusa. Il primo documento che vi fa riferimento si trova nella letteratura sumerica. A Roma questo supplizio appare attorno al 200 a.C. e si distingue per l’atrocità e il vilipendio che vi è associato; i Romani punivano con quest’esecuzione il brigantaggio e la ribellione degli schiavi.
La crocifissione era relativamente frequente, ma le testimonianze iconografiche e i reperti archeologici sono scarsi. Data l’estensione dell’Impero, le applicazioni potevano variare da zona a zona e in relazione al delitto, al personaggio, all’ammonimento che si voleva dare.
Il giudice, riconosciuta la colpevolezza e pronunciata la condanna sia messo in croce, dettava il titulus, cioè la motivazione della sentenza, e indicava le modalità d’esecuzione, compiuta poi dai carnefici, o, nelle province, dai soldati.
Il condannato, dinanzi al magistrato, veniva prima sottoposto ad una flagellazione affidata ai tortores, che operavano in coppia. Denudato e legato ad un palo o ad una colonna, veniva colpito con strumenti diversi a seconda della condizione sociale. Per gli schiavi e i provinciali c’era il flagrum o flagellum, formato da due o tre strisce di cuoio o corda (lora) intrecciate con schegge di legno oppure ossicini di pecora che provocavano serie lacerazioni ed abbondanti versamenti di sangue.
La flagellazione poteva essere una punizione esemplare fine a sé stessa, seguita dalla liberazione, oppure una condanna mortale: in questo caso produceva lacerazioni così profonde da mettere allo scoperto le ossa. Se veniva inflitta come preambolo alla crocifissione, il numero di colpi doveva essere limitato ad una ventina perché la vittima non doveva morire prima di finire in croce.
Il condannato veniva poi rivestito e condotto al supplizio. Il titulus, appesogli al collo o portato da un banditore, aveva la funzione d’informare i passanti sulle sue generalità, sul delitto e sulla sentenza. I responsabili d’efferati delitti erano caricati del patibulum (probabilmente legati). Se i malcapitati erano più di uno, venivano legati tra loro con una lunga corda che poteva passare intorno al collo, ai piedi o ad un’estremità del patibulum.
Sul luogo dell’esecuzione, situato sempre fuori dalle mura cittadine, erano spesso già piantati i pali verticali, gli stipes, su cui fissare i patibulum. La crux patibulata o crux compacta risultava a forma di T, il tau greco.
Il cruciario veniva spogliato e i suoi vestiti diventavano proprietà dei carnefici, quale prezzo della loro prestazione; Probabilmente il crocefisso era nudo. E' possibile ritenere l'aggiunta dello straccio nelle rappresentazioni dei crocifissi come una consuetudine di origine cristiana per le immagini sacre. Altre fonti riferiscono come le donne, spesso, venissero crocifisse con il viso rivolto verso il legno: in questo modo le parti più "oscene" erano coperte ed inoltre, non potendo piegare le ginocchia, morivano più rapidamente, soffrendo meno.
Veniva poi appeso alla croce per le braccia con chiodi, anelli di ferro o corde, come pure i piedi, che talvolta però venivano lasciati liberi.
Con la crocifissione si voleva provocare una morte lenta, dolorosa e terrificante, esemplare per chi ne era testimone: per stillicidia emittere animam, lasciare la vita goccia a goccia. Origene scrive: Vivono con sommo spasimo talora l’intera notte e ancora l’intero giorno. Per questo si adottava una serie d’accorgimenti che ritardavano la morte anche per giorni: per esempio un sedile o un corno, posto nel centro del palo verticale.
Lungo il cammino essi subivano strattoni e venivano oltraggiati, maltrattati, pungolati e feriti per indebolirne la resistenza. Bevande drogate (mirra e vino) e la posca (miscela d’acqua e aceto) servivano a dissetare, tamponare emorragie, far riprendere i sensi, resistere alla sofferenza, mantenere sveglio il crocifisso perché confessasse le sue colpe.
Raramente la morte veniva accelerata; se ciò accadeva era per motivi d’ordine pubblico, per interventi d’amici del condannato, per usanze locali. Si provocava la morte in due modi: col colpo di lancia al cuore o col crurifragium, cioè la rottura delle gambe, che privava il condannato d’ogni punto d’appoggio con conseguente soffocamento per l'iperestensione della cassa toracica (non è possibile espirare completamente e viene meno quindi l'apporto di aria ossigenata all'organismo).
La vigilanza presso la croce era severa per impedire interventi di parenti o amici; l’incarico di sorveglianza era affidato ai soldati e durava sino alla consegna del cadavere o alla sua decomposizione.
In Occidente, all’inizio del IV sec., l’Imperatore Costantino il Grande vietò ai tribunali pubblici di condannare alla crocifissione. Ma questa pratica durò molto più a lungo in Oriente (presso i turchi invasori dell'Occidente nel XVI secolo si praticava abitualmente l'impalatura pratica che in ambito cristiano, in tale epoca, sembra esser stata esercitata solo dal CONTE VLAD) e in altri Paesi: peraltro esistono resoconti su crocefissioni ancora nell '800 praticate in Medio Oriente ".
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