cultura barocca
Da Ventimiglia Romana Visualizza ingrandita la Lapide di Maia Paterna (III sec.) realizzata sul retro di questa iscrizione del I secolo

Gli Scavi archeologici hanno evidenziato molte notizie sugli abitanti di Ventimiglia Romana (Albintimilium) ma come accade vi son cose che più di altre attirano, chi per un verso e chi per un altro: io rimasi colpito da una lapide molto semplice (qui proposta) dedicata a Maia Paterna, una fanciulla morta a soli 11 anni al punto che nell'occasione di un esperimento di interazione tra scultura e letteratura nel contesto di una mostra di E. Lentini presso l'Ist. di Studi Lig. di Bordighera a corredo di un'opera d'arte che sentivo prossima alla storia di questa fanciulla proposi (in modo arbitrario certo) la lunga iscrizione che i genitori avrebbe forse voluto per la figlioletta -se fossero stati ricchi- in luogo della breve iscrizione su una lapide riutilizzata. Attraverso i secoli possono persistere indefinibili legami suggeriti da emozioni che l'esperienza archeologica e museale può sublimare: ed io nel corso della mia vita pur di ricercatore e di docente -anche per il fatto di risiedere a lungo al terminale di Via Gradisca prossima agli Scavi Archeologici di Nervia (v. a fondo pag.) - ho sempre provato sentimenti vari, di compassione, pietà e può sembrare strano di affetto, per questa fanciulla morta troppo presto quasi 2000 anni fa (da ragazzo ne parlavo coi miei genitori nel contesto di un rapporto profondo ed invidiabile in cui si affrontavano tutti i temi, soprattutto quelli della consonanza degli individui di fronte ai destini terreni a prescindere da spazio, tempo, ceto oltre che censo e persino religioni di appartenenza): con il tempo non ha ella smesso di visitare i miei pensieri e talora i miei sogni sì che, rielaborandone poeticamente uno molto vivo, scrissi queste righe "poetiche" che, banalmente, intitolai come qui si legge e sfruttando il titolo d'una bella canzone di Ron che, meno supponente della lirica qui proposta, ipotizzava (in un contesto peraltro diverso) un reincontro a distanza di "cento anni"
"INCONTRARSI DOPO DUEMILA ANNI"

Sono vestito come uso,
senza eleganza o affettazione,
uno fra tanti: uno degli
spettatori, che s'agitano sotto il sole,
e reclamano le donne di Gades,
quelle che accendono il sangue anche ai vecchi.
Sto diventando vecchio? anch'io son lì,
per scaldarmi nell'illusione d'un sogno
proibito? per prendere il garum e un sorso
di finto Falerno venduto al banco
del decumano, proprio oltre l'accesso?
Vorrei svegliarmi ma non posso,
non so più qual sia la realtà!
Il lustro dell'Impero che celebra se stesso
o questo grigiore di insegnante in pensione?
Suonano trombette di giunchi,
e crotali più o meno originali:
una bestemmia d'un latino che non fu
né di Virgilio né di Marziale desta
alla fine il silenzio, di colpo nulla s'ode più...
Anche le donne di Gades con le nacchere
e le vesti discinte, che mostrano seni
ora vigorosi ora presto appassiti,
per l'età se non per vietati abusi,
mi guardano: tutti mi guardano ora!
Abbasso gli occhi sul pulvino, oltre
il marmo finto ma di pietra nobile.
E vedo le scarpe, un po' trasandate,
i pantaloni puliti, sbircio sul cadere
della giacca, oramai fuori moda.
Nessuno porta abiti come i miei;
fra strascischi di porpore e zaffiri,
toghe e tuniche paiono adesso intrecciarsi.

E' un incubo, lo so, del sonno che
mai giunge e se giunge m'inganna!
Ma non mi sveglio, non balzo madido
nel letto: anche questo dono mi è proibito
da Morfeo, il Dio che mi scagliò la guerra.
Di colpo sento caldo dentro la mano,
la mano che sta rattrappendosi:
un'altra più piccola è entrata nell'incavo,
e cerca di scaldarmi o di darmi coraggio:
così credo, anzi spero o voglio sperare!
Non oso voltarmi, ma la voce di bambina
mi attira, mi blandisce, e m'afferra in fine
il cuore e il petto che però non esplodono.
Maia mi guarda, con gli occhi azzurri
dei suoi undici anni: la madre e il padre
nemmeno mi vedono più, come gli altri,
come le donne di Gades che sento cantare!
"E' tutto così veloce, vero?" dolce è il latino
sulla labbra di Maia, come il miele.....
"Tu mi vedesti un giorno, oltre la lastra,
fredda di marmo: sentivo il tuo dolore
di ragazzo, per lo stame breve della mia vita...
Ed ho pianto ma di breve gioia, sappilo
per il sorriso con cui mi lasciasti,
e per la carezza fatta sul mio nome...
Io guardo ora te...ci siamo incontrati,
e ti ringrazio della compagnia lieve
che mi fece il tuo cuore addolorato!".
Mi stringe forte la mano e sorride,
ma sento che è triste...d'una dolce tristezza...
Tempus fugit sospira ancora
prima di svanire con ogni cosa,
tutto intorno ....
Sono seduto sul letto....sveglio!
Ogni cosa della vita è così breve
...come un saluto, tra la folla,
come in un teatro di fantasmi.
La vita di Maia, la mia, quella
che tutti vorrebbero invece godere in eterno!
Ma è godere? così! sull'orlo dei dubbi?
e di domande che, da mai, trovano risposta?
Non lo so .... ma forse sì, se con un
sorriso, anche dentro un sogno,
se con una parola, magari in un libro
o graffiata su una pietra,
si è resa migliore la vita degli altri,
anche se son molto lontani da noi ....

Lo so che qualche pomposo e serioso collega, certo più rigoroso di me, dirà "la scienza e scienza: mettiamo da parte i sentimenti" = fermo restando il fatto che, per quanto queste indagini sian scientifiche penso che umanissima debba anzi in fondo solo possa, per intrinseca postazione anche filosofica, esser la lettura di frasi che si suppongono dettate dall'amore (anche se frasi concise come nella lapide reale di Maia Paterna) che, oggi come ieri, è fatto solo umano e non misurabile da alcuna supposta investigazione scientifica. E comunque credo che non sia sbagliato accedere anche emotivamente ai prodotti del passato sì da leggervi in essi non solo i parametri di catalogazione (importantissimi sempre) quanto, cosa di pari se non superiore rilievo, leggervi anche il messaggio che attraverso il tempo uomini e donne dimenticati hanno avuto la sorte di riuscere a tramandare. Se non altro per sentirsi tutti uguali nella condizione umana, come diceva l'antico Terenzio, e non trasformare in semplici reperti le grida di dolore od anche i graffiti d'amore che la grande tradizione epigrafica romana ci ha tramandato.


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