rip.-inf. Durante

NELLO SCHEMA DIDATTICO RECUPERATO DAL NUOVO CAMPANINI - CARBONI, VOCABOLARIO LATINO ITALIANO / ITALIANO LATINO, PARAVIA EDITORE, TORINO, 1993 SI POSSONO VEDERE I TIPI FONDAMENTALI DELL'ABBIGLIAMENTO ROMANO. QUI DI SEGUITO, CLICCANDO SULLE VOCI, SI POSSONO QUINDI VEDERE: 1 -ANTICHE RICOSTRUZIONI - 2-ABBIGLIAMENTO MASCHILE - 3-ABBIGLIAMENTO FEMMINILE - 4-TIPI DI COPRICAPO - 5-ACCONCIATURE DEI CAPELLI (BARBA)










Presso i Romani gli abiti più in uso si riducevano a tre; la varietà era nel colore, nella stoffa, negli ornamenti.
Erano abiti maschili la tunica ( tunica ), la toga ( toga ), il mantello ( laena, lacerna ); femminili la tunica, la stola ( stola ), la sopravveste ( ricinium, palla ).
La tunica era un abito di lana, stretto alla vita da una cintura; consisteva in due pezzi di stoffa cuciti insieme in modo che quello davanti arrivasse sin sotto i ginocchi e quello dietro ai polpacci.
Verso il III secolo d.C., quando si diffuse l'uso dei pantaloni lunghi e aderenti alla gamba, divennero comuni anche le tuniche con le maniche lunghe che anteriormente passavano per stranezze di effemminati.
Generalmente la tunica era ornata da una striscia di porpora ( clavus ), la quale serviva anche per indicare l'appartenenza ad un determinato ordine: la tunica dei senatori, infatti, aveva una larga striscia ( latus clavus o laticlavium ), quella dei cavalieri una striscia più stretta ( angustus clavus ).
Durante la celebrazione del trionfo i comandanti vittoriosi indossavano una tunica riccamente ornata di ricami in forma di palma ( tunica palmata ).
Di tutte le tuniche di uso comune il tipo più ricco era la Delmatica , venuta di moda solo in età più tarda; questa poteva essere anche di lino o di seta e molti nell'intimità della loro casa il Romano stavano in tunica.
Se aveva freddo si copriva con un mantello o aumentava il numero delle tuniche.
La toga rappresentava l'abito di rito quando si doveva esercitare un pubblico ufficio; e in toga doveva mostrarsi in Roma chiunque non volesse passare per uno schiavo o per un modesto bracciante; ma di questo indumento il Romano aveva cura di sbarazzarsi non appena si trovava in famiglia o lontano dal mondo ufficiale.
La toga era di lana bianca e pesante, tutta di un pezzo e tagliata in forma di ellisse.
Una toga ornata di una balza di porpora, la toga praetexta , era riservata ai sommi magistrati, ad alcuni sacerdoti e ai fanciulli sotto ai diciassette anni; durante la celebrazione di un trionfo si indossava la toga picta e nella celebrazione dei riti auguri e sacerdoti usavano una toga variamente colorata ( trabea ).
Ma in generale la toga era pura, cioè senza ornamenti.
Alcuni tipi di mantello, che si usava mettere sulla toga, nell'età imperiale vennero sostituendo, per praticità, la toga stessa.
Di mantelli ve ne erano vari tipi: il pallium , la lacerna , la paenula .
Il pallium si portava su per giù come la toga, ma essendo più corto e non raddoppiato, non impicciava, come la toga, la libertà dei movimenti.
La lacerna , in origine mantellina militare, venne usata come abito borghese durante l'impero ed ebbe un diffusione grandissima.
La paenula era un mantello molto semplice, di solito fornito di un cappuccio, e serviva soprattutto contro il freddo e il cattivo tempo.
Si indossava passando la testa attraverso un'apertura centrale, e rimaneva, così, sulle spalle senza bisogno di fermaglio.
La laena era una mantellina rotonda e corta, di stoffa pesante; la povera gente la portava grezza, ma nei banchetti se ne usavano di riccamente colorate per completare l'abito proprio dei banchetti, un attillatissimo farsetto finemente guarnito ( vestis cenatoria o synthesis ).
Esistevano altri tipi di mantelli pesanti e con cappuccio: il cucullus ("cappuccio"), il bardocucullus , il birrus , la caracalla (quest'ultimo tipo era lungo sino ai piedi, e lo trovava tanto adatto per tutte le occasioni, se ne introdusse l'uso anche fra i soldati).
Nella Roma primitiva le donne vestivano come gli uomini, cioè andavano in toga, ma ben presto l'abito femminile si differenziò dal maschile, e la toga fu imposta alle donne solo se di provata disonestà.
Le matrone portavano sulla pelle una tunica di lino ( tunica interior ) sopra la quale indossavano la stola, un lungo vestito che scendeva sino ai piedi, stretto alla vita da una cintura, e ornato all'orlo estremo da una balza di porpora.
Per uscire in pubblico le Romane, nei primi secoli della Repubblica , coprivano le spalle con un semplice mantello quadrato ( ricinium ).
Questo negli ultimi secoli della Repubblica e nell'età imperiale fu sostituito da un soprabito molto ampio.
I Romani anche fuori di casa andavano a capo scoperto; al massimo mettevano un cappuccio ( cucullus ), se pioveva, e un cappello a larghe tese ( petasus ), se dovevano intraprendere un viaggio in estate o star lunghe ore fermi al sole, per esempio al teatro.
Durante i Saturnali, le allegre feste dei Romani, tutti mettevano in testa un piccolo berretto un pò ridicolo ( pilleus ) che nei giorni normali portavano solo i liberti.
Dell'abbigliamento muliebre in genere, gli scavi ci hanno restituito in abbondanza anelli, fibbie, aghi da infilare nei capelli, diademi ornati d'oro e di pietre preziose che arricchivano la pettinatura; svariatissimi i braccialetti, le collane, le catenelle da collo, i grossi anelli da mettere alla caviglie, gli orecchini.
Gli uomini, invece, nell'adornarsi erano molto sobri; l'unico loro ornamento consisteva negli anelli, e solo i liberi li potevano portare.
Durante la Repubblica si teneva nell'anulare della sinistra un solo anello che serviva anche da sigillo, la cui impronta aveva il valore di firma autentica; durante l'impero, invece, si portavano anelli di ogni tipo e l'ambizione spingeva alcuni a caricarsene addirittura le dita.
Questi anelli, per le pietre preziose che vi erano incastonate, raggiungevano anche un valore grandissimo e venivano conservati in un apposito scrigno, la dactyliotheca .
LA MODA DEI CAPELLI E DELLA BARBA
Nei tempi più antichi i Romani lasciavano crescere liberamente capelli, barba e baffi.
Nel II sec. a. C. dalla Sicilia vennero in Italia numerosi barbieri ( tonsores ), e l'uso di farsi la barba si diffuse rapidamente (con l'installazione dei negozi " tonstrina ").
Il III sec. a. C. (il secolo delle guerre puniche) segnò il trionfo del rasoio.
Dalla fine del III sec. a. C. al principio del II d. C., i Romani nel trattare la propria barba facevano un omaggio alla moda e anche agli dèi.
I giovinetti non si radevano la prima peluria, ma lasciavano che crescesse tanto da avere l'aspetto di una barba; allora quella prima barba veniva tagliata e consacrata, di regola, a una divinità ( depositio barbae ).
Deposta la prima barba si continuava a portare una barbetta ( barbula ) di cui i giovani eleganti avevano grande cura, e così sino ai quaranta anni (età in cui cominciano i primi fili bianchi).
Adriano, avendo il volto difettoso, si lasciò crescere la barba, e così ricominciò la moda di portare la barba lunga sino a che, sotto Costantino, risorse l'uso di radersi.
I capelli erano portati lunghi solo dai giovinetti liberi e dagli schiavi che facevano parte del servitorame di lusso.
Per quello che riguarda la pettinatura femminile, le giovinette si pettinavano molto semplicemente , raccogliendo i capelli in un nodo cadente sulla nuca o in trecce avvolte intorno alla testa; più complicate e più varie erano le pettinature delle signore maritate, suggerite dalle leggi della moda o dal capriccio personale.
Comunissime erano le parrucche, i capelli posticci, le tinture; non soltanto le donne le usavano, ma anche un gran numero di uomini.
Per ottenere quest'effetto si adoperava una tintura (sapo, spuma Batava), che rendeva le chiome rosse fiammanti.
Per fare posticci biondi erano tanto ricercati i capelli nordici che le chiome dei barbari divennero oggetto di un commercio attivissimo.
GASTRONOMIA E ARTE CULINARIA
I Romani primitivi erano frugalissimi, ma i loro discendenti, soprattutto nell'età imperiale, avevano per la buona tavola un amore che non risparmiava cure e non badava a spese.
Erano allevati razionalmente pesci, selvaggina, uccelli e, oltre al pollame, si ingrassavano lepri, i ghiri, persino le ostriche.
Quando la produzione indigena non era sufficiente, provvedeva il commercio; da tutte le parti del mondo conosciuto venivano a Roma vini prelibati e leccornie.
Cuochi comprati a carissimo prezzo profondevano tutti i ritrovati della loro arte, usavano ingredienti di gran costo per manipolare manicaretti complicatissimi.
Come noi i Romani erano ghiotti dei funghi, ma li cuocevano col miele; pregiavano le belle pesche, ma le trattavano a un disprezzo come facciamo noi con le anguille marinate; avevano una predilezione per molti dei pesci che anche oggi si vedono volentieri sulla tavola, ma li preparavano con certi intrugli preoccupanti, in cui entrava di ogni cosa un pò, non escluso le susine e le albicocche spiaccicate e una poltiglia di mele cotogne.
Non esistevano nè liquori, nè caffè, nè tè; unica bevanda esilarante era il vino.
Anche nei locali pubblici (thermopolia), si beveva vino caldo.
Nei primi secoli il grano serviva a preparare la puls , una specie di pappa di frumento; l'uso del pane sembra fosse divenuto generale solo al principio del II sec. a. C..
Esso era di tre qualità: 1) il pan nero, di farina stacciata rada ( panis plebeius ); 2) il pane più bianco, ma non finissimo ( panis secundarius ); 3) il pane di lusso ( panis candidus ).
E' ricordato anche il pan da cani ( panis furfureus ).
Dei legumi i più usati erano le fave, le lenti, i ceci; degli ortaggi: le lattughe, il cavolo, il porro.
Gli asparagi e i carciofi erano rari e comparivano solo sulla tavola dei ricchi; ricercatissimi i funghi; l'uliva era in grande onore e di rito negli antipasti.
In Roma si mangiavano molte rape, considerate un poco cibo nazionale; sconosciuti tartufi , patate, pomodori, fagioli e in luogo dello zucchero, anch'esso sconosciuto, si usava il miele o il mosto cotto.
I frutti d'uso erano mele, pere, ciliege, susine, uva fresca e uva passa, noci, mandorle castagne.
I datteri venivano dai paesi caldi; erano invece rarissimi e non nostrani gli agrumi, importati dall'Oriente.
La selvaggina si allevava come noi facciamo con gli animali domestici, ed era molto più apprezzata del pollo, che i Romani, tenevano in poco conto.
Oltre alla carne ovina, la più usuale, e a quella di maiale, di cui erano ghiottissimi, mangiavano carne di cervo, d'asino selvatico e dedicavano cure scrupolosissime all'allevamento del ghiro, cibo molto raffinato.
Il fenicottero, di cui si pregiava in modo particolare la lingua, la cicogna, la gru, lo psitacco, uccellino ciarliero della famiglia dei pappagalli, e anche il pavone erano in onore.
Ma ad ogni altro cibo i Romani preferivano il pesce di qualità fine.
Del pesce si faceva in Roma un uso grandissimo; dai piccoli pesci conservati in salamoia, roba di poco prezzo che si smerciava fra il popolino, a quelli più ricercati come le sogliole, le triglie, lo scaro, lo storione, il rombo. Ma la principale caratteristica della cucina romana consisteva nel grande uso di alcune salse di pesce, ottenute con un lungo procedimento, che venivano conservate in anfore.







ACCONCIATURE NEL XIX SECOLO
Le acconciature femminili in voga all'inizio dell'800, sono chiaramente ispirate all'antica Grecia, aderenti sul capo sono caratterizzate da un incrocio di ciocche, ornate da perle e fiori.
Unica eccezione d'inizio secolo, era la pettinatura all'inglese, che lasciava liberi ampi riccioli, i quali ricadevano sulle guance, chiamati prima tire-bouchons (cavatappi in francese), e poi anglaises (inglesi).
Mentre in Francia le parrucche avevano un certo successo, le dame italiane preferirono sempre le acconciature di capelli veri, raccolti in trecce, che si complicavano in base alle occasioni in cui venivano sfoggiate.
Il colore dei capelli alla moda, divenne il castano scuro, e pian piano si diffuse la pettinatura detta 'alla vergine', ossia con la riga in mezzo alla testa ed i capelli raccolti all'indietro.
Nel corso di tutto il secolo, le acconciature vennero comunque adattate al tipo di cappello di moda.
Dai cappellini allacciati sotto al mento, in voga con lo stile Impero, si passò alle cuffiette ornate di pizzo, per poi tornare, a fine secolo, ai grandi cappelli a falda larga, ornati di piume.
Acconciature maschili
Gli uomini dell'800 portavano i capelli scapigliati, con un atteggiamento ironico, e le basette, dalle tempie, scesero fino ad unirsi sotto il mento, formando una striscia sottile di barba, che incorniciava il viso.
Questa acconciatura, rimasta famosa con il conte di Cavour, prese proprio da questi il suo nome.
Alcuni accompagnavano la striscia di barba, con dei piccoli baffi cadenti, ma era piuttosto raro.
Col tempo, i baffi divennero di gran moda e vennero impomatati, per tenerli ben dritti o rialzati, anche se in Italia, Mazzini e Garibaldi li portavano spioventi.
La barba, inoltre, si affacciò sui volti maschili, a partire dal 1840, espandendosi fino a ricoprire tutto il mento, fino alle tempie.
I cappelli, durante tutto il secolo, rimasero per lo più cilindrici, con alcune variazioni.
Come il gibus, che dotato di molle poteva essere appiattito e portato sotto il braccio, oppure il cappello 'alla Bolivar', un cilindro svasato verso l'alto.
Gli artisti portavano invece il berretto, una specie di basco alla francese drappeggiato, solitamente di stoffa morbida, come il velluto, detto anche cappello 'alla raffaella', alludendo agli autoritratti del pittore rinascimentale Raffaello Sanzio.
Tra gli accessori indispensabili del gentiluomo, c'erano i guanti: bianchi e di filo, di giorno e di sera, di pelle gialla, ma non troppo sgargianti.
I giovani eleganti portavano anche un monocolo incastrato su un occhio, oppure degli occhialini da naso, attaccati ad una catenella.
Chi ne aveva veramente bisogno utilizzava degli occhialini ovali, con lenti piuttosto piccole, come quelli del conte di Cavour
MODA E ABBIGLIAMENTO TRA '600 E '700
A partire dalla fine del XVII secolo in poi, la moda europea raggiunse il suo apice. I vestiti divennero sempre più aderenti e curati ed i cappotti acquisirono un posto fondamentale nell'abbigliamento.
Il fulcro della moda del Settecento era Parigi, punto da cui tutte le innovazioni si diramavano, con una rapidità più o meno breve, a seconda della distanza dalla Francia.
Gli abiti che riportiamo in questa sezione si rifanno, quindi, a quelli in uso alla corte di Luigi XVI, luogo a cui guardava tutta Italia, e tutto il resto dell'Europa.
Il primo grande cambiamento che subì la moda maschile, toccò i "pantaloni".
Gli uomini si erano stancati dei larghi bracaloni, e la culotte, che prima era portata sotto, venne portata allo scoperto.
Queste erano ancora ampie, ma si stringevano sotto il ginocchio con un nastrino.
Col passare del tempo, anche il resto della gamba si strinse, divenendo più aderente, e sia la patta che il ginocchio si chiudevano con l'aiuto di bottoncini.
Anche i panciotti si strinsero divenendo abbottonabili a partire dalla vita.
Si allungarono anche, con le parti sempre più ampie, che si dividevano dietro in due code.
I bottoni delle giacche e delle mantelle divennero sempre più importanti.
L'area intorno alle asole si irrobustì, con intarsi di peli di capra o di seta, e più tardi di metallo.
Gli intarsi d'oro o d'argento diminuirono lievemente, ma rimasero ad abbellire la parte frontale delle giacche, il retro, i bordi delle tasche ed i polsini.
Le giacche e le mantelle erano coordinate, dello stesso tessuto.
Le mantelle si abbottonavano in modo da lasciar intravedere i colletti rialzati delle giacche, che venivano chiamati jabot.
Nella seconda metà del 1700, inoltre, le due code delle giacche furono rivoltate sul lato e fissate con due bottoni (uno per lato).
Anche le parrucche maschili, subirono importanti mutamenti, riducendosi notevolmente di taglia, a partire dall'inizio del secolo.
L'innovazione fu introdotta dai militari, poiché le grandi chiome erano scomode per leggere e combattere. Questi, infatti, tiravano all'indietro i lunghi riccioli, fissandoli con dei nastri.
Nelle occasioni cerimoniali, però, i gentiluomini portavano delle parrucche specifiche.
La moda imponeva almeno tre o quattro boccoli rigidi a più piani, per lato, che col tempo, si ridussero a due, per divenire, alla fine del secolo, dei piccoli toupet. Con le parrucche cerimoniali il tricorno non poteva essere indossato, veniva così portato in mano o sotto il braccio.
Vi erano anche le parrucche naturali, che imitavano le capigliature fluenti di lunghezza media.
Le parrucche venivano incipriate, e verso metà del secolo vennero anche adottate parrucche argentate.








La semplice funzionalità di un accessorio come l'ombrello rende difficile conciliare la sua utilizzazione pratica con un'origine che sfiora il mito; eppure, pochi oggetti del nostro vivere quotidiano possono vantare radici così antiche e leggendarie.
L'unico elemento certo è la provenienza non occidentale: la Cina, l'India e l'Egitto si proclamano infatti paese-culla del parasole, ciascuno con motivazioni più che valide.
Queste "rivendicazioni" ci permettono di aggiungere un altro dato sicuro ad una storia priva di certezze: l'ombrello è, fin dal suo apparire, collegato alla rappresentazione simbolica del potere, quando non, addirittura, attributo della divinità.
Fin dal XII secolo a.C., l'ombrello cerimoniale apparteneva alle insegne dell'Imperatore della Cina e tale rimase per circa trentadue secoli, fino alla scomparsa del Celeste Impero.
All'incirca nello stesso periodo, i re persiani potevano, unici tra i mortali, ripararsi dal sole per mezzo di un ombrello, sorretto da qualche dignitario; più democraticamente in Egitto si concedeva tale privilegio a tutte le persone di nobile origine.
In questo paese nasce, forse, il mito più bello, la più profonda simbologia legata all'ombrello: la dea Nut era spesso rappresentate in forma di parasole, con il corpo arcuato a coprire la terra, in atto di protezione e di amore.
Il forte significato di status symbol come prerogativa regale, o comunque di potere, assunto dall'ombrello, spiega la sua contemporanea comparsa nell'immaginario religioso.
Come in Egitto, anche in India viene associato alle dee della fertilità e del raccolto o, in senso più lato, della morte e della rinascita: nella sua quinta reincarnazione, Vishnu aveva riportato dagli Inferi l'ombrello, dispensatore di pioggia.
Alla sfera del mito dobbiamo l'introduzione nel mondo occidentale del nostro accessorio, che compare in Grecia legandosi al culto di Dionisio (un dio di probabile origine indiana), ma anche di dee come Pallade e Persefone, che tra i loro fedeli contavano soprattutto donne.
Sono le donne che, nelle feste dedicate a queste divinità, si riparano in loro onore con un parasole, passato nel III secolo a.C. anche nel mondo romano, dove viene descritto dai poeti come delicato e prezioso oggetto in mani femminili.
Sembrerebbe quindi di avere delineato una storia completa: da simbolo di potere, umano e divino, a oggetto di lusso e di seduzione.
Eppure, tra i tanti valori e segni di civiltà cancellati dalla scomparsa dell'Impero romani, ci fu anche l'ombrello, di cui non rimase traccia nei "secoli bui", se non per la sua sopravvivenza nel culto cattolico, inizialmente come insegna pontificale, poi nell'uso liturgico.
Totalmente sconosciuta all'antichità fu perciò la principale funzione utilitaria dell'ombrello, quella di parapioggia.
Mantelli, cappucci e cappelli di pelle risolsero il problema della pioggia nel mondo classico ed in quello medievale.
Anche nei secoli della Rinascenza, le comparse dell'ombrello sono rare: in pelle o in tela cerata, utilizzato sia per il sole che per la pioggia, lo si trova solo tra i potenti della terra, e non è mai sorretto dalla persona stessa, ma da un servo: ancora non un accessorio, ma un segno, un distintivo onorifico.
Fanno eccezione alcune testimonianze relative ad un uso "equestre" dell'ombrello, tra il XVI e il XVII secolo.