RITRATTO DI FRANCESCO REDI
LEGGI QUI IL TESTO INTEGRALE DEL REDI
ESPERIENZE INTORNO
ALLA GENERAZIONE DEGL’INSETTI
ESPERIENZE INTORNO
ALLA GENERAZIONE DEGL’INSETTI
fatte da Francesco Redi,
Gentiluomo Aretino e Accademico della Crusca,
e
da lui scritte in una Lettera all’Illustrissimo Signor Carlo Dati
Chi fa esperienze accresce il sapere;
Chi è credulo aumenta l’errore.
Proverb. Arab. Erpen. 57
Rerum natura nusquam magis quam in minimis
Tota est. Quapropter quaeso ne nostra legentes
(quoniam ex his spernuntur multa) etiam relata
fastidio damnent; quum in contemplatione naturae
nihil possit videri supervacuum.
Plinio nel principio del Lib. XI
dove comincia a trattar degl’insetti
Mio Signore.
È non ha dubbio alcuno che nell’intendimento delle cose naturali dati sono dal
supremo Architetto i sensi alla ragione come tante finestre o porte per le quali o ella si
affacci a mirarle, o elleno entrino a farsi conoscere. Anzi, per meglio dire, sono i sensi
tante vedette o spiatori che mirano a scoprire la natura delle cose e ‘l tutto riportano
dentro alla ragione la quale, da essi ragguagliata, forma di ciascuna cosa il giudizio,
altrettanto chiaro e certo quanto essi sono più sani e gagliardi, e liberi da ogni ostacolo
ed impedimento. Onde acciocché restino sincerati, molto spesso ci avviciniamo o ci
discostiamo, mutando lume e posto a quelle cose che da noi si riguardano, e molte altre
azioni facciamo, non solamente per soddisfare la stessa vista, ma e l’odorato e ‘l gusto e
l’udito e ‘l tatto in guisa tale ch’e’ non è uomo alcuno, il quale abbia fior d’ingegno, che
ricerchi dalla ragione il giudizio delle cose sensibili per altra via che per quella più
facile e più sicura da’ propri sensi aperta e spianata. Per lo che ottimamente, a mio
credere, disse colui, che se alla nostra natura si desse l’elezione, ovvero qualche mente
superiore ricercasse da essa se sia contenta de’ suoi sensi incorrotti ed interi o se pure
cosa miglior desideri, ei non vedeva ch’ella potesse domandar di vantaggio. Di così
proporzionati strumenti guernito l’uomo, chi non vede quanto travierebbe se, la verità
della storia naturale ansiosamente ricercando, ponesse da banda il chiarir bene i sensi, e
sovra una superficiale e lieve apprensione de’ propri, o non sincera ed appassionata
relazione degli altrui, facesse fare alla ragione l’ufizio suo, la quale, ingannata da’ sensi
male informanti, pronunziar potrebbe una precipitosa e fallace sentenza. Quindi avviene
che niuno è in oggi nelle filosofiche scuole sì giovane che non porti un così fatto parere,
instillato dalla natura stessa e dettato da quegli antichi savissimi uomini che nelle cose
della filosofia sentirono molto avanti; tra’ quali quel grandissimo ingegno, che tutto
seppe e di tutto maravigliosamente seppe scrivere, nel secondo del Paradiso ebbe a dire:
Ella sorrise alquanto, e poi, s’egli erra
L’opinion, mi disse, de’ mortali
Dove chiave di senso non disserra,
Certo non ti dovrien punger li strali
D’ammirazione omai, poi dietro a’ sensi
Vedi che la ragione ha corte l’ali.
Ha corte l’ali la ragione andando dietro a’ sensi, perché più oltre di quello ch’eglino
apprendono ella in cotale inchiesta non può comprendere. E s’ella stessa è così debole,
anche quando è fatta forte da’ sensi, per penetrare nel segreto delle mondane cose,
quanto sarà di peggior condizione, priva del necessario aiuto di quegli? Se i sensi
dunque non battono bene la strada, se non iscuoprono bene il paese, se non s’informano
bene di tutto quello che passa nella natura e s’alla ragione non porgono la mano, che
maraviglia poi se o per balze strabocchevoli ed oscure ella s’incammini, o se ne’ lacci
delle fallacie e negli agguati degli errori si trovi còlta ed inviluppata? Laonde ancorché
io con più fervore di animo che con altezza d’ingegno seguitati abbia gli studi della
filosofia, nientedimeno ho posta sempre ogni possibile pena ed ogni sollecitudine in far
sì che gli occhi miei corporali in particolare si soddisfacciano bene, prima per mezzo di
accurate e continue esperienze, e poi somministrino all’estimazione della mente materia
di filosofare. Per questa via, quantunque per avventura al perfetto conoscimento di
niuna cosa io sia arrivato, con tutto ciò son pervenuto tant’oltre che m’avveggio e so che
di molte cose, le quali io mi dava ad intendere di sapere, ne sono del tutto ignorante: e
se talvolta scuopro evidentemente qualche menzogna, o dagli antichi scritta o da’
moderni creduta, ne sto così dubbioso ed irresoluto ch’appena m’ardisco farne motto
senza l’amichevole consiglio di saggi e prudenti amici. Che perciò, avendo ora di fresco
fatte molte esperienze, e molte intorno al nascimento di que’ viventi che infino al dì
d’oggi da tutte le scuole sono stati creduti nascere a caso e per propria loro virtude,
senza paterno seme, non fidandomi di me medesimo e volendo pur ad altrui conferirle,
m’è venuto in mente di ricorrere a voi, o Signor Carlo, che per vostra mercé m’avete
dato luogo tra’ vostri più cari amici; a voi, dico, in cui tutti gli uomini dotti veggon
risplendere un sovrano sapere dalla filosofia fatto robusto, e da varia erudizione così
nobilmente adornato che, pregiandosene la nostra Toscana, non invidia i Varroni al
Lazio ed i Plutarchi alla Grecia. Io vi prego dunque a prendervi la fatica di leggere
nell’ore meno occupate questa mia Lettera, ma di leggerla con animo di dirmene il
vostro sincerissimo parere, e con esso di darmi quegli ch’io vi chieggio amorevoli ed al
vostro solito dottissimi consigli, coll’aiuto de’ quali riuscendomi di tor via il troppo ed il
vano, ed aggiugnendo ciò che sarebbe di mestiere,
Forse che ancor con più solerti studi
Poi ridurrò questo lavor perfetto.
Crederono molti che per questa bella parte dell’universo che noi comunemente
chiamiamo terra, tosto che dalla mano dell’eterno Maestro uscì stabilita, o in qualsisia
altro modo col quale follemente farneticassero che ciò potesse essere avvenuto,
crederono, dico, che ella in questo stesso momento cominciasse a vestirsi da sé
medesima d’una certa verde lanugine somigliantissima a quella vana peluria ed a quel
primo pelame di cui, subito che nati sono, si veggon ricoperti gli uccelli ed i
quadrupedi; e che poi a poco a poco quella verde lanugine, dalla luce del sole e
dall’alimento materno fatta più vigorosa e più robusta, si cangiasse e crescesse in erbe
ed in alberi fruttiferi abili a somministrare il nutrimento a tutti gli animali che la terra
avrebbe poscia prodotti; e dicono che ella cominciasse dalle viscere sue a produrne di
tutte quante le spezie; cioè dall’elefante infino alle più minute e quasi invisibili
bestiuole: ma che non contenta della generazione degli animali irragionevoli, volesse
ancor la gloria che gli uomini stessi in quei primi tempi la riconoscessero per madre.
Onde affermano gli Stoici, come racconta Lattanzio, che in tutte le montagne, in tutte le
colline e pianure si vedeano spuntar fuori gli uomini come veggiamo nascere i funghi.
Vero è che non fu di tutti opinione che e’ nascessero da per tutto, ma in una sola e
determinata parte, o provincia: quindi gli Egizzi, gli Etiopi ed i Frigi donavano questo
vanto al lor proprio paese; ed al loro ancora gli Arcadi, i Fenici e gli abitatori
dell’Attica; tra’ quali gli Ateniesi, per dare un contrassegno che in Grecia i primi padri
dell’uman genere fossero nati da sé medesimi in quella maniera che dalla terra si crede
che ancor oggi nascano le cicale, portavano, com’è noto, su’ capelli alcuni fermagli
d’oro in forma di cicale effigiati; e Platone nel Menexeno, e Diogene Laerzio nel
proemio delle Vite de’ filosofi concedono anch’essi al paese de’ Greci quest’onore
dell’avervi la terra partoriti i primi uomini: ma in qualsisia paese che potessero esser
nati, fu dottrina d’Archelao, scolare d’Anassagora, che non ogni terrenello magro ed
arenoso, non ogni morto sabbione fosse il caso, ma che ci volea una maniera di terreno
caldo ed allegro e di sua natura poderoso a germinare, producente una certa poltiglia
simile al latte e che, in vece di latte, potesse alle bestie ed a gli uomini somministrare il
primo alimento.
Questi viventi, per testimonianza d’Empedocle e d’Epicuro, ne’ primi giorni del
mondo alla rinfusa nascevano senz’ordine e senza regola dagli uteri della terra, madre
non ancor ben esperta di questo mestiere. Né furono soli que’ due gran savi ad aver così
strana opinione, imperocché fu tenuta anticamente da molti, ed in particolare dal Rodio
Apollonio nel quarto dell’Argonautiche imprese:
Non le belve voraci all’altre belve.
Né l’uomo all’uomo era simil;
scambiati confusamente l’un l’altro le membra andavan,
come dalle stalle in frotta sbucan le gregge al pasco:
in quella guisa la terra stessa germinò dal fango
con miste membra i primi abitatori.
Sicché talvolta vedevansi animali senza bocca e senza braccia, altri senz’occhi e
senza gambe; alcuni con istrano innesto di mani e di piedi brancolavano, privi di ventre
e di testa; molti nascevano col capo d’uomo e coll’altre membra di fiera; alcuni aveano
l’anteriori parti di fiera e le diretane d’uomo, e certi altri erano forse fatti come descritti
furono da’ poeti il Minotauro di Creta, la Sfinge, la Chimera, le Sirene e l’alato Cavallo
di Perseo, o pure come quel favoloso Atlante di Carena, di cui l’Ariosto:
Non è finto il destrier, ma naturale,
Ch’una giumenta generò d’un grifo;
Simile al padre avea la piuma e l’ale,
Li piedi anteriori, il capo e ‘l grifo;
In tutte l’altre membra parea quale
Era la madre, e chiamasi Ippogrifo.
Ma questa gran madre, accorgendosi che sì fatti abbozzi di generazioni mostruose
non erano né buoni né durevoli, ed essendosi già con essi a bastanza dirozzata e fattasi,
per così dire, maestra più pratica, produceva poscia gli uomini e gli altri animali tutti
nella loro spezie perfetti; e gli uomini, secondo che recita Democrito, nascevano quasi
tanti piccioli vermi che a poco a poco ed insensibilmente l’umana figura prendevano;
ovvero, come diceva Anassimandro, scappavano dal seno materno rinchiusi dentro a
certe ruvide cortecce spinose, non molto forse dissimili da quei ricci co’ quali dal
castagno vestiti sono i propri suoi frutti. Dottrina da questa diversa fu predicata da
Epicuro e da’ seguaci suoi, i quali vollero che dentro agli uteri della terra se ne stessero
gli uomini e gli altri animali tutti rinvolti in certe tuniche ed in certe membrane, dalle
quali rotte e lacerate nel tempo della maturità del parto uscivano ignudi, ed ignudi
ancora e non offesi da caldo o da gielo andavano or qua ed or là suggendo i primi
alimenti dalla madre; la quale, avendo per qualche tempo durato ad essere di così
maravigliose generazioni feconda, in breve, quasi fatta vecchia e sfruttata, diventò
sterile; e non avendo più forza da poter generare gli uomini e gli altri grandi animali
perfetti, le rimase però tanto di vigore da poter produrre (oltre le piante, che
spontaneamente senza seme si presuppone che nascano) certi altri piccioli animaletti
ancora; cioè a dire le mosche, le vespe, le cicale, i ragni, le formiche, gli scorpioni, e gli
altri tutti bacherozzoli terrestri ed aerei che da’ Grecioentoma zùa e da’ Latini insecta
animalia furono chiamati. Ed in questo convengono tutte quante le scuole, o degli
antichi o de’ moderni filosofi; e costantissimamente insegnano che infino al giorno
d’oggi ell’abbia continuato a produrne, e sia per continuare quanto durerà ella
medesima. Non son però d’accordo nel determinare il modo come questi insetti vengano
generati, o da qual parte piovano l’anime in essi: imperocché dicono che non è sola la
terra a possedere questa nascosta virtude, ma che la posseggono ancora tutti gli animali
e vivi e morti e tutte le cose dalla terra prodotte, e finalmente tutte quelle che sono in
procinto, putrefacendosi, di riconvertirsi in terra; e per possente cagione adducono
alcuni la putredine stessa, ed altri la naturale cozione; e molti a queste cagioni, secondo
la diversità delle loro sette e de’ loro pensieri, ne congiungono molt’altre che attive ed
efficienti appellano, come sarebbe a dire l’anima universale del mondo, l’anima degli
elementi, l’idee, l’intelligenza donatrice delle forme, il calore de’ corpi putrefatti, il
calore dell’ambiente e del cielo, e del medesimo cielo il moto, la luce e le superiori
influenze; non essendovi mancato chi abbia detto la generazione di tutti gli entomati
esser fatta dalla virtù generatrice dell’anima sensitiva e vegetabile, della quale alcuni
piccoli avanzi per qualche tempo dopo la morte rimangono ed abitano ne’ cadaveri degli
animali e delle piante; e mentre quivi da un calor debolissimo rattenute se ne stanno
come in un vaso oziose e quasi addormentate, sopravvenendo il calore ambiente e
disponendo la materia, si risentono quegli estremi residui d’anime e si risvegliano a dar
novella vita a quella corrotta materia e organizzarla in foggia di proprio strumento. Egli
c’è ancora un’altra maniera di savie genti, le quali tennero e tengono per vero che tal
generazione derivi da certi minimi gruppetti ed aggregamenti di atomi, i quali
aggregamenti sieno i semi di tutte quante le cose, e di essi semi le cose tutte sien piene.
E che ne sieno piene lo confessano ancora molti altri dicendo che sì fatte semenze nel
principio del mondo furono create da Dio, e da lui per tutto disseminate e sparse, per
render gli elementi fecondi, non già d’una fecondità momentanea e mancante, ma bensì
durevole al pari degli elementi stessi; ed in questa maniera dicono potersi intendere
quello che ne’ Sacri Libri si legge, avere Iddio create tutte le cose insieme. Ma quel
grandissimo filosofo de’ nostri tempi, l’immortale Guglielmo Arveo, ancor egli ebbe
per fermo che fosse a tutti quanti i viventi cosa comune il nascere dal seme, come da un
uovo; o che venga questo seme dagli animali della medesima spezie, o che d’altronde a
caso derivi e proceda. Quippe omnibus viventibus id commune est (dice egli), ut ex
semine, ceu ovo, originem ducant: sive semen illud ex aliis eiusdem speciei procedat,
sive casu aliunde adveniat. Quod enim in artes aliquando usu venit, id idem quoque in
natura contingit: nempe, ut eadem casu sive fortuito eveniant quae alias ab arte
efficiuntur: cuius rei (apud Arist.) exemplum est sanitas. Similiterque se habet generatio
(quatenus ex semine) quorumlibet animalium; sive semen eorum casu adsit, sive ab
agente univoco eiusdemque generis proveniat. Quippe etiam in semine fortuito inest
principium generationis motivum, quod ex se et per se ipsum procreet; idemque quod in
animalium congenerum semine reperitur; potens scilicet animal efformare. E prima
avea detto quegli invisibili semi, quasi atomi per l’aria volanti, esser da’ venti or qua ed
or là disseminati e sparsi; ancorché mai non si dichiari donde e da chi abbiano la loro
origine; solamente pare che si raccolga dalle suddette citate parole che egli creda che
quei semi fortuiti volanti per l’aria e traportati da’ venti procedano e nascano da un
agente non già univoco, per parlar con le scuole, ma bensì equivoco; ed in miglior
maniera forse, e con più soda e stabil chiarezza detto avrebbe la sua opinione, se tra’
tumulti delle guerre civili non gli fossero andate male, con deplorabile pregiudicio di
tutta la repubblica filosofica, quelle molte osservazioni che intorno a questa materia egli
avea raccolte e notate. Se bene a molti sembrerà cosa dura e malagevole a credere che
l’Arveo potesse dare nel segno; imperciocché ostinatamente affermano che la cagione
efficiente procreatrice degli insetti naturalmente additar non si possa; onde il più sottile
di tutti i filosofi de’ secoli trapassati, dopo averla nel mondo nostro indarno cercata,
ebbe a dire che la cagione immediata promovente la generazione degl’insetti e
producente nella materia disposta le loro anime non essere altra che la mano
onnipotente di colui il saper del quale tutto trascende, cioè a dire Iddio ottimo e
grandissimo; dal quale parimente essere infuse l’anime in tutti gli animali volanti fu
opinione d’Ennio, se crediamo a Varrone che nel quarto libro della Lingua latina
scrisse: Ova parire solet genus penneis condecoratum; Non animas, ut ait Ennius. Et
post: Inde venit divinitu’ pulleis, Insinuans se ipsa anima. Quindi alcuni altri
soggiungono maraviglia non essere se Galeno modestamente ne’ suoi libri confessasse
di non aver mai saputo ritrovarla, e che perciò porgesse preghiere a tutti i filosofi che, se
mai vi s’imbattessero, di volere a lui darne la notizia; egli però, contro l’opinione de’
Platonici, confessa di non poter indursi a credere che quella possanza e quella sapienza
che fa produrre gli animali perfetti sia quella stessa la quale si abbassi a formare gli
scorpioni, le mosche, i vermi, i lombrichi, ed altri somiglianti che imperfetti dagli
Scolastici sono appellati. Qual sia la vera tra tante opinioni, o qual per lo meno più
dell’altre alla verità si sia avvicinata, io per me non saprei indurmi a dirlo; e non è ora di
mia possanza né di mia intenzione il deciderlo; e se vengo a palesarvi la credenza ch’io
ne tengo, lo fo con animo peritoso e con temenza grandissima, parendomi sempre di
sentirmi intonare agli orecchi ciò che già dal nostro divino Poeta fu cantato:
Sempre a quel ver, ch’ha faccia di menzogna
Dee l’uom chiuder le labbra quanto ei puote
Però che senza colpa fa vergogna.
Pure contentandomi sempre in questa ed in ciascuna altra cosa da ciascuno più savio,
là dove io difettosamente parlassi, esser corretto, non tacerò che per molte osservazioni
molte volte da me fatte mi sento inclinato a credere che la terra, da quelle prime piante e
da que’ primi animali in poi, che ella nei primi giorni del mondo produsse per
comandamento del sovrano ed onnipotente Fattore, non abbia mai più prodotto da sé
medesima né erba, né albero, né animale alcuno perfetto o imperfetto che ei si fosse; e
che tutto quello che ne’ tempi trapassati è nato, e che ora nascere in lei o da lei
veggiamo, venga tutto dalla semenza reale e vera delle piante e degli animali stessi, i
quali col mezzo del proprio seme la loro spezie conservano. E se bene tutto giorno
scorghiamo da’ cadaveri degli animali e da tutte quante le maniere dell’erbe e de’ fiori e
de’ frutti imputriditi e corrotti nascere vermi infiniti,
Nonne vides quaecunque mora fluidoque calore
Corpora tabescunt in parva animalia verti?
io mi sento, dico, inclinato a credere che tutti quei vermi si generino dal seme
paterno, e che le carni e l’erbe e l’altre cose tutte putrefatte o putrefattibili non facciano
altra parte né abbiano altro ufizio nella generazione degl’insetti se non d’apprestare un
luogo o un nido proporzionato in cui dagli animali nel tempo della figliatura sieno
portati e partoriti i vermi o l’uova o l’altre semenze dei vermi, i quali, tosto che nati
sono, trovano in esso nido un sufficiente alimento abilissimo per nutricarsi; e se in
quello non son portate dalle madri queste suddette semenze, niente mai, e
replicatamente niente, vi s’ingeneri e nasca. Ed acciocché, o Signor Carlo, ben possiate
vedere che quello è vero ch’io vi dico, vi favellerò ora minutamente d’alcuni pochi di
questi insetti che, come più volgari, agli occhi nostri son noti.
Secondo adunque ch’io vi dissi, e che gli antichi ed i novelli scrittori e la comune
opinione del volgo voglion dire, ogni fracidume di cadavero corrotto ed ogni sozzura di
qualsisia altra cosa putrefatta ingenera i vermini e gli produce; sicché, volendo io
rintracciarne la verità, fin nel principio del mese di giugno feci ammazzare tre di quelle
serpi che angui d’Esculapio s’appellano; e tosto che morte furono le misi in una scatola
aperta acciocché quivi infracidassero; né molto andò di tempo che le vidi tutte ricoperte
di vermi che avean figura di cono e senza gamba veruna, per quanto all’occhio appariva,
i quali vermi, attendendo a divorar quelle carni, andavano a momenti crescendo di
grandezza; e da un giorno all’altro, secondo che potei osservare, crebbero ancora di
numero, onde, ancorché fossero tutti della stessa figura d’un cono, non erano però della
stessa grandezza, essendo nati in più e diversi giorni, ma i minori d’accordo coi più
grandi, dopo d’aver consumata la carne e lasciate intatte le sole e nude ossa, per un
piccolo foro della scatola che io avea serrata se ne scapparon via tutti quanti, senza che
potessi ritrovar giammai il luogo dove nascosti si fossero; per lo che fatto più curioso di
vedere qual fine si potessero aver avuto, di nuovo il dì undici di giugno misi in opra tre
altre delle medesime serpi; su le quali, passati che furono tre giorni, vidi vermicciuoli
che d’ora in ora andarono crescendo di numero e di grandezza; ma però tutti della stessa
figura, ancorché non tutti dello stesso colore, il quale ne’ maggiori per di fuora era
bianco e ne’ minori pendeva al carnicino. Finito che ebbero di mangiar quelle carni,
cercavano ansiosamente ogni strada per potersene fuggire; ma, avendo io benissimo
serrate tutte le fessure, osservai che il giorno diciannove dello stesso mese alcuni de’
grandi e de’ piccoli cominciarono, quasi addormentatisi, a farsi immobili; quindi
raggrinzandosi in sé medesimi insensibilmente pigliarono una figura simile all’uovo; ed
il giorno ventuno si erano trasformati tutti in quella figura d’uovo di color bianco da
principio, poscia dorato, che a poco a poco diventò rossigno; e tale si conservò in alcune
uova: ma in altre andando sempre oscurandosi, alla fine diventò come nero: e l’uova,
tanto nere quanto rosse, arrivate a questo segno, di molli e tenere che erano, diventarono
di guscio duro e frangibile; onde si potrebbe dire che abbiano qualche somiglianza con
quelle crisalidi, o aurelie o ninfe che se le chiamino, nelle quali per qualche tempo si
trasformano i bruchi, i bachi da seta ed altri simili insetti. Per lo che, fattomi più curioso
osservatore, vidi che tra quell’uova rosse e queste nere v’era qualche differenza di
figura, imperciocché, se ben pareva che tutte indifferentemente composte fossero quasi
di tanti anelletti congiunti insieme, nulladimeno questi anelli erano più scolpiti e più
apparenti nelle nere che nelle rosse, le quali a prima vista parevano quasi lisce, ed in una
delle estremità non avevano, come le nere, una certa piccola concavità non molto
dissimile a quella de’ limoni o d’altri frutti quando sono staccati dal gambo. Riposi
quest’uova separate e distinte in alcuni vasi di vetro ben serrati con carta, ed in capo agli
otto giorni da ogn’uovo di color rossigno, rompendo il guscio, scappava fuora una
mosca di color cenerognolo, torbida, sbalordita e, per così dire, abbozzata e non ben
finita di farsi, con l’ale non ancora spiegate, che poi nello spazio d’un mezzo quarto
d’ora, cominciando a spiegarsi, si dilatavano alla giusta proporzione di quel corpicello
che anch’esso in quel tempo s’era ridotto alla conveniente e naturale simmetria delle
parti, e quasi tutto raffazzonatosi, avendo lasciato quello smorto colore di cenere, si era
vestito d’un verde vivissimo e maravigliosamente brillante; ed il corpo tutto erasi cosi
dilatato e cresciuto che impossibile parea il poter credere come in quel piccolo guscio
fosse mai potuto capire. Ma se nacquero queste verdi mosche dopo gli otto giorni da
quell’uova rossigne, da quell’altre uova poi di color nero penarono quattordici giornate
a nascere certi grossi e neri mosconi listati di bianco e col ventre peloso e rosso nel
fondo, di quella razza istessa la quale vediamo giornalmente ronzare ne’ macelli e per le
case intorno alle carni morte; ed allora che nacquero erano mal fatti e pigrissimi al moto
e coll’ali non ispiegate, come avvenuto era a quelle prime verdi che di sopra ho
mentovate. Non però tutte quell’uova nere nacquero dopo i quattordici giorni; anzi che
una buona parte indugiarono a nascere fino al vigesimoprimo: nel qual tempo ne
scapparono fuora certe bizzarre mosche in tutto dalle due prime generazioni differenti e
nella grandezza e nella figura, e da niuno istorico giammai, che io sappia, descritte;
imperocché elle son molto minori di quelle mosche ordinarie che le nostre mense
frequentano ed infestano; volano con due ali quasi d’argento che la grandezza non
eccedono del loro corpo, che è tutto nero di color ferrigno brunito e lustro, nel ventre
inferiore, il quale rassembra nella figura a quello delle formiche alate, con qualche rado
peluzzo mostrato dal microscopio. Due lunghe corna o antenne (così le chiamano gli
scrittori dell’istoria naturale) su la testa s’inalzano: le prime quattro gambe non escono
dall’ordinario dell’altre mosche; ma le due diretane sono molto più lunghe e più grosse
di quello che a sì piccolo corpicciuolo parrebbe convenirsi; e son fatte per appunto di
materia crostosa simile a quella delle gambe della locusta marina; hanno lo stesso
colore, anzi più vivo, e così rosso che porterebbe scorno al cinabro; e, tutte punteggiate
di bianco, paiono un lavoro di finissimo smalto.
Queste così differenti generazioni di mosche uscite da un solo cadavero non
m’appagarono l’intelletto; anzi stimolo mi furono a far nuove esperienze: ed a questo
fine apparecchiate sei scatole senza coperchio, nella prima riposi due delle suddette
serpi, nella seconda un piccion grosso, nella terza due libbre di vitella, nella quarta un
gran pezzo di carne di cavallo, nella quinta un cappone, nella sesta un cuore di castrato;
e tutte, in poco più di ventiquattr’ore, inverminarono, e i vermi, passati che furono
cinque o sei giorni dal loro nascimento, si trasformarono al solito in uova; e da quelle
delle serpi, che tutte furono rosse e senza cavità, nacquero in capo a dodici giorni alcuni
mosconi turchini ed alcuni altri violati. Da quelle del piccion grosso, delle quali alcune
erano rosse ed altre nere, nacquero dalle rosse in capo a gli otto giorni mosche verdi, e
dalle nere nel decimoquarto giorno, avendo rotto il guscio in quella punta dove non è la
concavità, scapparono fuora altrettanti mosconi neri listati di bianco; e simili mosconi
listati di bianco si videro usciti nell’istesso tempo da tutte quell’altr’uova delle carni
della vitella, del cavallo, del cappone e del cuore di castrato; con questa differenza però,
che dal cuor di castrato, oltre i mosconi neri listati di bianco, ne nacquero ancora alcuni
di que’ turchini e di quei violati.
In questo mentre riposi in un vaso di vetro certi ranocchi di fiume scorticati e,
lasciato aperto il vaso e riconosciutolo il seguente giorno, trovai alcuni pochi vermi che
attendevano a divorargli e alcuni altri nuotavano nel fondo del vaso in cert’acqua
scolata dalla carne de’ suddetti ranocchi. Il giorno appresso erano i bachi tutti di statura
cresciuti; e n’erano nati infiniti altri che pur nuotavano sotto ed a galla di quell’acqua,
dalla quale talvolta uscendo andavano a cibarsi sopra l’ultime reliquie di quei ranocchi;
e nello spazio di due giorni avendole consumate, se ne stavano poscia tutti nuotando e
scherzando in quel fetido liquore; e talvolta sollevandosene, tutti molli ed imbrattati,
ancorché non avessero gambe, salivano, serpeggiando a lor voglia, scendevano e
s’aggiravano intorno al vetro e ritornavano al nuoto, infin a tanto che, non essendomene
accorto in tempo, vidi il susseguente giorno che, superata l’altezza del vetro, tutti quanti
se n’erano fuggiti. In quello stesso tempo furono riserrati da me alcuni di quei pesci
d’Arno, che barbi s’appellano, in una scatola tutta traforata e chiusa con coperchio
traforato esso ancora; e quando, passato il corso di quattr’ore, l’apersi, trovai sopra i
pesci una innumerabile moltitudine di vermi sottilissimi, e nelle congiunture della
scatola per di dentro ed all’intorno di tutti i buchi vidi appiccate ed ammucchiate molte
piccolissime uova, delle quali, essendo altre bianche ed altre gialle, schiacciate da me
fra l’unghia, sgretolandosi il guscio, gettavano un certo liquore bianchiccio più sottile e
men viscoso di quella chiara che si trova nell’uova de’ volatili. Raccomodata la scatola
come in prima ella si stava, ed il dì vegnente riapertala, mirai che da tutte quell’uova
erano nati altrettanti vermi, e che i gusci vòti stavano per ancora attaccati là dove furono
partoriti; e quei primi bachi veduti il giorno avanti eran cresciuti di grandezza al doppio:
ma quello che più mi sembrò pieno di maraviglia si fu che il seguente giorno arrivarono
a tal grandezza che ciascuno di loro pesava intorno a sette grani; e pure il giorno avanti
ne sarebbono andati venticinque e trenta al grano; ma gli altri usciti dell’uova erano
piccolissimi e tutti insieme, quasi in un batter d’occhio, finiron di divorare tutta quanta
la carne de’ pesci, avendo lasciate le lische e l’ossa così bianche e pulite che parevano
tanti scheletri usciti dalla mano del più diligente notomista d’Europa: e quei bachi posti
in luoghi di dove non potessero fuggire, ancorché sollecitamente se n’ingegnassero,
dopo che furon passati cinque o sei giorni dalla loro nascita, diventarono al solito
altrettante uova, altre rosse, altre nere; e tanto quelle tanto queste di differente
grandezza; dalle quali poi, ne’ giorni determinati, uscirono fuori mosche verdi, mosconi
turchini ed altri neri listati di bianco; ed altre mosche ancora di quelle che simili in
qualche parte alle locuste marine ed alle formiche alate di sopra ho descritte. Oltre
queste quattro razze vidi ancora otto o dieci di quelle mosche ordinarie che intorno alle
nostre mense ronzano e s’aggirano: e perché, passato il ventunesimo giorno, m’accorsi
che tra l’uova nere più grosse ve n’erano alcune che per ancora non eran nate, le separai
dall’altre in differente vaso; e due giorni appresso cominciarono da quelle ad uscir fuora
certi piccolissimi e neri moscherini, il numero de’ quali in due altri giorni essendo
divenuto di gran lunga maggiore di quello dell’uova, apersi il vaso e, rotte cinque o sei
di quell’uova istesse, le trovai piene zeppe dei suddetti moscherini a tal segno che ogni
guscio n’avea per lo meno venticinque o trenta ed al più quaranta: e continuando a far
simili esperienze molte e molt’altre volte, or colle carni e crude e cotte del toro, del
cervio, dell’asino, del bufolo, del leone, del tigre, del cane, del capretto, dell’agnello,
del daino, della lepre, del coniglio, del topo, or con quelle della gallina, del gallo
d’lndia, dell’oca, dell’anitra, della cotornice, della starna, del rigogolo, della passera,
della rondine e del rondone, e finalmente con varie maniere di pesci, come tonno,
ombrina, pesce spada, pesce lamia, sogliola, muggine, luccio, tinca, anguilla, gamberi di
mare e di fiume, granchi ed arselle sgusciate, sempre indifferentemente ne nacque ora
l’una ora l’altra delle suddette spezie di mosche; e talvolta da un solo animale tutte
quante le mentovate razze insieme; ed oltre ad esse molt’altre generazioni di moscherini
neri al colore, alcuni de’ quali erano così minuti che a pena dagli occhi poteano esser
seguiti per la picciolezza loro; e quasi sempre io vidi su quelle carni e su quei pesci, ed
intorno ai forami delle scatole dove stavan riposti, non solo i vermi, ma ancora l’uova,
dalle quali, come ho detto di sopra, nascono i vermi: le quali uova mi fecero sovvenire
di quei cacchioni che dalle mosche son fatti o sul pesce o sulla carne, che divengon poi
vermi: il che fu già benissimo osservato da’ compilatori del Vocabolario della nostra
Accademia; e si osserva parimente da’ cacciatori nelle fiere da loro negli estivi giorni
ammazzate, e da’ macellai e dalle donnicciuole che, per salvar la state le carni da
quest’immondizia, le ripongono nelle moscaiuole o con panni bianchi le ricuoprono.
Laonde con molta ragione il grande Omero nel libro diciannovesimo dell’Iliade fece
temere ad Achille che le mosche non imbrattassero co’ vermi le ferite del morto
Patroclo in quel tempo che egli s’accingeva a farne contro d’Ettore la vendetta. Timor,
dice egli parlando con Tetide,
Ma timor mi grava, che nelle piaghe di Patroclo
intanto vile insetto non entri,
che di vermi generator,
la salma (ahi! Senza vita) ne guasti sì,
che tutta imputridisca.
E perciò la pietosa madre gli promesse che, colla sua divina possanza, avrebbe tenute
lontane da quel cadavero l’impronte schiere delle mosche, e contro l’ordine della natura
l’avrebbe conservato incorrotto ed intiero anco per lo spazio d’un anno.
Pensier di questo non ti prenda, o figlio,
gli rispose la Dea: l’infesto sciame
divoratore de’ guerrieri uccisi io ne terrò lontano.
Ov’anco ei giaccia intero un anno,
farò sì che il corpo incorrotto ne resti e ancor più bello.
Di qui io cominciai a dubitare se per fortuna tutti i bachi delle carni dal seme delle
sole mosche derivassero e non dalle carni stesse imputridite, e tanto più mi confermava
nel mio dubbio quanto che, in tutte le generazioni da me fatte nascere, sempre avea io
veduto sulle carni, avanti che inverminassero, posarsi mosche della stessa spezie di
quelle che poscia ne nacquero; ma vano sarebbe stato il dubbio se l’esperienza
confermato non l’avesse. Imperciocché a mezzo il mese di luglio in quattro fiaschi di
bocca larga misi una serpe, alcuni pesci di fiume, quattro anguillette d’Arno ed un taglio
di vitella di latte; e poscia, serrate benissimo le bocche con carta e spago e benissimo
sigillate, in altrettanti fiaschi posi altrettante delle suddette cose e lasciai le bocche
aperte: né molto passò di tempo che i pesci e le carni di questi secondi vasi diventarono
verminose; ed in essi vasi vedevansi entrare ed uscir le mosche a lor voglia, ma ne’
fiaschi serrati non ho mai veduto nascere un baco, ancorché sieno scorsi molti mesi dal
giorno che in essi quei cadaveri furono serrati: si trovava però qualche volta per di fuora
sul foglio qualche cacchione o vermicciuolo, che con ogni sforzo e sollecitudine
s’ingegnava di trovar qualche gretola da poter entrare per nutricarsi in quei fiaschi
dentro a’ quali di già tutte le cose messevi erano puzzolenti, infracidate e corrotte; ed i
pesci di fiume, eccettuate le lische, s’erano tutti convertiti in un’acqua grossa e torbida
che a poco a poco, dando in fondo, divenne chiara e limpida con qualche stilla di grasso
liquefatto notante nella superficie; dalla serpe ancora scolò molt’acqua, ma il cadavero
di lei non si disfece, anzi si conserva ancora sano quasi ed intiero, con gli istessi colori,
come se ieri là dentro fosse stato rinchiuso; pel contrario l’anguille fecero
pochissim’acqua; ma rigonfiando e ribollendo, ed a poco a poco perdendo la figura,
diventarono com’una massa di colla o di pania tenace assai e viscosa; ma la vitella,
dopo molte e molte settimane, rimase arida e secca. Non fui però contento di queste
esperienze sole; anzi che infinite altre ne feci in diversi tempi e in diversi vasi; e per non
tralasciar cosa alcuna intentata, infin sotto terra ordinai più d’una volta che fossero
messi alcuni pezzi di carne che, benissimo colla stessa terra ricoperti, ancorché molte
settimane stessero sepolti, non generarono mai vermi, come gli produssero tutte l’altre
maniere di carni sulle quali s’erano posate le mosche: e di non lieve considerazione si è
che del mese di giugno, avendo messo in una boccia di vetro di collo assai lungo ed
aperto l’interiora di tre capponi, colà dentro bacarono; e non potendo tutti quei bachi per
la soverchia altezza del collo scapparne fuora, ricadevano nel fondo della boccia, e quivi
morendo servivano di pastura e di nido alle mosche, le quali continuarono a farvi bachi
non solo tutta la state, ma ancora fino agli ultimi giorni del mese d’ottobre. Feci ancora
un giorno ammazzare una buona quantità di bachi nati nella carne di bufolo; e riposti
parte in vaso chiuso e parte in vaso aperto, in quei primi non si generò mai cosa alcuna,
ma ne’ secondi nacquero i vermi che, trasmutatisi in uova, diventarono in fine mosche
ordinarie: e lo stesso per appunto avvenne d’un gran numero delle suddette mosche
ordinarie ammazzate e riposte in simili vasi aperti e serrati: imperciocché nulla nascer
mai si vide nel vaso serrato; ma nell’aperto vi nacquero i bachi da’ quali, dopo esser
diventati uova, nacquero mosche della stessa spezie di quelle sulle quali erano nati i
bachi: di qui potrei forse conghietturare che il dottissimo padre Atanasio Chircher,
uomo degno di qualsivoglia lode più grande, prendesse, non so come, un equivoco nel
libro duodecimo del Mondo sotterraneo, dove propone l’esperimento di far nascere le
mosche dai loro cadaveri. S’irrorino, dice questo buon virtuoso, i cadaveri delle mosche
e s’inzuppino con acqua melata; quindi sopra una piastra di rame s’espongano al tiepido
calore delle ceneri, e si vedranno insensibilmente nascere da essi alcuni minutissimi e
per mezzo del solo microscopio visibili vermicciuoli che, a poco a poco spuntando l’ali
dal dorso, pigliano la figura di piccolissime mosche; le quali pure, a poco a poco
crescendo, diventano mosche grandi e di perfetta statura. Ma io per me mi fo a credere
che quell’acqua melata non serva ad altro che ad invitar più facilmente le viventi
mosche a pascersi di quei cadaveri ed a lasciare in quegli le loro semenze; e poco, anzi
nulla, tengo che importi il farne la sperienza in vaso di rame ed al tiepido calor delle
ceneri; imperocché sempre, ed in ogni luogo, da que’ cadaveri nasceranno i vermi, e da’
vermi le mosche, purché su quegli dalle stesse mosche sieno stati partoriti i vermi o i
semi de’ vermi. Io non intendo già come que’ sottilissimi vermi descritti dal Chircher si
trasformino in picciole mosche senza prima, per lo spazio d’alcuni giorni, essere stati
convertiti in uova; e non intendo ancora, ingenuamente confessando la mia ignoranza,
come quelle mosche possano nascere così piccole e poi vadano crescendo: imperocché
le mosche tutte, i moscherini, le zanzare e le farfalle, per quanto mille volte ho veduto,
scappano fuora dal loro uovo di quella stessa grandezza la quale conservano tutto il
tempo di loro vita. Ma, oh quanto a questa sola esperienza non ben considerata delle
mosche rinate da’ cadaveri delle mosche si sarebbono rallegrati e, per così dire,
ringalluzzati coloro che dolcemente si diedero ad intendere di poter far rinascere gli
uomini dalla carne dell’uomo per mezzo della fermentazione, o d’altro somigliante o
più strano lavoro. Io son di parere che vi avrebbon fatto sopra un fondamento
grandissimo e, con vanagloriosa burbanza raccontandola, avrebbon poscia esclamato:
Così per gli gran savi si confessa
Che la Fenice muore e poi rinasce.
Quindi si sarebbon forse messi a quell’incredibil cimento tentato fin ad ora da più
d’uno, siccome io già bugiardamente ascoltai ragionare. Ma non merita il conto
l’affaticarsi per confutar le ridicolose ciance di costoro, imperocché, come disse
Marziale,
Turpe est difficiles habere nugas,
Et stultus labor est ineptiarum.
E tanto più che il celebratissimo padre Atanasio Chircher nel libro undecimo del
Mondo sotterraneo ha nobilmente confutata, e con sodezza di ragioni, la follia del
parabolano Paracelso, il quale empiamente volle darci ad intendere una ridicolosa
maniera di generare gli omiciatti nelle bocce degli alchimisti. Rimango bene molto più
scandalizzato di alcuni altri, che sopra somiglianti menzogne gettano i fondamenti e le
conghietture di quell’altissimo misterio nella fede cristiana della resurrezione de’ corpi
alla fine del mondo. Il greco Giorgio Pisida si fu uno di costoro, esortando a crederla
coll’esemplo della Fenice, ed il famosissimo e celebratissimo signor de’ Digbì col
rinascimento de’ granchi dal proprio lor sale con manifattura chimica preparato e
condotto. Ah che i santi e profondi misteri di nostra fede non possono dall’umano
intendimento essere compresi e non camminano di pari con le naturali cose, ma sono
speciale e mirabil fattura della mano di Dio; il quale, mentre che venga creduto
onnipotente, l’altre cose tutte facilissimamente e a chius’occhi creder si possono e si
debbono; e credute a chius’occhi più s’intendono: onde quel gentilissimo italiano poeta
cantò:
I segreti del Ciel sol colui vede
Che serra gli occhi e crede.
Ma tralasciata questa lunga digressione, per tornare al primo filo fa di mestiere ch’io
vi dica che, quantunque a bastanza mi paresse d’aver toccato con mano che dalle carni
degli animali morti non s’ingenerino i vermi se in quelle da altri animali viventi non ne
sieno portate le semenze, nientedimeno per tor via ogni dubbio ed ogni opposizione che
potesse esser fatta per cagione delle prove tentate ne’ vasi serrati, ne’ quali l’ambiente
aria non può entrare e uscire, né liberamente in quegli rinnovarsi, volli ancora tentar
nuove esperienze col metter le carni ed i pesci in un vaso molto grande, e, acciocché
l’aria potesse penetrarvi, serrato con sottilissimo velo di Napoli e rinchiuso in una
cassetta, a guisa di moscaiuola, fasciata pure con lo stesso velo; e non fu mai possibile
che su quelle carni e su quei pesci si vedesse né meno un baco: se ne vedevano però non
di rado molti aggirarsi per di fuora sopra il velo della moscaiuola, che, tirati dall’odor
delle carni, talvolta dentro di quella penetravano per i sottilissimi fori del fitto velo; e,
chi non fosse stato lesto a cavargli fuora, sarebbon forse ancora arrivati ad entrar nel
vaso, con tanto studio ed industria facevano ogni loro sforzo per arrivarvi; ed una volta
osservai che due bachi, avendo felicemente penetrato il primo velo ed essendo caduti
sopra il secondo che serrava la bocca del vaso, anco su questo s’erano tanto aggirati che
già con la metà del corpo l’avevano superato, e poco mancava che non fossero su quelle
carni andati a crescere. E curiosa cosa era in questo mentre il veder ronzare intorno
intorno i mosconi che, di quando in quando posandosi sul primo velo, vi partorivano i
bachi; e posi mente che taluno ve ne lasciava sei o sette per volta, e taluno gli figliava
per aria, avanti che al velo s’accostasse; e questi forse erano di quella razza stessa della
quale racconta lo Scaligero essersi per fortuna imbattuto, che un moscone da lui preso
gli partorisse nella mano alquanti di quei piccoli vermi; e da tale avvenimento suppose
egli che tutte le mosche generalmente figliassero bachi viventi e non uova: ma quanto
quel dottissimo uomo s’ingannasse a bastanza si può conoscere per quello che di sopra
ho scritto. Ed in vero alcune razze di mosche partoriscono vermi vivi, ed alcune altre
partoriscono uova, e me ne son certificato con l’esperienza e su ‘l fatto; né mi convince
punto né poco l’autorevolissima testimonianza del sapientissimo padre Onorato Fabri
della venerabile Compagnia di Giesù il quale, al contrario di quel che tenne lo
Scaligero, ha creduto nel libro della generaz. degli anim. che le mosche figlino sempre
l’uova e non mai i vermi. È può ben essere che le stesse razze delle mosche (io non
affermo e non nego) alle volte facciano l’uova ed alle volte i vermi vivi, e che di lor
natura farebbon forse sempre l’uova se ‘l caldo maturativo della stagione non gliele
facesse nascere in corpo, e per conseguenza elle partorissero poi i vermi vivi e
semoventi, come mille volte effettivamente ho veduto.
S’ingannò altresì l’accuratissimo Giovanni Sperlingio avendo scritto nella Zoologia
che que’ bachi delle mosche non son partoriti da esse mosche, ma bensì che e’ nascono
dallo sterco delle medesime; e per renderne la ragione, con falso presupposto soggiunse:
Ratio huius rei animis candidis obscura esse nequit; muscae enim omnia liguriunt,
vermiumque materiam una cum cibo assumunt, assumptamque per alvum reddunt. Non
osservò lo Sperlingio quel ch’ognuno può giornalmente osservare, ed è che le mosche
hanno la loro ovaia divisa in due celle separate le quali contengono l’uova o cacchioni, e
gli tramandano ad un solo e comune canaletto, giù per lo quale son tramandate fuor del
corpo ed in quantità così grande che par cosa incredibile, essendoché certe mosche verdi
son tanto feconde che ognuna di esse avrà nell’ovaia fino a dugento cacchioni;
s’ingannò dunque lo Sperlingio credendo che i vermi delle mosche nascessero dallo
sterco di esse mosche, e con lo Sperlingio s’ingannò forse ancora il dottissimo padre
Atanasio Chircher, che ebbe una non molto dissimile opinione. Ma non meno di questi
due famosi scrittori andò lontano dal vero un grandissimo virtuoso e mio carissimo
amico il quale, avendo veduto che un moscone incappato nella rete, ogni volta che dal
ragno era morso, gettava qualche verme, venne in opinione che le morsure del ragno
virtude avessero e possanza di fare inverminare i corpi delle mosche. Non invermina
adunque, per quanto ho riferito, animale alcuno che morto sia.
Or come potrà esser vero ciò che dagli scrittori vien riferito e creduto delle pecchie,
che elle nascano dalle carni de’ tori imputridite, e che perciò, come racconta Varrone, i
Greci le chiamassero nate da buoi? Questa è una di quelle menzogne che anticamente a
caso da qualcuno favolosamente inventate, da altri, come se fossero mere veritadi,
furono poi raffermate e di nuovo scritte, e sempre con qualche giunta, imperciocché non
tutti gli autori raccontano ad un modo la maniera di questa maravigliosa generazione, e
non sono tra di loro d’accordo. Columella si dichiarò che non voleva perderci il tempo,
aderendo all’opinione di Celso, il quale non credette che si potesse mai del tutto
spegnere la razza delle pecchie: onde superfluo sarebbe stato il cercarle tra le viscere de’
tori. Magone però, citato da Columella, insegna i soli ventri del toro essere a quest’opra
sufficienti; e Plinio aggiugne esser necessario che ricoperti sieno di letame. Antigono
Caristio, in quella sua Raccolta delle maravigliose narrazioni, vuole che un intero
giovenco si seppellisca sotto terra, ma che però rimangano scoperte le corna; dalle quali,
tagliate a suo tempo con la sega, ne volano fuora (come egli dice) le api.
Ad Antigono
aderisce in gran parte Ovidio nel primo libro de’ Fasti:
Qua, dixit, repares arte, requiris, apes?
Obrue mactati corpus tellure iuvenci.
Quod petis a nobis, obrutus ille dabit.
Iussa facit pastor, fervent examina putri
De bove: mille animas una necata dedit.
Varrone nel libro secondo e nel terzo Degli affari della villa non si dichiara se
necessario sia il seppellirlo, o se pure sia bene il lasciarlo imputridir sopra terra.
Columella anch’egli di questa particolarità non parla; e non ne parla ancora Eliano nel
secondo libro della Storia degli animali; e Galeno lo tace nel capitolo quinto di quel
libro che egli scrisse: Se animale sia ciò che nell’utero si contiene.
Virgilio però, nel
fine del quarto della Georgica, pare che tenesse opinione che non fosse necessario il
sotterrarlo, ma che bastasse lasciarlo nel bosco all’aria libera ed aperta:
Quattuor eximios praestanti corpore tauros,
Qui tibi nunc viridis depascunt summa Lycaei,
Delige, et intacta totidem cervice iuvencas.
Quattuor his aras alta ad delubra dearum
Constitue, et sacrum iugulis demitte cruorem,
Corporaque ipsa boum frondoso desere luco.
E appresso:
Post, ubi nona suos, aurora induxerat ortus,
Inferias Orphei mittit, lucumque revisit.
Heic vero subitum ac dictu mirabile monstrum
Adspiciunt, liquefacta boum per viscera toto
Stridere apes utero et ruptis effervere costis,
Immensasque trahi nubes, iamque arbore summa
Confluere et lentis uvam demittere ramis.
E pure non molti versi avanti detto avea che necessario era eleggere un luogo murato
e coperto:
Exiguus primum atque ipsos contractus ad usus
Eligitur locus; hunc angustique imbrice tecti
Parietibusque premunt arctis, et quattuor addunt,
Quattuor a ventis obliqua luce fenestras.
Ma Iuba, re della Libia, appresso Fiorentino, nel quintodecimo libro degli
Ammaestramenti dell’agricoltura, attribuiti all’imperadore Costantino Pogonato, voleva
che si rinchiudesse il vitello in un’arca di legno, se bene il soprammentovato Fiorentino
pare che non l’approvi; anzi, con l’opinione di Democrito e di Varrone, attenendosi al
detto di Virgilio, afferma che questa faccenda far si dee in una stanza fabbricata a posta
per quest’effetto, e n’insegna il modo minutamente di giorno in giorno dal principio
insino al fine; quindi soggiugne che la plebe delle pecchie nasce dalle carni del toro, ma
che i re s’ingenerano e nel cervello e nella spinal midolla, ancorché quegli del cervello
sieno maggiori, più belli e più forti. Ma del numero de’ giorni ne’ quali resta compiuta
l’opera, egli è molto lontano da quel che ne scrisse Virgilio, il quale ne assegnò nove;
ed egli arriva sino al numero di trentadue; e Gio. Rucellai nel suo gentilissimo poemetto
dell’Api, senza farne menzione, sotto silenzio gli passa, ancorché tutto quanto questo
magistero diffusamente descriva:
Ma però s’elle ti venisser meno
Per qualche caso, e destituto fossi
Dalla speranza di poter averne
D’alcun luogo vicino, io voglio aprirti
Un magistero nobile e mirando
Che ti farà col putrefatto sangue
Da i morti tori ripararle ancora,
Come già fece il gran pastor d’Arcadia
Ammaestrato dal ceruleo vate,
Che per l’ondoso mar Carpazio pasce
Gli armenti informi de le orribil foche:
Perciò che quella fortunata gente
Che beve l’onde del felice fiume
Che stagna poi per lo disteso piano
Presso al Canopo, ove Alessandro il grande
Pose l’alta città ch’ebbe il suo nome,
La quale ha intorno sé le belle ville
Che la riviera de le salubri onde
Riga e le mena le barchette intorno;
Questo venendo lunge fin da gl’lndi,
Ch’hanno i lor corpi colorati e neri,
Feconda il bel terren del verde Egitto
E poi sen’ va per sette bocche in mare.
Questo paese adunque intorno al Nilo
Sa il modo che si dee tener chi vuole
Generar l’api e far novelli esami.
Primieramente eleggi in picciol loco,
Fatto e disposto sol per tale effetto,
E cingi questo d’ogni parte intorno
Di chiusi muri, e sopra un picciol tetto
D’embrici poni, ed indi ad ogni faccia
Apri quattro finestre che sian vòlte
A i quattro primi venti, onde entrar possa
La luce che suol dar principio e vita
E moto e senso a tutti gli animanti;
Poi vo’ che prenda un giovanetto toro,
Che pur or curvi le sue prime corna
E non arrivi ancora al terzo maggio,
E con le nari e la bavosa bocca
Soffi mugghiando fuori orribil tuono;
D’indi con rami ben nodosi e gravi
Tanto lo batterai che caschi in terra,
E fatto questo chiudilo in quel loco,
Ponendo sotto lui popoli e salci,
E sopra cassia con serpillo e timo;
E nel principio sia di primavera
Quando le grue tornando a le fredde alpi
Scrivon per l’aere liquido e tranquillo
La biforcata lettera de i Greci.
In questo tempo da le tenere ossa
Il tepefatto umor bollendo ondeggia
(O potenza di Dio quanto sei grande,
Quanto mirabil!): d’ogni parte allora
Tu vedi pullular quegli animali,
Informi prima, tronchi e senza piedi,
Senz’ali, vermi, e ch’hanno appena il moto.
Poscia in quel punto quel bel spirto infuso
Spira e figura i piè, le braccia e l’ale,
E di vaghi color le pinge e inaura.
Ond’elle fatte rilucenti e belle
Spiegano all’aria le stridenti penne,
Che par che siano una rorante pioggia
Spinta dal vento in cui fiammeggi il sole,
O le saette lucide che i Parti,
Ferocissima gente, ed ora i Turchi
Scuoton da i nervi degl’incurvat’archi.
Non mancarono molt’altri poeti e tra i Greci e tra’ Latini che accennassero questo
nascimento dell’api, e particolarmente Fileta di Coo, che fu maestro di Tolomeo
Filadelfo, Archelao Ateniese, o Milesio citato da Varrone, Filone Tarsense nella
descrizione del suo famosissimo antidoto, Giorgio Pisida, Nicandro e gentilmente
Ovidio nel decimoquinto delle Trasformazioni:
I quoque, delectos mactatos obrue tauros
(Cognita res usu), de putri viscere passim
Florilegae nascuntur apes, quae more parentum
Rura colunt operique favent in spemque laborant.
Lo confermano ancora molti prosatori, tra’ quali è da vedersi Origene, Plutarco nella
Vita del secondo Cleomene, Filone Ebreo nel trattato delle vittime; ed a questi antichi
aderiscono tutti i filologi e tutti i filosofi moderni che ammettono questa favola per vera
e sovente, sul di lei fondamento, pretendono di fabbricare macchine grandissime; ed
insino quel sublime scrittore, quel fulgidissimo lume delle scuole moderne, Pietro
Gassendo, per cosa vera la racconta; ed avendo osservato che Virgilio dà per precetto
che tale operazione si faccia al principio della primavera e prima che l’erbe fioriscano,
Hoc geritur Zephyris primum impellentibus undas,
Ante novis rubeant quam prata coloribus, ante
Garrula quam tignis nidum suspendat hirundo,
dice che con molta ragione ciò viene avvertito, conciossiecosaché in quel tempo il
giovenco ha pasciuto l’erbe pregne di vari semi, che sarebbon poi germogliati in fiori; e
soggiugne che dallo stesso Virgilio e da Fiorentino con molta ragione parimente fu
comandato che il morto vitello sopra uno strato di timo e di cassia s’adagiasse;
imperocché il timo e la cassia contengono semi abilissimi alla generazione delle
pecchie; i quali tutti spiritosi e odoriferi, penetrando nel fracidume di quel cadavero, lo
dispongono a vestir la forma di quegl’industriosi animaletti.
Molti furono e sono di tale opinione imbevuti, come sarebbe a dire Pietro Crescenzi,
Ulisse Aldovrando, Fortunio Liceti, Girolamo Cardano, Tommaso Moufeto, Giovanni
Jonstono, Francesco Osvaldo Grembs, Tommaso Bartolini, Francesco Folli inventore
dello strumento da conoscer l’umido e ‘l secco dell’aria, ed il curiosissimo Filippo
Iacopo Sachs, il quale nella sua erudita Gamberologia fa ogni sforzo possibile per
mantenerla in concetto di vera: e se bene Giovan Batista Sperlingio, molto accorto e
diligente scrittore, nella Zoologia saggiamente detto avea che in una grande e
pestilenziosa mortalità di armenti non si era nel paese di Vittemberga né veduta mai né
osservata questa generazione di api fattizie, contuttociò il Sachs, chiamando in aiuto
Gherardo Giovanni Vossio nel quarto libro dell’Idolatria, risponde esser ciò potuto
avvenire per la freddezza di quel paese inabile a poter generare e nutrire que’ volanti
insetti; e lo stesso padre Atanasio Chircher credé verissima quella nascita artificiosa
delle pecchie; anzi, nel libro duodecimo del Mondo sotterraneo, insegnò ancora che
dallo sterco de’ buoi pullulano alcuni vermi a guisa di bruchi i quali, in breve tempo
mettendo l’ali, si cangiano in api. Io non so se questo commendabile autore ne abbia
mai fatta oculatamente la sperienza; so bene che quando ho fatto tenere in luogo aperto,
come vuole esso padre Chircher, lo sterco e de’ buoi e di qualsivoglia altro animale,
sempre ne son nati i bachi e di primavera e di state e d’autunno; e da’ bachi ne son sorte
le mosche ed i moscherini, e non l’api; ma se l’ho fatto conservare in luogo chiuso,
dove le mosche ed i moscherini non abbian potuto penetrare né figliarvi sopra le loro
uova, non vi ho mai veduto nascere cosa alcuna: e di qui si scorge evidentemente quanto
senza ragione Frate Alberto Tedesco, cognominato Magno, affermasse che dal letame
putrefatto nascer sogliano le mosche. Ma, per non uscir del filo, vi torno di nuovo a
scrivere che infiniti sono gli autori moderni che si persuadono che dalle carni de’ tori
abbian vita le pecchie: nel libro Della generazione degli animali se lo persuade il
dottissimo padre Onorato Fabri, le di cui opere famose non saran mai sepolte nelle
tenebre della dimenticanza. Molti e molti altri ancora vi potrei annoverare se non fossi
chiamato a rispondere alle rampogne di alcuni che bruscamente mi rammentano ciò che
si legge nel capitolo quattordicesimo del Sacrosanto Libro de’ Giudici: che Sansone
colà nelle vigne di Tannata, avendo ammazzato un leone, e volendo dipoi rivederne il
cadavero, ritrovò in quello uno sciame bellissimo di api le quali vi aveano fabbricato il
mele; dal che fu indotto Tommaso Moufeto a scrivere nel suo Teatro degl’insetti che le
api, altre nascono dalla carne de’ tori, e son chiamate nate da tori, ed altre dalla carne
de’ leoni, e son dette nate da leoni, e che queste son di miglior razza e più generose e
più forti: e di qui avviene che, ribollendo loro in seno i semi della paterna ferocia, non
temono di assalire, se irritate sieno, gli uomini stessi e di ammazzare ancora ogni
animale più grande; onde Aristotile e Plinio fanno testimonianza da quelle essere stati
uccisi infin de’ cavalli: quindi soventi fiate ne’ Sacrosanti Libri vengon paragonati i più
forti ed i più terribili nemici alle pecchie e particolarmente in Isaia: Sibilabit Dominus
api, quae est in terra Assur; il che da’ Caldei fu interpretato: Darà voce il Signore a
poderosissimi eserciti, che son forti come le pecchie, e gli condurrà da’ confini della
terra d’Assiria. E ‘l rabbino Salomone, spiegando questo passo, dice: Darà voce all’api,
cioè ad un esercito di uomini fortissimi, che feriscono come le api.
Questa difficultà fu considerata dall’eruditissimo e sapientissimo Samuel Bociarto
nella seconda parte del suo famoso Ierozoico, e saggiamente da lui fu risposto esser
vero che nel cadavero del leone furon trovate dal suo uccisore le pecchie, ma che per
questo non si dee argomentare che elle vi fossero nate, né il Sacro Testo lo dice: anzi dal
Sacro Testo si può cavare che allora quando Sansone volle riveder quella morta bestia,
ella non era più, per così dire, un cadavero, ma uno scheletro d’ossa senza carne; e
scheletro appunto vuol intendere il siriaco interprete con quelle parole
[parola in lingua siriaca tradotta in latino come “cadaver osseum”]. Soggiunge poscia il
medesimo Bociarto che ben poteva il leone esser divenuto uno scheletro arido e nudo,
conciossiecosaché quando Sansone ritornò per vederlo, ciò avvenne, come si legge nel
testo ebreo, dopo giorni, cioè dopo un anno; e questo modo di favellare, e di prendere i
giorni per l’anno, afferma esser frequentissimo nella Sacra Scrittura, e dottamente ne
cita molti e molti passi che per brevità tralascio.
Se dunque Sansone ritornò dopo un anno a riveder quel cadavero, verisimil cosa è
che non fosse allora altro che un nudo scheletro, dentro al quale non abborriscono le
pecchie di fare il mele; e ne fa testimonianza Erodoto, raccontando che gli Amatusi,
avendo tagliato il capo ad un certo Onesilo, e confittolo sopra le porte di Amatunta, ed
essendo di già inaridito, uno sciame di api vi fabbricò i suoi favi; ed un altro gli fabbricò
medesimamente nel sepolcro del divino Ippocrate, se crediamo a Sorano nella di lui
vita; ed io mi ricordo aver più volte udito dire al Cavalier Francesco Albergotti, letterato
di non ordinaria erudizione, ch’ei ne vide un giorno un non piccolo sciame appiccato al
teschio d’un cavallo.
Potrebbe qui forse esser mosso un altro dubbio, se per fortuna fosse avvenuto che le
pecchie si fossero gettate a mangiar le carni di quel leone, ed in mangiandole vi
avessero fatti sopra i loro semi o partoriti i loro cacchioni, da’ quali nate poi le
giovanette api avessero potuto nella tessitura di quell’ossa fabbricare i fiali del mele; e
tanto più che questa fu l’opinione del Franzio, allora che nella Storia degli animali ebbe
a favellare delle carni de’ buoi. Ma io risponderei che le pecchie sono animali
gentilissimi, e così schivi e delicati che non solo non si cibano delle carni morte, ma né
meno su quelle si posano, e l’hanno incredibilmente a schifo. N’ho più volte in vari
tempi ed in luoghi diversi fatta esperienza, attaccando de’ pezzi di carne sopra ed
intorno agli alveari; e mai le pecchie ad esse carni non si son volute accostare; e se voi,
Signor Carlo, non lo voleste totalmente credere a me, datene fede per lo meno ad
Aristotile nel cap. quarantesimo del IX lib. della Storia degli animali; credetelo a
Varrone, a Didimo, che lo copiò da Varrone, al greco Manuel File che, cavando quasi
interamente la su’ opera da Eliano, fiorì ne’ tempi o di Michele Curopalata, o vero di
Michel Balbo imperatori di Costantinopoli:
..........................................................
[e la saggia ape vive una vita quasi pura,
dal momento che non si ciba di resti di cadaveri]
e finalmente a Plinio, che nell’undecimo libro lasciò scritto: Omnes carne vescuntur,
contra quam apes, quae nullum corpus attingunt. Ma il buon Plinio, scordatosi forse poi
di aver ciò riferito, contraddicendo a sé medesimo nel capitolo decimoquarto del
ventunesimo libro scrisse: Si cibus deesse censeatur apibus, uvas passas siccasve
ficosque tusas ad fores earum posuisse conveniet. Item lanas tractas madentes passo
aut defruto, aut aqua mulsa. Gallinarum etiam crudas carnes.
Considerando questa così manifesta contraddizione di Plinio, meco medesimo più
volte ho temuto che nel ventunesimo libro potesse essere errore di scrittura, ma son
uscito di dubbio imperocché, avendo confrontato questo passo con molti antichi testi a
penna delle più celebri librerie d’ltalia, in tutti ho trovato costantemente le stesse parole,
sì come le trovo nell’antico Plinio stampato in Roma nel 1473 ed in quello di Parma del
1480. Vi è però questa differenza, che in tutti gli stampati ha: Gallinarum etiam crudas
carnes; ma ne’ manuscritti per lo più, e nelle Osservazioni del Pinziano si legge:
Gallinarum etiam nudas carnes. Qual sia la miglior lezione lo potranno giudicare i
critici; io quanto a me credo che Plinio scrivesse crudas carnes, e lo imparasse da
Columella il quale nel capitolo quattordicesimo del libro nono insegnò che, quando
mancava il cibo alle pecchie, alcuni costumavano intromettere degli uccelli morti non
pelati negli alveari; e son queste esse le sue parole: Quidam exemptis interaneis occisas
aves intus includunt, quae tempore hyberno plumis suis delitescentibus apibus praebent
teporem: tum etiam si sunt assumpta cibaria, commode pascuntur esurientes, nec nisi
ossa earum relinquunt. Ma strana cosa è il prurito grande che hanno gli scrittori di
contraddirsi l’un l’altro; e di qui avvenne forse che Pietro Crescenzi volle che fosse data
alle pecchie affamate non la cruda carne, ma il pollo arrostito. Quando (dice egli) molto
impoveriscono del mele, il quale si conosce al vedere, se di sotto si ragguardi, o al
peso: o vero meglio facendo un foro sopra la parte mezzana, e per questo un fuscel
netto dentro messo dia loro del mele o vero pollo arrostito, o vero altre carni. Crederei
dunque, per salvare il detto di Plinio, che le pecchie non mangiassero mai carne se non
cacciate dalla carestia e dalla fame, e ben lo disse Columella nel soprammentovato
capitolo, parlando di que’ morti uccelli: Si autem favi sufficiant, permanent illibatae.
Anzi Columella conobbe molto bene che era forse una vanità ed un voler far contro alla
natura delle pecchie, dando loro le carni per cibo, e perciò soggiunse: Melius tamen nos
existimamus tempore hyberno fame laborantibus ad ipsos aditus in canaliculis, vel
contusam et aqua madefactam ficum aridam, vel defrutum aut passum praebere; e di tal
credenza forse furono Varrone, Virgilio e Palladio, i quali non fanno mai menzione di
somministrar la carne all’api nella mancanza del mele. In somma le api hanno differente
natura da quella de’ calabroni e delle vespe; imperocché e queste e quegli avidamente
assaporano tutte quante le carni e tutte quante le carogne che loro si paran davanti, ed io
più volte ne ho fatta la prova; e non si contentano di mangiarne ma, razzolandole e
facendone alcune piccole pallottole, se le portano per avventura ne’ loro vespai; e ne
son queste bestiuole così rottamente golose che talvolta per cibarsene hanno ardire
d’affrontare gli animali viventi; e Tommaso Moufeto nel Teatro degl’insetti racconta
essere stato osservato in Inghilterra che un calabrone, perseguitando una passera, e
finalmente avendola ferita e morta, fu veduto satollarsi del di lei sangue. Non la
perdonano altresì alle carni umane: quindi è che Cointo Smirneo disse che i Greci in
compagnia di Neoptolemo si scagliavano alla battaglia, come fanno per appunto le
vespe quando, spiccandosi da’ loro vespai, bramano pascersi di qualche corpo umano; e
quel sovrano Poeta, che nelle sue divine opere
Mostrò ciò che potea la lingua nostra,
prese argomento di descriver favoleggiando le pene d’alcuni che nella prima entrata
dell’lnferno erano tormentosamente puniti:
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
Erano ignudi e stimolati molto
Da mosconi e da vespe ch’eran ivi;
Elle rigavan lor di sangue il volto,
Che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
Da fastidiosi vermi era ricolto.
Son ghiottissime le vespe de’ serpenti, se merita fede Plinio, e con questo alimento,
dic’egli, si rendono più velenose le loro punture: il che vien confermato da Eliano nel
capitolo quintodecimo del libro nono della Storia degli animali, e nel capitolo
decimosesto del libro quinto, dove rapporta che a bella prova corrono ad infettare il lor
pungiglione col tossico della morta vipera: dal che l’umana malizia apprese poi l’arte
d’avvelenar le frecce; ed Ulisse, come racconta Omero nell’Odissea, navigò in Efira per
impararla da un cert’Ilo Mermerida; e d’Ercole, molto prima che d’Ulisse, si racconta
che rendesse mortifere le sue saette col sangue dell’ldra. Non è però già da credere che
diventino avvelenate le punture delle vespe e de’ calabroni per essersi cibati della carne
di qualsisia serpe indifferentemente; imperocché questo caso allora solamente si può
dare quando abbiano tuffati gli aghi loro in quel pestifero liquore che sta nascosto nelle
guaine che cuoprono i denti canini della vipera o degli altri a lei simili serpentelli, come
fu da me accennato nelle mie Osservazioni intorno alle vipere. Se poi veramente i
calabroni e le vespe (conforme vuole Eliano) abbiano questa malvagia inclinazione di
natura, io non vorrei crederlo. Teofrasto, per quanto si legge nel frammento del libro
che scrisse degli animali che son creduti invidiosi, conservato nella Libreria di Fozio,
saggiamente tien per fermo che tal maligna invidia non si trovi mai negli animali, che
son privi di discorso: e se lo stellione si mangia la propria spoglia; se ‘l vitello marino
preso da’ cacciatori vomita il gaglio; se le cavalle strappano dalla fronte de’ figliuoli e si
divorano la favolosa ippomane; se il cervio (il che pure è menzogna) nasconde sotterra
il corno destro quando gli cade; se ‘l lupo cerviere cela alla vista degli uomini la propria
orina; e se ‘l riccio terrestre tra le mani de’ cacciatori si guasta coll’orina la pelle, ei
crede che lo facciano o per timore o per qualch’altra cagione appartenente a loro stessi,
e non perché vogliano invidiosamente privar gli uomini di que’ loro escrementi, dal
volgo creduti giovevoli per alcune malattie e per le ridicolose fatture degli stregoni. Ad
imitazione di Teofrasto ancor io direi che le vespe e i calabroni ronzassero intorno a’
cadaveri de’ serpenti non per avvelenare i loro pungiglioni, ma per lo sol fine di
nutricarsi, e per lo stesso fine avessero nimicizia e perseguitassero ostinatamente i
mosconi e le pecchie. Non è però che le vespe non vivano ancora di fiori e di frutti e
freschi e secchi; ma l’uva, ed in particolare la moscadella, troppo ingordamente la
divorano, come ne fan testimonianza Cointo Smirneo e Nicandro negli Alessifarmaci, e
si vede tutto giorno per esperienza.
Or se, come dissi, è menzogna che le pecchie nascano dalla carne imputridita de’
tori, favola non men credo che sia quel che da alcuni si narra, che nelle parti della
Russia e della Podolia si trovi una certa maniera di serpenti che si nutriscono di latte ed
anno il capo ed il becco simile all’anitre, e son chiamati zmija, i quali generano dentro
de’ loro corpi viventi e partoriscono poi per bocca, o per meglio dire, vomitano ogni
anno a poco a poco due sciami di pecchie almeno, che in lingua del paese dette sono
zmijoiocki, e ritenendo molto della natura serpentina s’armano d’un pungiglione
velenoso e poco men che mortale.
Questo racconto in quelle provincie è tenuto per cosa
certissima, e molti riferiscono d’aver veduti di que’ sì fatti serpenti; e fu ancora
confermato in Parigi dalla testimonianza d’un tal Signor Szizucha, per quanto mi viene
scritto in una lettera dal dottissimo ed eruditissimo Signor Egidio Menagio.
Il Signor
Menagio però non vi presta fede, anzi tien per verisimile, se sia vero però che que’
serpenti vomitino di tempo in tempo delle pecchie, che ciò avvenga perché le abbiano
prima inghiottite vive nel tempo forse che rubano il mele dagli alveari. Il n’y a point
d’apparence (dic’egli) de croire que ces abeilles s’engendrent dans le corps de cette
sorte de serpens; et il est vraisemblable que ces serpens les ayant avallées avec leur
miel, car la plus part des serpens aiment les choses douces, ils les revomissent de suite,
en estant piquez. E una sola volta forse che ciò sia accaduto e che sia stato osservato,
può aver dato luogo alla favola ed all’universale credenza.
Sia com’esser si voglia, che
io tra queste suddette favole novero ancora quell’altra, che le vespe e i calabroni
riconoscano il loro nascimento da alcune maniere di carni putrefatte, ancorché dal
consenso universalissimo d’infiniti autori venga affermata per vera ed infallibile.
Antigono, Plinio, Plutarco, Nicandro, Eliano ed Archelao citato da Varrone,
insegnano che le vespe abbiano origine dalle morte carni de’ cavalli. Virgilio lo
confessa non solo delle vespe, ma ancora de’ calabroni. Ovidio, tacendo delle vespe, fa
menzione de’ calabroni solamente:
Pressus humo bellator equus crabronis origo est.
Tommaso Moufeto riferisce che dalla carne più dura de’ cavalli nascono i calabroni,
e dalla più tenera le vespe. Ma i greci chiosatori di Nicandro attribuiscono cotal virtude
non alla carne, ma alla pelle, con questa condizione però, che il cavallo sia stato morso
ed azzannato dal lupo. Giorgio Pachimero afferma che non dalla pelle, né dalle carni,
ma dal solo cervello nascono le vespe; e il Lando fa nascere i calabroni dal cervello
dell’asino. Ma Servio gramatico, sconvolgendo ogni cosa, disse che da’ cavalli nascono
i fuchi, e da’ muli i calabroni, e dagli asini le vespe; e quanto alle vespe Isidoro si
ristrigne al solo cuoio dell’asino; e pure Olimpiodoro, Plinio, il Cardano, il Porta
vogliono che dall’asino prendano il nascimento i fuchi, gli scarafaggi, e non le vespe; ed
Oro, nel capitolo ventesimoterzo del secondo libro de’ Geroglifici, parla delle vespe
nate dalle carni del coccodrillo; e Antigono, nel capitolo ventesimoterzo delle Storie
maravigliose, ebbe a dire che dal coccodrillo non le vespe, ma gli scorpioni terrestri
spontaneamente nascono. Se ciò veramente nelle carni di questo serpente avvenga, non
voglio intrigarmi a favellarne perché non ne ho fatto l’esperienza, né credo per ora di
poterla fare: voglio bene dentro all’animo mio fermamente credere che, siccome ho
trovata essere una menzogna la nascita di tutti quegli altri insetti dalle carni de’ muli,
degli asini e de’ cavalli, così favoloso non meno sia dal morto ed imputridito
coccodrillo il nascimento delle vespe e degli scorpioni. Favoloso nella stessa maniera
con più e diversi esperimenti ho ritrovato che gli scorpioni possano nascere da’ granchi
sotterrati, come lo scrissero Fortunio Liceto, Gio. Batista Porta, il Grevino, il Moufeto
ed il Nierembergio, i quali con troppa credulità e troppo alla buona impararono questa
dottrina da Plinio, e Plinio forse da Ovidio nelle Trasformazioni:
Concava littoreo demas si brachia cancro,
Caetera supponas terrae, de parte sepulta
Scorpius exibit caudaque minabitur unca.
Ma Plinio al detto da Ovidio aggiunse una di quelle condizioni che tanto dalla plebe
son tenute in venerazione, cioè che quest’opera si facesse in quei giorni appunto che il
Sole fa il suo viaggio nel segno del Granchio: Sole Cancri signum transeunte, et
ipsorum, cum exanimati sint, corpus transfigurari in scorpiones, narratur in sicco.
Questa favola non fu mica creduta da Tommaso Bartolino, uomo per universale
consentimento annoverato tra’ maggiori e più rinomati medici e notomisti dell’età
presente e della passata; conciossiecosaché in una lettera scritta all’eruditissimo Filippo
Jacopo Sachs afferma costantemente di aver osservato che in Danimarca, dov’è
grandissima abbondanza di granchi, da’ lor cadaveri putrefatti e corrotti non nascono gli
scorpioni.
Ma il Sachs non aderisce né punto né poco al detto del Bartolino; anzi
possibilissima crede così fatta generazione, soggiugnendo che nulla contro di quella
provano l’esperienze fatte in Danimarca, per essere i paesi settentrionali in ogni tempo
privi affatto di scorpioni. Io nulla di meno mi sento inclinato a credere (e sia detto con
pace di tanto virtuoso e così benemerito delle buone lettere), mi sento, dico, inclinato a
credere che il Sachs forse s’inganni, come con tutti i soprammentovati moderni autori
s’ingannarono forse ancora Ovidio e Plinio.
Non fu però Plinio contento di far nascere
gli scorpioni solamente da’ granchi, che volle ancora che il bassilico pestato e poscia
coperto con una pietra gli generasse, ed ebbe per aderente in gran parte ne’ susseguenti
tempi il greco compilatore de’ Precetti dell’agricoltura, il quale non fa seppellire il
bassilico sotto la pietra, ma bensì insegna che si mastichi e poscia al sole si esponga.
Gio. Batista Porta seguitò l’opinione di costui, ma il Mattiuolo ed il Liceto s’attennero a
quella di Plinio, ed in somma infiniti altri moderni, e tra essi il Nierembergio,
l’Elmonzio, il Sachs ed il Chircher, attribuiscono tal virtude a questa odorifera erba; e
gliele attribuisce parimente il celebratissimo padre Onorato Fabri nel 2 lib. Delle piante,
prop. 84, opinando che nel bassilico si trovino insieme e le semenze degli scorpioni e le
disposizioni necessarie per farle nascere; e Volfango Oeffero, citato nella
Cammarologia del Sachs, racconta che a’ nostri tempi un certo speziale più saccente
degli altri nel paese d’Austria aveva trovato il modo di far nascere artifiziosamente
quelle paurose bestiuole. Del mese di luglio e di agosto, essendo il sole in Granchio,
pestava ben bene il bassilico, e con esso così pestato spalmava, alla grossezza di tre dita,
un tegolo rovente, lo copriva subito con un altro simil tegolo e stuccava le congiunture
con loto fatto di sabbione e di sterco di cavallo; quindi metteva que’ tegoli in cantina
per lo spazio d’un mese, e poscia aprendogli vi trovava dentro gli scorpioni belli e nati,
onde quel buon uomo se ne serviva a tutti quegli usi pe’ quali gli scorpioni son
bisognevoli nella medicina.
Un’invecchiata, ancorché falsa opinione, fa gran forza nelle menti degli uomini;
perciò maraviglia non è se Jacopo Ollerio, medico di altissimo grido, nel primo libro
della Pratica medicinale si credesse che, per aver soverchiamente odorato il bassilico,
nascesse uno scorpione nel cervello di un cert’uomo italiano:
Forse era ver, ma non però credibile
A chi del senso suo fosse signore.
E se l’Ollerio avesse dato fede a quel che del bassilico fu scritto da Galeno nel
secondo libro Delle potenze degli alimenti, non si sarebbe lasciata scappar dalla penna
una baia cotanto incredibile. Fu più di lui accurato ed avveduto, e però più
commendabile, Giovan Michele Fehr citato nella Cammarologia del litteratissimo
Sachs; imperocché, avendo letto in Galeno che dal bassilico non son generati gli
scorpioni, volle con tutte le circostanze richieste farne la prova, e ritrovò che Galeno era
veridico e tutti gli altri menzogneri, siccome lo sono ancora tutti coloro i quali
affermano che non è solo il bassilico a saper produrre queste bestiuole, ma che le
produce il crescione ed ogni sorta di legno fracido e corrotto; anzi Fortunio Liceto
racconta che Jacopo Antonio Marta napoletano faceva nascere gli scorpioni dalla terra
inaffiandola col sugo della cipolla; e un di questi forse, o qualsisia altro simile, era quel
maraviglioso e gran segreto di cui fa menzione Avicenna.
Miglior pensiero fu quello del
grande Aristotile che insegnò esser generati gli scorpioni dalla congiunzione de’ maschi
e delle femmine, le quali non figliano poi l’uova, come costumano molti altri insetti, ma
bensì partoriscono gli scorpioncini vivi e secondo la loro spezie perfetti. Il che non fu
negato né da Plinio nel capitolo venticinque del libro undecimo, né da Eliano nel libro
sesto del capitolo ventesimo, e fu minutamente osservato da Tommaso Furenio e
dall’eruditissimo Giovanni Rodio nelle sue Osservazioni medicinali.
Ancora io,
provando e riprovando, ne feci l’esperienza; ed essendomi stata portata una gran
quantità di scorpioni dalle montagne di Pistoia, scelsi alcune femmine, le quali, più
grandi e più grosse de’ maschi, benissimo si distinguono da essi maschi, ed il giorno
venti di luglio separatamente le serrai, senza dar lor cosa alcuna da potersi cibare, in
alcuni vasi di vetro, ne’ quali alcune morirono avanti al parto; ma una il dì cinque di
agosto partorì non undici scorpioncini, come crederono Plinio ed Aristotile, ma bensì
trentotto benissimo formati e di colore bianco lattato che di giorno in giorno si cangiava
in color di ruggine; ed un’altra femmina, in un altro vaso rinchiusa, il dì sei del suddetto
mese ne figliò venzette dello stesso colore de’ primi; e tanto gli uni quanto gli altri
stavano appiccati sopra il dorso e sotto il ventre della madre, ed il giorno decimonono
erano tutti vivi; ma da lì avanti ne cominciò ogni giorno a morir qualcheduno; e due soli
arrivarono ad esser vivi il giorno ventiquattro di agosto; il quale passato, furono
anch’essi da me trovati morti. In quel tempo io volli medesimamente vedere come nel
ventre della madre avanti al parto questi insetti si stessero: perloché ne sparai molte e
trovai diverso il loro numero, ma però mai minore di venzei né maggiore di quaranta; e
stanno tutti attaccati insieme in una lunga filza, vestiti di una sottilissima e quasi
invisibile membrana, dentro alla quale si veggono benissimo distinti e separati per un
ristrignimento simile ad un sottilissimo filo ch’ella fa tra l’uno scorpione e l’altro. Con
questa occasione io mi accorsi non esser vero quel che Aristotile ed Antigono Caristio
raccontano, che le madri sono ammazzate da’ nati figliuoli; né quel che scrisse Plinio,
che i figliuoli sono tutti dalla madre uccisi eccetto che uno, il quale, più scaltrito degli
altri, si salva sopra il dorso di essa madre, ponendosi in luogo dove non possa esser
ferito né dal morso né dal pungiglione della coda; e questo dappoi, vendicatore de’
fratelli, ammazza la propria genitrice.
Osservai se dopo questa prima figliatura, passati
alcuni giorni, altri scorpioncini dalla stessa madre fossero partoriti, conforme racconta il
Rodio essergli intervenuto che ne vide gran numero della grandezza de’ lendini; ma io,
per qualsisia diligenza, non potei mai imbattermi a vedergli, e di più, avendo aperto il
ventre a molte femmine pregne, non vi ho mai trovato altro che quella bianca filza di
scorpioncini tutti di ugual grandezza e sempre quasi dello stesso numero da venzei,
come dissi, a quaranta; può nulla di meno essere avvenuto che quelle che io avea per le
mani avessero fatte per lo passato molte altre figliature, e che io sempre mi fossi
imbattuto nell’ultima, che perciò lascio a ciascuno la libertà di credere in questo ciò che
più gli sia per essere a piacere.
Non vorrei già che voi, Signor Carlo, credeste che nella
nostra Italia fosse così poca dovizia di scorpioni, come pare che ne’ suoi tempi
l’accennasse Plinio nel libro undecimo della Storia naturale, dicendo: Saepe Psylli, qui
reliquarum venena terrarum invehentes, quaestus sui causa peregrinis malis implevere
Italiam, hos quoque importare conati sunt. Sed vivere intra Siculi coeli regionem non
potuere. Visuntur tamen aliquando in Italia, sed innocui; imperciocché oggigiorno nella
sola città di Firenze se ne consumeranno ogni anno, per far l’olio contro veleni, vicino a
quattrocento e forse più libbre.
Io credo però che Plinio avesse ragione quando affermò
che quegli che si trovano in Italia sono innocenti e non velenosi; imperocché infinite
volte ho veduto quei contadini, che in Firenze pel sollione gli portano a vendere,
liberamente maneggiargli e razzolar colle mani ignude ne’ sacchetti pieni, ed esserne
sovente punti, e sempre senza un minimo ribrezzo di veleno: e pure tutti questi
scorpioni di Toscana sono di quegli che hanno sei nodi, o vertebre che voglian dire,
nella coda, i quali per sentimento d’Avicenna son molto più velenosi degli altri.
Se si trovino scorpioni che abbiano più o meno di sei vertebre nella coda, io non lo
so, perché non ne ho mai veduti di tal fatta; so bene che gli scrittori non ben s’accordano
fra di loro; e Plinio racconta trovarsene di quegli che ne hanno sette e di quelli che ne
hanno sei; ed i primi da lui, al contrario di quel che disse Avicenna, sono chiamati più
mortiferi degli altri. Strabone similmente ed i talmudisti, citati da Samuel Bociarto nel
Jerozoico, ne noverano di sette vertebre, e Nicandro pare che faccia menzione d’una
certa razza di scorpioni che ne ha nove:
.......................................................................
[Nove spondili si innalzano sopra la testa]
ancorché il di lui greco scoliaste, come eruditissimamente osservarono il Bociarto, il
Gorreo e l’Aldrovando, dica in questo verso di Nicandro la voce .......... [con
nove vertebre] significare lo stesso che poludesmoi. Quindi soggiugne lo scoliaste:......................., cioè: usa la voce ™ nne£desmoi, non perché gli scorpioni
abbiano nove congiunture, come dice Antigono; né perché abbiano nove vertebre, come
vuole Demetrio; imperocché non si vede mai scorpione che abbia più che sette
vertebre; il che avvien di rado, per quanto scrive Apollodoro. E per prova di questo
pensiero dello scoliaste molti pellegrini luoghi di vari scrittori apporta il Bociarto, i
quali voi molto bene avrete veduti appresso quel grandissimo letterato, onde per brevità
maggiore gli tralascio.
Non voglio già tralasciar di dirvi, che siccome tutti quegli scorpioni dell’Italia che da
me sono stati osservati hanno sei sole vertebre o spondili o nodi nella coda, così
parimente gli scorpioni dell’Egitto non ne hanno più di sei, come ho potuto vedere in
alcuni che l’anno 1657 da quel paese furon mandati al Serenissimo Granduca mio
Signore. Vi è però tra gli egizi ed i nostrali non poca differenza: imperocché,
quantunque e quegli e questi sien dello stesso colore nericcio, quegli d’Egitto son di
gran lunga più grandi e più grossi di questi; ed avendo messo nelle bilancine uno di
quegli d’Egitto, trovai che, così secco e netto da tutte le ‘nteriora, pesava venti grani; ed
uno di questi d’Italia, morto pochi giorni avanti, appena arrivava a cinque. Gli spondili
o le vertebre della coda di que’ d’Egitto son tutte quasi di lunghezza e di grossezza
uguali tra di loro; ed appena si scorge che, quanto più son lontane dal dorso, più si
allungano: ma negli scorpioni de’ nostri paesi la quinta vertebra avanti al pungiglione è
sempre il doppio più lunga di tutte l’altre.
Ho veduto un’altra spezie di scorpioni alquanto differente dalle due suddette, e me
l’ha mandata dal Regno di Tunisi, dov’al presente si trova, il dottor Giovanni Pagni
celebre professore di medicina nella famosa Accademia Pisana. Tutto ‘l Regno di Tunisi
produce fecondissimamente questi scorpioni, chiamati in lingua barbaresca akrab; ma
particolarmente se ne trova un’infinita moltitudine in una piccola città, detta Kisijan; e
son molto più lunghi e molto più grossi di que’ d’Egitto. Ne pesai due de’ vivi, e
ciascuno di essi arrivò alla quinta parte d’un’oncia, ed è credibile che fossero smagriti e
scemati di peso, essendo stati più di quattro mesi senza mangiare: uno de’ quali vive
ancora tre altri mesi dopo, non si cibando. Il lor colore è per lo più un verdegiallo
dilavato e quasi trasparente, come d’ambra, fuorché nel pungiglione e nelle due forbici
o chele, che son di color più sudicio e simile alla calcidonia oscura; la cuspide però del
pungiglione è affatto nera. Se ne trovano talvolta alcuni de’ bianchi; ma de’ neri non se
ne vede se non di rado. Il tronco delle forbici è di quattro nodi o congiunture. Le gambe
son’ otto, e le due prime vicine a’ tronchi delle forbici son più corte di tutte, le due
seconde son più lunghe delle prime, e le terze più delle seconde, siccome le quarte son
più lunghe di tutte l’altre e son composte di sette fucili, e tutte l’altre suddette di sei
solamente. Tutto ‘l dorso è fabbricato di nove commessure per lo più in foggia d’anelli,
e sovr’esso dorso, in quella parte ch’è tra’ due tronchi delle forbici, scorgonsi due
piccolissime eminenze ritonde, nere e lustre. Sotto ‘l ventre, ch’è composto di cinque
commessure, veggonsi due lamette dentate che paion appunto due seghe, le quali
quando lo scorpione cammina le distende e le dibatte, com’egli se ne volesse servire
quasi che fossero due ali. La coda ha sei vertebre o spondili, e l’ultimo d’essi è il
pungiglione molto grande e uncinato: l’altre cinque vertebre nella parte superiore sono
scanalate, e con orli o sponde dentate, e per di sotto tondeggiano, e son convesse e
rigate per lo lungo con alcune linee rilevate composte di punti nericci. Questi scorpioni
di Barberia non solo quando stanno rannicchiati, ma ancora quando camminano, tengon
la coda alzata e piegata in arco, il che per lo più è comune quasi a tutte l’altre
generazioni; onde Tertulliano nello Scorpiaco: Arcuato impetu insurgens hamatile
spiculum in summo, tormenti ratione, restringens; ed Ovidio, lib. 4 de’ Fasti:
Scorpius elatae metuendus acumine caudae.
Gran disputa è tra gli scrittori se la punta del pungiglione abbia forame alcuno da cui
possa uscir qualche stilla di liquor velenoso, quando lo scorpione ferisce: ed in vero che
quella punta termina così pulita e sottile che si rende impossibile agli occhi il rinvenire
se veramente sia forata: Galeno, nel libro sesto De l. aff., cap. 5, disse che non ha foro
né apertura veruna. Per lo contrario Plinio, Tertulliano, S. Girolamo, S. Basilio, Eliano,
il greco chiosatore di Nicandro, il Gorreo, l’Aldrovando e molt’altr’ moderni vogliono
che lo scorpione non solamente ferisca con la punta dell’ago, ma che ancora con essa
versi e infonda nelle ferite un liquido veleno; e maestro Domenico di maestro Bandino
d’Arezzo, scrittor famoso de’ suoi tempi per le molte, varie e faticose opere che lasciò
composte, alcune delle quali io conservo manuscritte nella mia libreria, affermò che ‘l
veleno dell’ago dello scorpione è un liquor bianco e sottilissimo; i poeti però dicono che
sia nero:
. . . nigrumque gerens in acumine virus
cantò un di loro. Onde per chiarirmi della verità, tra molti e molti microscopi del
Serenissimo Principe di Toscana, ne scelsi due con tutta perfezione lavorati da due
famosissimi maestri di quest’arte, uno in Roma e l’altro in Inghilterra, con l’aiuto de’
quali indarno tentai di veder l’apertura dell’estrema cuspide del pungiglione degli
scorpioni di Tunisi, d’Egitto e d’Italia; e se io avessi avuto a dar fede a quello che a me
e ad altri miei amici mostravano quegli squisitissimi microscopi, avrei potuto non senza
qualche ragione affermare che ella non era pertugiata; ma non mi piacque contentarmi
del veduto, e perciò cominciai a premere il pungiglione d’uno scorpione di Tunisi; ma
né anche per questa via potei soddisfarmi, imperocché, essendo il pungiglione durissimo
e di sustanza crostosa, come quella delle locuste marine, non cedeva al tatto e non
riceveva compressione veruna, abile a poter fare schizzar fuora ciò che nella cavità di
esso pungiglione si contiene. Adizzai lo scorpione e l’irritai ad avventar molte punture
sopra una lama di ferro, ma non vi lasciò mai segno né di liquore né di umido; ed io
stava già per credere, anzi di già lo credeva, che l’opinione di Galeno fosse la vera,
quando improvvisamente vidi una volta comparir sulla punta una minutissima e quasi
invisibile gocciolina d’acqua bianca, quale poi molte e molt’altre fiate ho veduta, allora
quando ho stuzzicato lo scorpione ed egli, incollorito, ha fatto forza di ferire con la
coda. E di qui raccolgo che non dissero menzogna Eliano e ‘l greco scoliaste di
Nicandro affermando l’ago o pungiglione degli scorpioni esser forato di un pertugio
così insensibile che si rende vano all’occhio il poterlo vedere.
In questo tempo nel quale io faceva queste esperienze, morì uno degli scorpioni di
Tunisi ammazzato da un altro scorpione suo compagno; onde col di lui morto
pungiglione punsi quattro volte nel petto un piccion grosso ed un calderugio, e mentre
alcuni credevano che fossero per morirsene, s’accorsero che le punture non avean
portato loro detrimento di sorta alcuna. Per la qual cosa cominciò a poco a poco a
nascermi un leggier dubbio, se per avventura potess’essere che anche gli scorpioni di
Barberia non fossero velenosi. Mi scrive di Tunisi il soprammentovato dottor Pagni che
i Mori di quel paese affermano costantemente che non passa anno che non periscano
molti uomini feriti dagli scorpioni, e che il lor veleno è terribilissimo e operante con
indicibil prestezza e con violenza d’accidenti fierissimi; e agli anni addietro furon
provati da Pietro de Santis, mercante in quella città, il quale, ferito da una di quelle
bestiuole nel piede sinistro, patì punture atrocissime non solo nella parte offesa, ma
ancora per tutta la coscia sino alla spalla; e non ostante che il dolore fosse acutissimo, si
lamentava nondimeno e gli pareva che tutto il lato sinistro fosse intormentito e senza
forza; ed ebbe di buono a poter guarirne dopo molte scarificazioni fatte sopra la ferita e
dopo un replicato beveraggio di teriaca, con la quale ancora gli fu impiastrato tutto
quanto il piede, oltre molti e molt’altri medicinali provvedimenti. Mi scrive altresì che
que’ barbari van dicendo, e lo costumano ancora, che, per preservarsi da questo
pestifero veleno, è necessario portare addosso, ovvero attaccar sopra le porte delle case,
un certo bullettino fatto con un pezzo di cartapecora quadra tagliata un poco da una
banda, in cui sono scritti certi nomi arabici, ed impressi alcuni sigilli e pentacoli. Così
fatto preservativo di que’ superstiziosi, vani e ridicoli bullettini, accoppiato con un altro
rimedio creduto sicurissimo, e comunemente usato da’ medici affricani, di dare a bere
l’acqua tenuta nelle inutili tazze lavorate di corno d’alicorno, mi fece crescere il dubbio,
ma non osava dirlo contro una credenza così altamente radicata: pure fattomi animo, ed
accomodato uno scorpione vivo in modo che non potesse pugnermi, dopo averlo
benbene irritato ed inasprito, lo necessitai a ferir quattro volte profondamente il petto
d’un piccion grosso il quale, con maraviglia di molti, non ebbe né pur minima offesa di
veleno; ed il simile avvenne ad una pollastra e ad un cagnuolo nato di poche settimane.
Qui mi veggio venir addosso la piena di tutti i filologi, di tutti i medici e di tutti gli
scrittori della storia naturale, i quali, facendo delle braccia croce, mi gridano che lo
scorpione ammazza non solamente le bestiuole minute, ma che non la perdona altresì
alle più feroci e alle più grandi, tra le quali noverano lo stesso leone; e il dottore Kemal
Eddin Muhammed Ben Musa Ben Isa Eddemiri vi aggiugne il cammello e l’elefante.
Quindi alcun’altri sorridendo mi dicono che non fu gran fatto se non morirono gli
animali colpiti da quello scorpione di Tunisi, conciossiecosaché eran più di quattro mesi
che stava racchiuso in un vaso senza cibarsi, onde poteva aver perduto la velenosa
malizia: di più avend’io fatta l’esperienza nel mese di novembre, mi rammentano che
Tertulliano, il qual pur era nato nell’Affrica, parlando degli scorpioni, ci lasciò scritto
nel principio dello Scorpiaco: Familiare periculi tempus aestas; austro et africo
saevitia velificat.
Mi riducono parimente alla memoria che Macrobio, Saturn., lib. I, cap. 21, ebbe a
dire: Scorpius hyeme torpescit, et transacta hac, aculeum rursus erigit vi sua, nullum
natura damnum ex hyberno tempore perpessa. E che Leone Affricano racconta che
nella città di Pescara in Affrica son così numerosi e pestiferi gli scorpioni che quasi tutti
gli abitanti vengono sforzati nel tempo della state ad abbandonarla e non vi ritornano se
non al novembre.
Questa opposizione non solo è saggiamente fondata, ma ell’è parimente verissima e
più e più volte dalla sperienza confermata, come son ora per riferirvi. Quello stesso
scorpione le di cui punture nel mese di novembre non aveano avvelenato né il piccion
grosso, né la pollastra, né il cagnuolo, continuò a vivere senza cibo tutto l’inverno,
serrato in un gran vaso di vetro e, del mese di gennaio, si ridusse cosi grullo e sbalordito
che sembrava se ne volesse morire; ma arrivato al febbraio, ancorché non avesse di che
cibarsi, cominciò a ripigliar fiato e spirito bizzarrissimo con forza non ordinaria delle
membra, che sempre andò crescendo; quindi avvenne che il dì 23 di febbraio,
trovandomi in Pisa con la corte, deliberai di esperimentare se egli avea per ancora
ripresa la velenosa e mortifera sua malizia, ed essendo per avventura venuto quella
mattina a trovarmi Monsù Carlo Maurel, dotto ed esperimentato chirurgo franzese,
strappò la piuma dal petto d’un piccion grosso, e nella parte di già pelata e quasi
sanguinosa fece tre volte penetrar profondamente l’ago di quell’iracondo ed arrabbiato
scorpione; dal che il piccion grosso cominciò subito a vacillare e con frequenti
ansamenti e tremiti andava quasi balordo movendosi in giro. A sedici ore cadde, senza
più potersi riavere, in terra; dove patì molte convulsioni sino alle diciott’ore, nel qual
punto allungò le gambe e le cosce intirizzate e fredde, sicché parea morto dal mezzo in
giù; continuavano però di quando in quando i tremiti e le convulsioni nell’ali con
qualche poca di vivezza nella testa, e così dimorò fino a vent’ore e tre quarti, e allora si
morì, essendo scorse appunto cinqu’ore da quel momento nel qual fu ferito. Tosto che
fu morto, essendo venuto a trovarmi il dottissimo e celebratissimo Signor Niccolò
Stenone, curioso di osservare in quale stato si sarebbon trovate le viscere ed il sangue di
quel piccione avvelenato, mi consigliò a farne pugnere, senz’altro indugio, un altro,
come feci, con tre ferite nella stessa parte del petto dove fu punto il primo, ma però
senza strappargli penne: e questo secondo piccione si morì in capo a mezz’ora, avendo
intirizzate e distese le cosce e le gambe come il primo; onde rifeci subito l’esperienza in
due altri, i quali, ancorché feriti tre volte per uno, non solo non morirono, ma non parve
né meno che se ne sentissero male.
Lasciai riposar lo scorpione tutta la notte, e la mattina seguente, alle quattordici ore,
lo necessitai a pugnere un altro piccion grosso: prima che lo pugnesse, vidi nella
cuspide del pungiglione una gocciolina minutissima di liquor bianco, la quale nel ferire
entrò nella carne; e di più lo scorpione di sua spontanea volontà fece due altre ferite, ed
il piccione, passato lo spazio d’un’ora, cominciò a soffrir certi moti convulsivi; quindi,
come gli altri due, intirizzò le gambe e le cosce, e a diciott’ore si morì. Non morì già un
altro, che fu ferito alle quindici ore della stessa mattina, e né meno morì il terzo, che fu
ferito cinqu’ore dopo del secondo. Perloché volli lasciar ripigliar forze allo scorpione,
ed in questo mentre osservai che que’ piccion grossi, che erano morti, non aveano
enfiato né livido veruno nel luogo delle ferite, e le viscere loro non eran punto mutate
dallo stato naturale. Il sangue solamente si era mantenuto liquido in tutte le vene, e di
esso sangue pur liquido n’era corsa e ritiratasi una gran quantità ne i ventricoli del
cuore, il quale perciò appariva molto tumido e gonfio, senza però essersi cangiato né
punto né poco dal solito suo natural colore.
Sapendo io per certezza infallibile e mille volte provata e riprovata che gli animali
fatti morire col morso della vipera e col veleno terribilissimo del tabacco si posson
sicuramente mangiare, donai questi piccioni avvelenati dallo scorpione ad un
pover’uomo, a cui parve di toccare il cielo col dito, e se gli trangugiò
saporitissimamente, e gli fecero il buon prò.
Riposatosi lo scorpione fin’ al giorno seguente, che fu il venticinquesimo di febbraio,
a ventun’ora ferì cinque volte una cervia nel costato, e cinqu’altre volte nelle natiche,
dove la pelle è men dura e senza peli. Ma la cervia non ne rimase né morta né
danneggiata. Ed in questa esperienza osservai che lo scorpione, avendo tirato tre colpi di
sua volontà, poco o nulla penetrò nella pelle della cervia; io però feci sempre penetrar
per forza il pungiglione in essa pelle. Quindi dubiterei se possa esser vero che gli
scorpioni di Barberia abbian forza d’uccidere i leoni, i cammelli e gli elefanti, che sono
armati d’un cuoio durissimo e grossissimo: pure mi rimetto alla fede di quegli autori che
lo scrivono, e tanto più me ne rimetto, mentre considero che questo mio scorpione, col
quale ho fatte le suddette esperienze, è fuor del suo paese nativo in un clima differente
ed è stato già più d’otto mesi senza cibo, stracco e strapazzato: al che si aggiunga che,
quando ferì la cervia e gli altri piccion grossi, che non morirono, avea forse consumato
tutto quel velenoso liquore che stagna nella cavità del pungiglione e non avea per ancora
avuto tanto tempo da poterne rigenerare; e ciò verrebbe riconfermato dall’avergli fatto
ferire il giorno seguente una folaga ed un piccion grosso che non morirono; e due giorni
appresso, a’ vent’otto di febbraio, due altri piccion grossi, e a’ sei di marzo una
grand’aquila reale, senza che né l’aquila né i piccioni ne perdessero la vita.
Due giorni dopo aver ferito quella grand’aquila, trovai morto inaspettatamente lo
scorpione; per la qual cosa non ho potuto certificarmi se, lasciandolo ripigliar fiato per
qualche settimana, avesse recuperato il veleno. Spero contuttociò a suo tempo di
chiarirmi non solo di questa, ma d’altre curiosità ancora, avendo scritto di nuovo in
Tunisi ed in Tripoli che mi sia fatta provvisione di questi animaletti, de’ quali intanto vi
mando qui la figura delineata a capello nella loro grandezza naturale.
Per dire tutto quello che ‘ntorno agli scorpioni esperimentando ho veduto, ell’è una
novella da vegghie puerili quella che dicevano alcuni appresso di Plinio, che gli
scorpioni morti bagnati col sugo dell’elleboro bianco si ravvivino, e che, legando dieci
granchi di fiume ad un mazzo di bassilico, tutti quanti gli scorpioni che sono in quel
luogo si radunino intorno a quel ridicoloso incantesimo; e se vi si radunassero, farebbe
loro il mal prò, narrando Avicenna che cert’uni stimarono verissimo che quando il
granchio s’accosta col bassilico allo scorpione, lo scorpione cade improvvisamente
morto,
ed egli ha detto che esso, quando si sia accostato con la cedrina
allo scorpione, muore lo scorpione sul posto.
il che avendo io trovato falsissimo, passai ad altre esperienze; e feci ammazzare una
mezza libbra di scorpioni, e postala al sole in vaso di vetro aperto, in breve tempo
inverminò; ed i vermi si trasmutarono al solito in uova nere, dalle quali, passato che fu
il decimoquarto giorno della loro trasformazione, nacquero altrettanti mosconi listati di
bianco.
E perché il padre Atanasio Chircher avea detto nel libro duodecimo del Mondo
sotterraneo che, per esperienza provata, rinascono gli scorpioni da’ cadaveri degli
scorpioni stessi esposti al sole ed inaffiati con acqua in cui sia stato macerato il
bassilico, mi arrischiai di nuovo a farne il secondo ed il terzo esperimento, e sempre
deluso attesi indarno la desiderata nascita degli scorpioni; in vece de’ quali sempre mi
comparvero mosche: e quando la quarta volta ne feci la prova in orinaletto da stillare
ben serrato col suo antenitorio, non vidi mai né bachi né mosche né scorpioni; onde io
sempre più mi andava confermando nella mia opinione che da’ cadaveri, se non vi è
portato sopra il seme, non nasca mai animale di sorta alcuna.
In questa congiuntura volli rinvenire se dall’anitra putrefatta sotto al letame si generi
veramente il rospo, come lo credé e lo scrisse Gio. Batista Porta; ed avendone fatta sino
alla terza esperienza, mi trovai sempre ingannato, e toccai con mano che il Porta, per
altro uomo curioso e molto dotto, in questa ed in altre cose molte era stato troppo
credulo, siccome fu credulissimo il greco scoliaste di Teocrito, quando scrisse che dal
corpo della morta lucertola nascer solevano le vipere; e non meno di lui l’arabo
Avicenna affermante i capelli delle donne in luogo umido e percosso dal sole convertirsi
in serpenti.
I serpenti, a mio credere, non nascono se non sono generati per mezzo del coito; e
tutte l’altre generazioni serpentine, o per putredine o per qualsivoglia altra maniera
menzionate dagli scrittori, son favolose e lontane molto dall’esser credute: onde non so
rinvenirmi come il padre Atanasio Chircher voglia insegnarcene una fattizia e, com’egli
stesso riferisce, a lui per esperienza riuscita. Piglia, dice quest’autore nel libro
duodecimo del Mondo sotterraneo, de’ serpenti di qual razza tu vorrai, arrostiscili e
riducigl’in minuzzoli, e que’ minuzzoli seminagli in terreno uliginoso; quindi
leggiermente bagnalo d’acqua piovana con un annaffiatoio, e questo terreno così
annaffiato fa’ che tu lo metta al sole di primavera; e tra otto giorni vedrai che tutta
quella massa di terra diverrà gremita di piccoli vermicciuoli, i quali, nutriti di latte
mescolato coll’acqua sparsavi sopra, ingrosseranno e diventeranno serpenti
perfettamente figurati che, usando poi tra di loro il coito, potranno multiplicare in
infinito. Tutta questa faccenda, soggiugne, me l’insegnò la prima volta il cadavero d’un
serpente che, da me trovato alla campagna, era tutto pieno e circondato di vermi,
alcuni de’ quali eran minutissimi, altri più grandi e altri in fine aveano
evidentissimamente pigliata la figura di serpente. E quel che più si rendeva
maraviglioso si è che, tra que’ serpentelli, v’eran tramischiate certe razze di mosche, le
quali io sarei di parere non d’altronde esser nate che dalle semenze rinchiuse in
quell’alimento di cui si nutriscono le serpi.
Fin qui il Chircher; ed io, mosso
dall’autorevole testimonianza di questo dottissimo scrittore, n’ho fatta più volte la prova
e non ho mai potuto vedere la generazione di questi benedetti serpentelli fatti a mano.
E
se il padre Chircher vide alla campagna il cadavero di quella serpe circondato da’ vermi,
quei vermi vi erano stati partoriti dalle mosche; e se erano di diverse grandezze,
quest’avveniva perché non erano stati figliati tutti nello stesso tempo; e se tra quei
vermi vi ronzavano delle mosche, elle lo facevano o per cibarsi di quel cadavero
putrefatto, ovvero ell’eran mosche le quali allora allora potevano esser nate da quegli
stessi bachi: ma che vi si vedessero de’ piccoli serpentelli nati su quella corrotta
fracidezza, oh questo non mi sento da crederlo.
Plinio forse di buona voglia l’avrebbe
creduto, imperocché nel libro decimo della Storia naturale affermò che le serpi nascon
sovente dalla spinal midolla de’ cadaveri umani, e tale opinione di Plinio fu secondata
da Eliano, con aggiunta che era necessario che que’ cadaveri fossero d’uomini
facinorosi, scelerati ed empi; se bene avendo Eliano considerato poi meglio il fatto suo,
ed a più sano intelletto, pare che lo mettesse in dubbio e temesse che potesse essere un
trovato favoloso: ma questo trovato, prima di Plinio e d’Eliano, fu da Ovidio messo in
bocca di Pittagora nel decimoquinto libro delle Trasformazioni:
Sunt qui, cum clauso putrefacta est spina sepulcro,
Mutari credant humanas angue medullas.
Fortunio Liceto lo tiene per vero, e dopo di lui lo confessò per verissimo il savio
Marc’Aurelio Severino nel capitolo decimo nella Vipera Pitia, dove espressamente fa
una galante ed ingegnosa digressione a tale effetto e mostra essere naturalissima questa
così fatta generazione, con argumenti però fondati per lo più su presupposti non veri.
Ond’io volentierissimo porto credenza che non solo da’ cadaveri umani non nascano
mai serpenti né anguille, come vuole Fortunio Liceto, ma che né anche s’ingenerino in
essi spontaneamente vermi di spezie alcuna.
Di soverchio ardita parrà quest’ultima proposizione, avvegnaché ne’ Sacri Libri, per
rintuzzar l’orgoglio dell’umana superbia, ci venga spesso rammemorato che la nostra
carne esser dee alla fine pastura de’ vermi; onde nell’Ecclesiastico al capitolo
diciannovesimo: Qui se iungit fornicariis erit nequam: putredo et vermes haereditabunt
illum.
E in Isaia, capitolo decimoquarto: Detracta est ad inferos superbia tua, concidit
cadaver tuum: subter te sternetur tinea et operimentum tuum erunt vermes.
Ed in Giob
al capitolo decimosettimo: Putredini dixi: Pater meus es; mater mea et soror mea
vermibus.
Tutto è vero, ma però il Sacro Testo parla generalmente, e non si ristringe a
dire se que’ vermi nasceranno spontaneamente e senza paterno seme dalle nostre carni,
o se pure d’altronde correranno a divorarle, o nasceranno in esse per cagione della
semenza portatavi sopra da altri animali; il che è più probabile, anzi verissimo: e chi pur
creder volesse in contrario, bisognerebbe che credesse ancora che non solo i vermi
spontaneamente nascessero dagli umani cadaveri, ma vi si generassero ancora le
tignuole, i serpenti e tutte l’altre maniere di bestie, leggendosi nell’Ecclesiastico al
capitolo decimo: Cum enim morietur homo, haereditabit serpentes et bestias et vermes:
ma questa minaccia di Sirachide si dee intender come quell’altra di Geremia al capitolo
decimo sesto numero quarto: Erit cadaver eorum in escam volatilibus coeli et bestiis
terrae. E altrove: Erit morticinum eorum in escam volatilibus coeli et bestiis terrae.
Ed
oltre di queste bestie sarà pastura ancora de’ vermi partoritivi sopra da varie generazioni
di mosche, e che ciò sia il vero evidentemente si raccoglie considerando che tutti quei
bachi non son altro che uova semoventi dalle quali a suo tempo nascono le mosche: ed
in tal maniera si verifica ciò che nell’Encomio della mosca fu testimoniato da Luciano,
che ella nasca dagli umani cadaveri.
Non è già da credersi che si verifichi quanto fu da
Kiranide scritto delle carni del tonno, che gettate dal mare sovra il lido di Libia
imputridiscano e poscia inverminino; ed i vermi si cangino prima in mosche, quindi in
cavallette, e finalmente in quaglie si trasformino.
Niuno oggi si troverà di sì poco
ingegno, né di sì grosso, il quale non prenda a riso queste baie; e pure io che, come voi
sapete, son tenuto nelle cose naturali il più incredulo uomo del mondo, volli più volte
vedere oculatamente ciò che su le carni de’ tonni s’ingenerava, e sempre ne rinvenni il
solo nascimento di vermi, i quali secondo la loro spezie si trasformarono poi in mosconi
ed in altre razze di mosche.
E mi ricordo che, volendo far prova se l’olio, che è tanto
nemico degl’insetti, ammazzava quei bachi e se altri liquori ancora gli ammazzassero,
ne riscelsi molti de’ più grossi tra quegli che erano nati nel tonno, ed alcuni ne bagnai e
tuffai nel greco, altri nell’aceto, altri nel sugo di limone e nell’agresto, e molti altri
nell’olio, e molti ancora ne serrai in vasi di zucchero, di sale e di salnitro, e nessuno ne
vidi mai morire; anzi tutti al dovuto lor tempo si trasformarono in uova nere con la
concavità in uno degli estremi, e da esse, passato che fu lo spazio di quattordici giorni,
nacquero altrettanti di quei mosconi de’ quali altre volte ho favellato; con questa
differenza però, che tutti continuarono a vivere, eccetto che quegli, i di cui bachi furono
unti coll’olio: imperocché i mosconi di questi appena furono usciti del guscio che
incontanente si morirono, anzi alcuni morirono prima che dal guscio fossero finiti
d’uscire.
Di qui argomentai esser veridico il detto di Galeno, di Luciano, di Alessandro
Afrodiseo, di Ulisse Aldrovando e di Giovanni Sperlingio affermanti che le mosche, se
gustano dell’olio, o se con quello sono unte, si muoiono. Ed in vero che, fattane da me
l’esperienza, ogni qualvolta che io faceva che da una sola gocciola di olio fosse tocca ed
inzuppata una mosca, in quello stesso momento ella cadeva fuor d’ogni credere morta.
E perché Ulisse Aldovrando e lo Sperlingio soggiungono che le mosche, in così fatta
maniera estinte, ritornano in vita se al sole si espongano o di ceneri calde si aspergano,
non mi piacque di starmene al loro detto, ma ebbi curiosità di vederne la prova co’
propri occhi; e non ebbi fortuna mai di poterne vedere né pur una ritornare in vita,
ancorché ostinatamente facessi infinite volte replicarne l’esperienza; laonde, avendo
ancor letto in Eliano, in Plinio, in Isidoro ed in molti moderni che questi stessi
animaletti, affogati nell’acqua o in altro liquore, a’ raggi del sole ed al tiepido calor
delle ceneri si ravvivano e da morte a vita ritornano, per certificarmene, in un vaso di
vetro ammezzato di acqua fatta freddissima col ghiaccio feci mettere otto mosche
dell’ordinarie; in capo ad un’ora e mezza trovai che una di quelle era andata sott’acqua
nel fondo del vaso, ed una delle galleggianti si movea qualche poco e dava segno per
ancora di esser viva, l’altre sette parevano tutte morte; le cavai dell’acqua e le posi al
sole, ed appena fu passato un mezzo minuto che due cominciarono a muoversi ed indi a
un momento se ne volarono via; dell’altre sei, quella che era andata al fondo dell’acqua,
insieme con tre altre delle galleggianti, in capo a tre minuti o poco meno cominciarono a
dar segni di vita, movendo le gambe e cavando fuora la lor proboscide, ed anco
rivoltolandosi, quasi volessero volare; ma poco dopo si fermarono morte da vero e più
non si mossero, siccome non si mossero mai punto né risuscitarono mai le altre due che
compivano il numero dell’otto.
Alcuni giorni dopo, ne feci far molti e molt’altri
esperimenti, tenendo le mosche e più breve e più lungo spazio di tempo nell’acqua, ora
ghiacciata, or col suo freddo naturale ed or tiepida, or lasciandole galleggiare, or per
forza tenendole sott’acqua; onde in fine appresi che, quando elle son’ affogate da vero, a
nulla è lor profittevole la forza e la potenza del sole; per lo che non so come creder si
possa a Columella, il quale riferisce che le pecchie ritrovate morte sotto i favi, e
conservate così morte tutto l’inverno in luogo asciutto, ritornano in vita se, allora
quando coll’equinozio comincia a tornar la temperie dell’aria, si espongano al sole
impolverate colla cenere di legni di fico.
Io non l’ho esperimentato, ma parmi cosa
lontana da ogni credere.
Torno alle mosche nate dal tonno; queste, siccome tutte l’altre, subito che scappano
fuori del guscio cominciano a sgravarsi delle naturali immondizie del ventre, cagionate
credo dal cibo che presero quando erano in forma di vermi; e tanto più perché in quel
tempo nel quale son vermi non ho mai veduto che gettino escrementi di sorta alcuna.
Campano dopo il nascimento, chiuse ne’ medesimi vasi ne’ quali son nate, quattro o
cinque giorni al più senza mangiare; il che non è fuora dell’ordinarie regole della natura.
Cosa più stravagante mi pare che i ragni nati ne’ vasi chiusi dall’uova de’ ragni
possano vivere tanti mesi senza apparente cibo. Io avea il dì cinque di luglio fatto
rinchiudere un ragno femmina in un vaso di vetro serrato con carta; osservai che il
giorno dodici dello stesso mese avea sul foglio, che copriva il vaso, dalla parte di sotto
fabbricato un certo lavorio di sua tela, in foggia di mezzo guscio di nocciuola rotonda
attaccato intorno intorno nel mezzo del foglio; e dentro alla cavità di questo lavoro,
chiamato da Aristotile seno orbiculato, si vedeano trasparire moltissime uova bianche
perfettamente rotonde, e grosse non più de’ granelli del panìco: da queste uova il giorno
ultimo di agosto cominciarono a nascere altrettanti piccolissimi e bianchi ragni, che
subito nati dieron principio a gettare qualche filuzzo di tela, il che fu osservato ancora
da Aristotile, che disse: subito salta ed emette un filo.
Ne’ due giorni seguenti finiron di
nascere tutte l’uova che erano cinquanta e, volendo pur vedere quanto i piccoli ragni
sapevan campare senza cibo, non posi nel vaso cosa alcuna da poter nutricarsi; onde il
giorno otto di settembre ne cominciò qualcuno a morire e la prima settimana di ottobre
erano quasi tutti morti, eccetto che tre soli rimasi vivi in compagnia della madre, la
quale morì poi il dì trenta di dicembre, ed i tre piccoli, che manifestissimamente si
conosceva essere qualche poco ingrossati e cresciuti, vissero fino a gli otto di febbraio.
Se voi mi dimandaste per qual cagione quei tre qualche poco crescessero ed
ingrossassero, io ne darei forse la colpa ad aver succiato qualche poco di alimento da’
cadaveri de’ morti fratelli e della madre; che se questo non fosse, l’estensione forse de’
loro corpi potea far parere che fossero cresciuti; ma io mi attengo più al primo pensiero
che a questo secondo, e non mi dà fastidio che il volgo creda, e molti autori lo abbiano
scritto, che verun animale mangia gl’individui della propria spezie; imperciocché, per
molti esperimenti fatti, io trovo che nessuna favola fu mai più favolosa di questa e niuna
bugia fu mai udita più bugiarda.
Mi sovviene d’aver fatto mangiare al leone della carne
d’una leonessa, e pure non è credibile che la mangiasse sollecitato dalla fame,
conciossiecosaché quello stesso giorno erasi pasciuto con molte e con molte libbre di
carne di castrato.
Ogni più trivial cacciatore sa per prova che, se muore qualche
cinghiale ne’ boschi, vien divorato dagli altri cinghiali viventi.
Gli orsi mangiano la
carne degli orsi, e le tigri quella delle tigri: e posso dirvi che questo stesso anno, avendo
Meemet Beì, o generale delle milizie del Regno di Tunisi, mandato a donare al
Serenissimo Granduca mio Signore molti strani e curiosi animali d’Affrica, fra’ quali in
una gran gabbia era una tigre femmina con un suo piccolo figliuolo partorito di pochi
mesi, la buona tigre, avvicinandosi da Livorno a Firenze, non so se per rabbia o per
ischerzo l’azzannò così gentilmente che gli spiccò di netto una zampa e quasi tutta la
spalla che a quella era congiunta, e la tranghiottì ingordissimamente, ancorché nella
gabbia avesse altra carne morta da potersi sfamare.
I gatti quando son castrati si
trangugiano i loro propri testicoli, e le loro femmine sogliono talvolta divorarsi i
figliuoli appena nati; ed il simile fanno le cagne.
Il luccio, che è pesce fierissimo di
rapina, non la perdona agli altri lucci; anzi così golosamente questi così fatti pesci si
perseguitano l’un l’altro che non di rado avviene che un luccio di sette o d’otto libbre ne
predi uno di tre o di quattro; e curiosissima cosa è a vedere, quando il luccio maggiore
ha afferrato il minore, che per la lunghezza sua non gli può entrar tutto nello stomaco,
cosa curiosa, dico, è a vedere il luccio vittorioso nuotar per l’acqua con l’altro luccio
che gli avanza fuor della gola uno o due palmi, e così tenerlo molt’e molt’ore, infino a
tanto che il capo del luccio ingoiato ed introdotto nello stomaco a poco a poco
s’intenerisca, ed intenerito si consumi, e consumato lasci lo stomaco vòto, acciocché
insensibilmente possa sdrucciolarvi quel residuo di busto e di coda che prima non avea
potuto capirvi.
I gavonchi altresì, che sono una razza d’anguille che vivono di preda,
ingoiano gli altri gavonchi minori, l’anguille gentili e quell’altre che son dette musini:
ed io più e più volte n’ho trovate ne’ loro lunghissimi stomachi.
Altri ragnateli ancora, e maschi e femmine, feci rinchiudere ne’ vasi di vetro, ma non
trovai altro da osservare che la lunghezza della lor vita senz’alimento, essendo che
alcuni presi a’ quindici di luglio camparono sino alla fine di gennaio.
Osservai
parimente che uno di quegli, dopo essere stato rinchiuso un mese, gettò la spoglia sana
ed intera, la quale un altro ragno pareva; ed un altro indugiò a spogliarsene dopo i
cinquanta giorni.
Questo spogliarsi de’ ragnateli fu prima di me considerato dal
dottissimo Tommaso Moufeto inglese nel suo celebre Teatro degl’insetti, dove afferma
che non una sola volta l’anno mutano la spoglia, ma bensì ogni mese; ed io non ardirei
negarlo, né meno affermarlo, non l’avendo veduto.
Vidi bene le diverse figure e fogge
di quelle bolge, sacchetti e bozzoli ne’ quali le femmine, come in un nido, ripongono e
covano l’uova, e gli strani e diversi e fortissimi attaccamenti delle fila anco ne’ vetri più
lisci; del che non vi parlerò di vantaggio, siccome né anco dell’industria e del
maraviglioso artifizio geometrico usato nella fabbrica delle tele, avendone fatta
gentilmente menzione Tommaso Moufeto ed il padre Chircher, e prima di loro Plinio,
Plutarco, Eliano e tra gli Arabi il dottore Kemal Eddin Muhammed Ben Musa Ben Isa
Eddemiri, volgarmente chiamato Damir, e ‘l dottore Zaccaria Ben Muhammed Ibn
Mahmud, che per essere della città di Casbin in Persia è citato sotto nome d’Alcazuino:
e voi stesso dottamente n’avete scritto in una delle vostre eruditissime Veglie toscane,
intitolata La natura geometra.
Osservai il gran numero d’uova che ripongono in que’ nidi: afferma il Moufeto che
arrivano sovente fino a trecento, ed io ne ho contate fino al numero di censessanta fatte
da un solo di quegli animaletti, il quale, di tutte unite insieme e strettamente rinvolte in
un lavoro della sua tela, ne avea formata una piccola pallottola, ed intorno a quella
pallottola avea poscia fabbricato un grande e bianco bozzolo, nel di cui mezzo l’avea
situata pendente.
Mentre che e’ tesseva quel bozzolo, ebbi occasione di vedere che non
si cavava lo stame fuor della bocca, ma bensì fuor del fondo del ventre, ed in ciò trovai
verissima l’osservazione fatta da Eliano e dal Moufeto.
Plinio scrisse che nell’utero o
matrice si conserva la materia di quello stame: Orditur telas, tantique operis materiae
uterus ipsius sufficit.
Ma il Moufeto, addottrinato dal Bruero, avendo considerato che i
maschi, che pur non hanno matrice, fanno le tele al pari delle femmine, non approva il
parere di Plinio e l’accusa d’errore; a torto però, e senza ragione: imperocché la voce
uterus, della quale quel grandissimo scrittore in quest’occasione si serve, è usata dagli
autori latini non solamente in significato di matrice, ma ancora di ventre per
testimonianza d’Isidoro, II, I, che disse: Uterum solae mulieres habent etc., auctores
tamen uterum pro utriusque sexus ventre ponunt, e molti esempli se ne trovano in
Virgilio, ma particolarmente nel settimo dell’Eneide dove, parlando d’un cervio
maschio che fu ferito da Ascanio:
Ascanius curvo direxit spicula cornu:
Nec dextrae erranti deus abfuit, actaque multo
Perque uterum sonitu perque ilia venit arundo.
Ed il gran Tertulliano, cap. 10 Della fuga nelle persecuzioni, favellando di Giona:
Sed illum non dico in mari et in terra, verum in utero etiam bestiae invenio.
Apuleio
ancora, nel lib. 4 della Metamorf., adoprò questa voce nella stessa significazione;
perloché son degne di vedersi sopra questo luogo l’eruditissime note di Giovanni
Priceo, famosissimo letterato inglese e nostro comune amico.
Non errò dunque Plinio,
quando scrisse che il ragnatelo orditur telas, tantique operis materiae uterus ipsius
sufficit.
Errò bene Aristotile, quando nel libro nono della Storia degli animali,
contraddicendo al sapientissimo Democrito, fu d’opinione che i ragnateli non si cavino
il filato dalle parti interne del ventre, ma dall’esterne di tutto quanto il loro corpo, quasi
che la materia di quel filo fosse una certa lanugine o peluria che gli vestisse per di fuora
come una scorza; ma Tommaso Moufeto si avvide dell’errore di Aristotile, s’accorse
parimente, facendone l’esperienza, il celebre e dottissimo padre Giuseppe Blancano
della venerabil Compagnia di Gesù ne’ suoi stimatissimi Commentari sopra le cose
matematiche scritte da Aristotile. Lo stesso Aristotile errò eziandio, allor che volle
insegnarci che i ragni partoriscono i vermi vivi e non le uova: imperocché per qualsisia
diligenza non mi son mai potuto abbattere a vederne figliar né pur uno, ma sempre ho
veduto che i ragni fanno l’uova e da quelle uova, come ho detto di sopra, nascono i lor
piccoli figliuoli. E se certuni scrivono che da’ semi aerei e volanti per l’aria e
dall’immondizie putrefatte si generino i ragni, io non posso indurmi a crederlo se altra
ragione non m’è addotta che quella la quale volgarmente suole addursi: che nelle case
fabbricate di nuovo si veggono i ragni e le lor tele, anco in quegli stessi giorni che sono
intonacate e che è stato dato loro di bianco; imperocché non potendosi fabbricar le case
ed i palazzi in un batter d’occhio, come già ne’ tempi antichi le fabbricavano Alcina ed
Atlante, non è da farsi le maraviglie se tra’ calcinacci, tra la polvere e tra l’immondizie,
i ragni abbiano fatto i lor nidi e i lor covili, da’ quali uscendo possano in un momento
rampicarsi sopra qualsivoglia più alto muro ed in un momento ancora ordirvi e tesservi
le lor tele.
Un’altra favolosa generazione di ragni fu mentovata dagli autori e dataci ad intendere
per vera; e tra essi Pietro Andrea Mattiuoli, secondato da Castor Durante, da Giovanni
Bauino, da Enrico Cherlero, dal padre Atanasio Chircher e dal padre Onorato Fabri,
afferma che le gallozzole delle querce non solamente producono vermi e mosche, ma
ragni ancora, e soggiugne aver veduto assaissime volte per esperienza che tutte quante
le gallozzole non pertugiate si trovano pregne di uno di questi tre animaletti, dalla
differente natura de’ quali ei ne cava un certo suo spaventevole pronostico, dicendo che
se nelle gallozzole nasceranno le mosche, in quell’anno si ha da far guerra; se vi si
alleveranno i vermi, la ricolta sarà magra, e se vi si troveranno i ragnateli, l’annuale sarà
pestilente e contagioso. Si ride però il dottissimo padre Fabri di questo pronostico, ed io
alle moltissime esperienze fatte dal Mattiuolo facilissimamente risponderò con
altrettanti esperimenti fatti in contrario e, fiancheggiato dalla mera e pura verità, ardirò
di dire francamente che, nello spazio di tre o quattro anni, credo di aver aperto più di
ventimila gallozzole, e non ho mai potuto trovare in esse un sol ragno, ma sempre
mosche e varie generazioni di moscherini e di vermi, secondo la diversità di quei mesi
ne’ quali io le apriva; e pure in Italia e ne’ paesi fuor d’ltalia è vagata la peste, ed in
Toscana non si è mai fatta sentire né la guerra né la carestia, anzi tutti quegli anni
furono molto ubertosi. Egli è però vero che alle volte in qualche gallozzola, ma però
sempre pertugiata, io vi ho trovato alcun ragnateluccio, il quale, nato ed allevato fuor di
quella, si è per avventura intanato nel suo foro per ripararsi dalle ingiurie della stagione,
in quella guisa appunto che giornalmente veggiamo negli screpoli degli alberi e ne’
buchi delle muraglie quasi tutti gli altri ragni ricoverarsi. Bastevolmente adunque sia per
ora risposto alle sperienze del Mattiuolo con replicate esperienze: e quanto alle mosche,
a’ moscherini ed a’ vermi che nascono e si trovano nelle gallozzole, riserbo a
favellarvene poco appresso.
Alquanto più malagevole è il rispondere ad alcuni che bramerebbono di sapere come
faccia il ragno a tirare da un albero all’altro i capi della sua tela, non avendo l’ali da
poter volare. Il Moufeto porta credenza che i ragni saltino e che si lancino da un luogo
all’altro; al sua opinione ha del credibile, parlandosi di qualche piccolo salto: e mi
ricordo che una volta mi fu raccontato da un Signore grande che, mentre egli viaggiava,
un ragno distese i fili della sua tela da un lato all’altro d’uno sportello della carrozza, la
quale essendosi fermata, quel ragno improvvisamente si lanciò sul cappello d’un
Cavaliere che, venendo da un altro cammino, a quella carrozza si avvicinava; può esser
dunque che saltino, e può esser parimente che, volendo tendere il filo da un albero
all’altro, l’attacchino prima ad un ramo e poscia giù per quel filo si calino in piana terra,
e per terra si conducano a trovare il pedale del più vicino albero ed, inarpicandovi sopra,
raggomitolino il lor filo e lo tirino disteso alla giusta e necessaria proporzione ed
altezza. Mi vien detto da un amico che egli vide un giorno due ragni che, attaccati al lor
filato, penzolavano da’ rami di due alberi non molto lontani; ed osservò che si
lanciarono l’un contra l’altro, ed essendosi aggavignati per aria, annodarono insieme i
lor fili e amenduni d’accordo si misero a tessere una gran tela. Si potrebbe anco dire che
quando un ragno fa la sua tela tra’ rami di due alberi lontani, sia caso fortuito, cioè che
prima, ciondolando da un albero, esso ragno attaccato al suo filo, sia stato traportato dal
vento nell’albero più vicino e, non essendosi strappato lo stame, abbia potuto in quella
distanza ordire il suo lavoro.
Il padre Blancano nel libro sopraccitato afferma, per
provata da lui e più volte riprovata esperienza, che il filo del ragno non è un semplice
filo e pulito, ma ramoso e sfilacciato, o per meglio dire ch’egli è un filo dal quale hanno
origine molti altri sottilissimi fili che, per la loro innata leggierezza, quasi galleggianti
nell’aria per ogni verso si stendono; e se avviene che il capo di un di quei fili trasversali
si intrighi tra’ rami di qualche albero vicino, incontanente per quel filo s’incammina il
ragno e di quello si serve per primo filo dell’orsoio della futura sua tela; quindi
soggiugne il Blancano che alle volte il filo del ragno non è un filo solo, ma che e’ son
dua, ad uno de’ quali il ragno sta sospeso, e l’altro filo, vagante or qua e or là, svolazza
per l’aria fin tanto che incontri qualche cosa da potervisi appiccar sopra. Che ciò possa
esser vero ha molto del ragionevole e del verisimile, e particolarmente se il ragno si
penzoli da un albero altissimo; io però non ho avuto il tempo di farne l’osservazione,
come volentierissimo avrei voluto; ho bene molte e molte volte osservato che i ragni
tirano i lor fili da una banda all’altra delle strade maestre e che raccomandano i capi de’
fili alle cime de’ pali che reggon le viti; perloché, se que’ pali non si alzano da terra più
che tre o quattro braccia, e se la larghezza delle strade sia per lo meno otto o dieci, non
so rinvenire come que’ ragni, penzolandosi da così basso luogo, abbiano avuto valeggio
di dare al filo maestro tanta lunghezza, onde i fili laterali di esso abbiano potuto arrivare
all’altra parte della strada. Sia dunque come esser si voglia, e creda pure ogn’uno ciò
che più gli aggrada, che io per poter rattaccare il primiero mio ragionamento vi dirò che,
avendo fatto mettere insieme una buona quantità di ragni ed avendogli fatti ammazzare,
gli lasciai in un vaso aperto dove correvan baldanzosamente le mosche a pasturarsi ed a
farvi sopra, quasi per vendetta, i lor cacchioni; per la qual cosa que’ cadaveri in breve
tempo inverminarono, ed i vermi, induriti poi in uova o crisalidi, dalle crisalidi
nacquero altrettante mosche, di quelle che per le nostre case s’aggirano.
Lasciando stare adesso di più ragionare de’ ragni, parendomi aver a bastanza
mostrato che le carni non inverminano e che tutti i soprannominati insetti dalla sostanza
di quelle non nascono, giudico che sia tempo ormai di far passaggio ad alcune altre
cose, le quali comunemente e dal volgo e da uomini famosi e reverendi sono tenute che
bachino, e tra esse più di tutte il formaggio, sul quale i ghiotti si vantano di saper il
modo di far nascere i vermi per allettamento della gola: e la cagione efficiente di tal
generazione la riducono ad una di quelle che nel principio di questa Lettera vi noverai;
ma il sapientissimo Pietro Gassendo accenna che forse le mosche ed altri animali
volanti, avendo impresse e disseminate le loro semenze sopra le foglie dell’erbe e degli
albori, e queste pasciute poi dalle vacche, dalle capre e dalle pecore, possano introdurre
nel latte e nel formaggio quei semi abili in progresso di tempo a produrre i vermi; e
certo tale opinione a molti non ispiace, né io vo’ negar ora così poter essere; ma tuttavia
non so, colla dovuta riverenza che a questo grandissimo ed ammirabile filosofo io porto,
non so, dico, in qual maniera que’ semi tritati e masticati da’ denti degli animali, e nel
loro stomaco ritritati e cotti e spremuti, quindi alterati forse di nuovo e dirotti e snervati
nell’intestino duodeno per quel ribollimento che vi fanno il sugo acido del pancreas e
l’umore bilioso, e di nuovo rialterati nel passar per quelle strade che dallo stomaco e
dagl’intestini vanno alle mammelle, abbiano potuto conservar sana e salva ed intera la
loro virtude; che se ciò fosse potuto avvenire, si potrebbe sperare che, fatto una volta il
formaggio di latte di donna, fosse per produrre in vece di vermi altrettanti muggini o
lucci, se quella donna ne avesse mangiate l’uova, ovvero altrettanti galletti e pollastre
per cagione dell’uova di gallina bevute; che se bene poté berle allora che eran cotte,
nulladimeno vi sono di quelle femmine che le pigliano crude, e subito cavate dal nido
intere se l’inghiottiscono; oltre che la cottura, secondo la dottrina del Gassendo, non
pare che porti pregiudizio alla virtù generativa che posseggono i semi,
conciossiecosaché ogn’uno sa ed ogn’uno vede che sulla ricotta e sulle torte di latte
nascono i bachi; e pure la ricotta altro non è che il fiore del siero rappreso al fuoco, e le
torte di latte son cotte e rosolate ne’ forni; perloché sarei forse di parere che
l’inverminamento del latte, del formaggio e della ricotta abbia quella stessa cagione da
me soprammentovata nelle carni e ne’ pesci, cioè a dire che le mosche ed i moscherini
vi partoriscano sopra le loro uova, dalle quali nascano i vermi, e da’ vermi le mosche; e
ciò manifesto appare a ciascuno che voglia guardarlo con occhio ragionevole;
imperocché né il latte, né il formaggio, né la ricotta, né questi altri tutti latticini mai non
inverminano se tenuti sieno in luogo in cui le mosche ed i moscherini entrar non
possano; del che mi pare esser molto certo per le fatte esperienze; e pel contrario, se
questi animaletti giungono a posarsi sopra quei cibi, in breve tempo ne segue lo
inverminamento; e perché alla memoria mi tornano alcune cose da me osservate,
intendo al presente darvi ragguaglio non già di tutte, perché troppo lungo sarei e
rincrescevole, ma bensì di certe poche intorno a quei vermi che son nati.
Aveva io in un grande alberello di vetro, il quale dopo lasciai colla bocca scoperta,
fatto mettere un mezzo marzolino de’ più freschi e de’ migliori che nel fine del mese di
giugno si trovino: passati che furono alcuni giorni, vi si videro sopra alcuni vermi che,
ben considerati, si conosceva essere di due razze: i maggiori erano per appunto come
tutti gli altri vermi che nascono nelle carni, ed i minori erano pure della stessa figura,
ma aveano questo di notevole che, più bizzarri e più lesti degli altri, con maggiore
agilità su pel vetro camminavano e, accostando il muso alla coda e facendo di sé
medesimi un cerchio, spiccavano in qua ed in là vari salti, onde talvolta veniva lor fatto
di lanciarsi fuora del vaso nel quale erano nati.
Tre o quattro giorni dopo il loro
nascimento, questi e quegli si fermarono al solito e si raggrinzarono in uova, solamente
diverse nella grandezza, che, da me riscelte e separatamente riposte in vasi differenti, in
capo agli otto giorni dalle più grandi scapparono fuora altrettante mosche ordinarie, e
dalle più piccole dopo dodici giorni nacquero certi neri moscherini simili alle formiche
alate, i quali, appena che furon nati con grandissima ed incredibile vispezza e velocità
saltellando e volando, pareano, per così dire, il moto perpetuo; quindi accoppiandosi poi
ogni maschio alla sua femmina, esercitavano quegli atti da’ quali naturalmente sperar se
ne potea la loro propagazione, ma non avendo di che nutrirsi, in breve tempo morirono.
Mentre che io faceva questa osservazione, trovai per fortuna un marzolino che avea
cominciato a inverminare, e fatte da me separare le parti verminose dalle sane, l’une e
l’altre serrai in vasi differenti, ma dalle parti sane non furono generati mai più bachi, e
da que’ bachi che di già eran nati nelle parti verminose nacquero poi molti di que’
moscherini soprammentovati, senza vedersi né pure una mosca ordinaria; ed il contrario
mi accadde in una ricotta, la quale, essendo bacata, i bachi trasformati in uova
produssero solamente mosche ordinarie; e da un raveggiuolo inverminato nel mese di
settembre nacquero e mosche ordinarie ed alcuni pochi moscioni di quegli stessi che
intorno al vino ed all’aceto s’aggirano.
Io so che dura cosa parrà a credere che tutti questi latticini spontaneamente non
bachino, vedendosi che, aperti i nostri delicatissimi marzolini di Lucardo, molto sovente
si trovano bacati nella più interna midolla. Potrei rispondere che le semenze di que’
bachi furono partorite dalle mosche nel latte in quel tempo che si mugneva, ed in quel
tempo che da’ pastori, acciocché si rappigli, si lascia ne’ vasi, intorno a’ quali corrono a
stuoli innumerabilissime le mosche, onde quel greco Poeta,
Che le muse lattar più ch’altro mai,
nel sedicesimo libro dell’Iliade, verso 641, paragona i Greci ed i Troiani, che
combattevano e s’aggiravano intorno al cadavero di Sarpedone, gli paragona, dico, alle
mosche ronzanti intorno alle secchie piene di latte munto nel tempo della primavera:
Quelli si agitavano intorno al cadavere
come quando le mosche nella stalla ronzano
intorno alle secchie piene di latte,
quando di primavera il latte colma le secchie;
così dunque quelli si agitavano intorno al cadavere.
Questa risposta, ancorché potesse aver qualche valore, nulladimeno interamente non
mi appaga; ed avendo diligentemente osservato che i marzolini, prima che bachino, in
molti luoghi screpolano e si fendono, dico che su quegli screpoli e su quelle aperture
dalle mosche e da’ moscherini son partorite l’uova ed i bachi, i quali, cercando sempre
nutrimento più tenero e più delicato, s’internano nella più riposta midolla del marzolino,
e là entro attendono a nutricarsi fino al lor tempo determinato, e poscia scappano fuora e
van cercando luogo da potersi rimpiattare per que’ pochi giorni che stanno convertiti in
uova, e da quell’uova nascono diverse generazioni d’animali volanti, secondo la
diversità di que’ padri che prima avean generati i bachi.
Parendomi ora a bastanza aver di ciò favellato, e forse con soverchia prolissità e
fastidiosa, passerò a dirvi di quei vermi i quali dal volgo avvezzo a grandissimi errori
son creduti nascere spontaneamente nell’erbe, ne’ frutti imputriditi e ne’ legni e negli
alberi stessi; ed in primo luogo scriverò de’ bachi generati nell’erbe, nelle foglie degli
alberi e ne’ pomi, dopo qualche tempo che da’ loro alberi e dalle loro piante furono
staccati, e con quello staccamento furono, per così dire, privi di vita; e quindi mi
metterò a discorrere di quegli che nascono nelle foglie e ne’ frutti, quando per ancora
agli alberi stanno attaccati e la loro maturazione attendono.
Sappiate adunque che, sì come è il vero che su le carni, su’ pesci e su’ latticini
conservati in luogo serrato non nascono mai vermi, così ancora è verissimo che i frutti e
l’erbe crude e cotte, nella stessa maniera tenute, non inverminano: e pel contrario,
lasciate in luogo aperto, producono varie maniere d’insetti, or d’una spezie, or
d’un’altra, secondo la diversità degli animali che sopra vi portano i loro semi. Ho però
notato che alcuni più volentieri prendon per nido una maniera d’erbe o di frutti che
un’altra, e talvolta in una sola erba ho veduto nascere nello stesso tempo sette, o vero
otto razze di animaletti.
Sul popone, su ‘l quale molti moscioni avea veduto posarsi, nacquero piccoli vermi
che, dopo lo spazio di quattro giorni, diventarono uova, dalle quali uova, dopo quattro
altri giorni, nacquero altrettanti moscioni. Da altri pezzi di popone tritato in cui avean
pasturato moscioni, mosche ordinarie ed un’altra razza di moscherini piccolissimi e
neri, con lunghe antenne in testa, nacquero molti bachi di diverse grandezze, che al loro
determinato tempo in uova pur di differenti grandezze si trasformarono. Dall’uova
maggiori dopo gli otto giorni scapparono fuora mosche ordinarie; da alcune delle minori
dopo quattro giorni nacquero moscioni, e da altre dopo quattordici giorni uscirono
alcuni moscherini; e dall’uova mezzane dopo una settimana e mezza nacquero alcuni
altri moscioni molto più grandi e più grossi de’ primi; ed il simile m’intervenne nel
cocomero, nelle fragole, nelle pere, nelle mele, nelle susine, nell’agresto, nel limone,
ne’ fichi e nelle pesche. Ma perché le pesche erano riposte in un vaso di vetro, dal quale
non potea gemere o scolar quel liquore che nello infradiciarsi usciva da esse pesche,
perciò ebbi da osservare che in esso liquore nuotavano molti piccolissimi vermi, che
appena coll’occhio si potevano scorgere. Da questi nati sulle pesche e nel liquore
scolato pure da esse, nel consueto tempo ebbero il nascimento i moscioni che vissero
molti giorni, avend’io somministrata loro materia da potersi nutricare; quindi essendosi
congiunte le femmine co’ maschi, generarono degli altri bachi che al solito diventarono
moscioni, e credo che così fatta generazione fosse quasi andata in infinito se più
diligenza e più accuratezza io vi avessi posta.
Dalla zucca, tanto cotta che cruda, non ho mai veduto nascere altro che mosche
ordinarie: mi par solamente da non trascurare il dirvi che tutti i bachi nati su certa zucca
cotta mescolata con uova ed infradiciata, quando furono vicini a fermarsi ed a
convertirsi nelle seconde uova, andavano voltolandosi in quella poltiglia, che appoco
appoco attaccandosi loro addosso, gli ricopriva tutti, fino a tanto che pareano tante
piccole zolle di terra, dalle quali zolle nascevano poi le mosche; onde chi non avesse
saputo che dentro a ciascuna di esse era nascosto un uovo, avrebbe ragionevolmente
potuto credere che quelle mosche dalla terra di quelle zolle fossero nate.
Da qualche apparenza, non molto da questa dissimigliante, credo che potesse aver
origine l’equivoco di Plinio, che nel libro undecimo della Storia naturale scrisse nascere
molti insetti volanti dalla polvere umida delle caverne; e per questa stessa apparenza
parimente s’ingannano per avventura tutti coloro i quali raccontano che dalla terra, dal
fango e dalla belletta de’ fiumi e delle paludi s’ingenerino infinite maniere di animali;
onde Pomponio Mela, facendo menzione del Nilo, scrisse: Non pererrat autem tantum
eam, sed aestivo sidere exundans etiam irrigat, adeo efficacibus aquis ad generandum
alendumque ut, praeter id quod scatet piscibus, quod hippopotamos crocodilosque
vastas belluas gignit, glebis etiam infundat animas ex ipsaque humo vitalia effingat.
Hoc eo manifestum est, quod ubi sedavit diluvia ac se sibi reddidit, per humentes
campos quaedam nondum perfecta animalia, sed tum primum accipientia spiritum, et ex
parte iam formata, ex parte adhuc terrea visuntur.
Ed Ovidio nel primo delle
Trasformazioni:
Sic ubi deseruit madidos septemfluus agros
Nilus, et antiquo sua flumina reddidit alveo,
Aetherioque recens exarsit sidere limus,
Plurima cultores versis animalia glebis
Inveniunt, et in his quaedam modo coepta sub ipsum
Nascendi spatium, quaedam imperfecta, suisque
Trunca vident numeris, et eodem in corpore saepe
Altera pars vivit, rudis est pars altera tellus.
Quippe ubi temperiem sumpsere humorque calorque,
Concipiunt, et ab his oriuntur cuncta duobus.
Cumque sit ignis aquae pugnax, vapor humidus omnes
Res creat, et discors concordia foetibus apta est.
Questa opinione fu secondata da Plutarco nelle Questioni conviviali; da Macrobio,
che la copiò da Plutarco, ne’ Saturnali; da Plinio, da Eliano e finalmente da una
innumerabile schiera di antichi i quali,
Sì come nuoce al gregge semplicetto
La scorta sua, quand’ella esce di strada,
Che tutta errando poi convien che vada,
furono seguitati senza pensar più oltre da infiniti scrittori moderni.
Di qui è che
talvolta meco medesimo mi stupisco considerando come da questi autori fosse stimata
la natura così poco avveduta nella generazione di quegli animali e nella tessitura de’
loro membri, altri già condotti d’ossa e di carne, ed altri nello stesso tempo modellati di
pura terra; e pur Eliano fa fede d’averne veduti de’ così fatti con gli occhi suoi propri in
un viaggio ch’ei fece da Napoli a Pozzuolo, e Ovidio, non contento nel luogo
sopracitato d’averci fitto vedersi spesso nel fango degli animali senza gambe e senza
giunture, ce lo ribadisce un’altra volta nel libro decimoquinto:
Semina limus habet virides generantia ranas,
Et generat truncas pedibus, mox apta natando
Crura dat, utque eadem sint longis saltibus apta.
Ma quel che più galante mi pare si è che queste stesse rane nate di fango, dopo sei
soli mesi di vita, per testimonio di Plinio, in polvere ed in fango improvvisamente
ritornano e poscia, all’apparir della vegnente primavera, a novella vita risorgono.
Questo pensiero di Plinio è stato approvato da molti gravi filosofi del nostro secolo,
ed in particolare dal dottissimo padre Onorato Fabri, gran maestro in divinità e uomo di
profonda letteratura e di sommo credito in tutte le filosofiche speculazioni, ma sopra ‘l
tutto maravigliosamente felice nell’inventiva degli ardui problemi della più nobile e più
sublime geometria; ha egli dunque tenuta questa opinione nel suo degnamente
celebratissimo libro Della generazione degli animali alla proposizione
settantesimaquinta e settantesimasesta, dove ammette che dal corpo corrotto de’
ranocchi e convertito in terra si generino nuovi ranocchi.
Io per ora non mi sento
inclinato a crederlo, non avendo per esperienza veduto cosa che mi appaghi pienamente
l’intelletto; son però sempre prontissimo a mutare opinione, e tanto più se quelle rane
mentovate da Plinio fossero state azzannate e morse da qualch’idro, o vero da
qualch’altro loro inimico serpentello della razza velenosa di quegli che dal nostro divino
Poeta nella settima bolgia dell’Inferno furon riposti:
Ed ecco ad un, ch’era da nostra proda,
S’avventò un serpente che ‘l trafisse
Là dove ‘l collo alle spalle s’annoda.
Né o si tosto mai, né i si scrisse,
Com’ei s’accese ed arse, e cener tutto
Convenne che cascando divenisse:
E poi che fu a terra sì distrutto,
La polver si raccolse, e per sé stessa
In quel medesmo ritornò di butto.
Ma queste e quelle son mere favole, e gli animali che sembravano aver qualche
membro impastato di sola terra, se meglio fossero stati ravvisati, assai manifesto
sarebbe apparso che solamente erano terrosi ed imbrattati di fango; e se nel terreno, nel
fango e nella belletta de’ campi e delle paludi nasce qualche vivente, questo avviene
perché in quei luoghi vi sono state partorite prima l’uova e l’altre semenze abili a
produrne il nascimento, conforme che Aristotile e Plinio raccontano delle locuste o
cavallette; delle quali favellando il dottore Zaccaria Ben Muahammed Ibn Mahmud
della città di Casbin in Persia, citato sotto nome d’Alcazuino, lasciò scritto nel libro
arabico Delle maraviglie delle creature: Quando le locuste pasturano di primavera,
cercano un terreno grasso, e umido sopra di cui si gettano, e colle code scavano certe
fossette nelle quali ciascheduna di esse partorisce cent’uova.
Le testuggini terrestri anch’esse fanno le lor uova e le rimpiattano sotto la terra;
quelle similmente che abitano tra l’acque dolci nel mare scendono su ‘l lido a partorirle
e colla rena le cuoprono e là sotto nascono fomentate dal calor del sole, onde chi pratico
non ne fosse potrebbe forse credere che dalla terra nascessero quelle piccole testuggini
che dalle viscere di essa si veggono sovente uscire.
In così fatto modo potrebbe forse
esser vera una curiosa esperienza provata dal padre Atanasio Chircher, letterato
dottissimo e di nobile e d’ingegnosa speculativa nelle operazioni della natura: Quando
le rane, dice egli, al principio di marzo buttano copiosamente il seme ne’ fossi dove
abitano, accade che, rimanendo poi asciutti, la mota o limo si converta in polvere
insieme colle rane di già nate. Se tu vorrai dunque manipolare una nuova generazione
di rane, opererai così. Piglia la polvere della melma di quelle paludi e di que’ fossi
dove le rane avranno fatti i nidi, impastala con acqua piovana e nelle mattine di state
mettila ad un tiepido calore di sole in vaso di terra, ed acciocché non si secchi
innaffiala di quando in quando colla suddetta acqua piovana; e ci vedrai
primieramente gonfiarvi certe bolle dalle quali esce gran numero di ranuzze bianche, le
quali hanno solamente i due soli piedi anteriori, ma dividendosi poscia la coda in due
parti, se ne formano i due piedi posteriori, e quegli animaletti diventano rane
perfettamente figurate.
Quest’esperienza pare che probabilissimamente dovesse riuscire,
ma io non ne ho mai avuto l’onore, ancorché l’abbia reiteratamente provata, e ne do
forse la colpa alla mia poca diligenza, o a qualche da me non conosciuto impedimento,
il quale, come poi ho considerato, potrebbe per avventura essere che io feci sempre
l’esperienza per appunto come l’insegna il padre Atanasio, e per farla mi servii della
polvere di que’ fossi che son rimasi rasciutti; ma questi non rimanendo per lo più se non
di state, nel qual tempo son di già nate tutte l’uova o semenze delle rane, non è
maraviglia se, non essendo uova tra quella polvere, non sieno da essa nate le rane. Io ho
però osservato che quando le rane o botte nascono ne’ fossi o ne’ paduli, elle nascono in
figura di pesce, non co’ soli piedi anteriori, ma senza verun piede, con lunga coda, piatta
e per così dire tagliente; ed in così fatta figura per molti giorni van nuotando, cibandosi
e crescendo, quindi cavan fuora le due gambe anteriori; e dopo alcuni altri giorni, di
sotto una pelle, che veste tutto il lor corpo, cavan fuora le due altre gambe diretane; e
passato certo tempo si spogliano della coda, la quale non si divide in due parti per
formar le gambe, come Plinio, il Rondelezio e tanti altri scrittori hanno creduto: e di
questa verità potrà ogn’uno certificarsi, che voglia col coltello anatomico esaminare
alcuna di quelle ranuzze nate di pochi giorni, e vedrà che le gambe di dietro e la coda
son membri tra di loro distintissimi; e se ne rinchiuderà in qualche vivaio, potrà
osservare che per molti giorni van nuotando guernite delle quattro gambe, non meno che
della coda.
Ma che vi dirò io di quell’altre ranuzze o botticine, le quali il volgo crede che di state
piovano dalle nuvole, o vero che s’ingenerino fra la polvere in virtù delle gocciole
d’acqua piovana in quel momento ch’ella cade dall’aria?
Io ne favellai a bastanza
nell’Osservazioni intorno alle vipere, osservando che quelle ranuzze, le quali si
veggono quando viene qualche spruzzaglia di pioggia, hanno avuto il lor natale molti
giorni avanti, e si trattengono nell’asciutto e s’acquattano o tra’ cespugli dell’erbe, o tra’
sassi, o nelle bucherattole della terra; e perché son del colore di essa terra, non è così
facile, quand’elle stan ferme e rannicchiate, che l’occhio tra la polvere le possa
distinguere: e quel vedere ch’ell’hanno lo stomaco pieno di cibo e le budella piene di
molti escrementi in quello stesso momento nel quale si credon esser nate, parmi che sia
un evidente contrassegno di quella verità; della quale non son io il trovatore,
conciossiecosaché infin nell’Olimpiade cenquattordicesima, o poco dopo, ne’ tempi del
primo Tolomeo re d’Egitto, ella fu recitata nella scuola peripatetica di Teofrasto Eresio
successor d’Aristotile; come si può chiaramente vedere nella Libreria di Fozio, dove
trovasi stampato un frammento di quel libro che ‘l suddetto Teofrasto scrisse [citazione
in lingua greca], degli animali che repentinamente appariscono.
Perloché volentieri mi
dispenso ora di parlarne più a lungo, per poter cominciare a dirvi che se di sopra ho
affermato che mi si rende malagevole, anzi impossibile, il dar fede che nella belletta
lasciata ne’ campi dalle feconde inondazioni del Nilo si trovino animali co’ membri
parte animati, parte di pura terra composti, così ora non mi risolvo a credere che gli
alberi, i frutici e l’erbe possano produrre animaletti di tal natura che sovente si trovino
mezzi vivi e mezzi di legno, e per ancora in tutto il corpo non finiti d’animarsi: e
quantunque il suddetto padre Atanasio Chircher, nel secondo tomo del Mondo
sotterraneo, scriva d’averne veduti de’ così fatti e di averne mostrati ad altre persone
su’ ramuscelli del viburno o brionia e su’ fusti di quell’erba che in Toscana dicesi
codacavallina, dubito che vi possa essere stata qualche illusione abile a poter far
travedere l’occhio, e mi fo lecito scrivere liberamente il mio dubbio, perché so molto
bene quanto il padre Atanasio sia sincero amatore della verità, e che per rintracciarla
egli non ha perdonato a tante sue gloriose fatiche, non meno dell’ingegno che del corpo;
ed io, per lo medesimo fine, con maniera libera vo scrivendo il mio parere perché,
. . . s’io al vero son timido amico,
Temo di perder vita tra coloro
Che questo tempo chiameranno antico.
E questo stesso timore, accompagnato da un ardentissimo amore della verità, è
cagione che sinceramente vi confessi che ancor io ne’ tempi addietro, abbacinato
dall’inesperienza ho talvolta creduto di quelle cose delle quali soventemente
ricordandomi,
Di me medesmo meco mi vergogno.
Ed in vero bisogna che io avessi le traveggole allora quando, nelle mie Osservazioni
intorno alle vipere, scrissi che il cuore di questi serpentelli ha due auricole e due cavità
o ventricoli, imperocché il cuor viperino non ha che una sola auricola ed una sola cavità:
egli è ben vero che quella sola auricola gonfiata si dirama come in due tronchi ed
internamente ha una sottilissima membrana che quasi la divide in due celle; e per queste
due divisioni entrando, e cercando con lo stile o tenta, mi riuscì pigliar l’errore de’ due
ventricoli, uno de’ quali veramente vi è, ma l’altro mi veniva disavvedutamente fatto
con la tenta.
Io m’era così invogliato ed invaghito d’imbattermi pure in alcuno di quegli
animalucci, parte semoventi e parte di legno (tanto vale appresso di me l’autorità d’un
uomo così dotto com’è il padre Chircher), che non v’è diligenza e sollecitudine ch’io
non abbia usato, e che non abbia fatto usare, per trovarne pur qualcuno: laonde il dì 30
di maggio, essendomi stati portati certi ramuscelli d’ossiacanta o spinbianco, i quali
sulla propria pianta s’erano incatorzoliti, stravolti, rigonfiati, inteneriti e divenuti
scabrosi e quasi lanuginosi, ed avean preso un color gialliccio punteggiato di rosso e di
bigio, sperai di poter veder da quegli la desiderata nascita e trasformazione; e tanto più
crebbe la speranza quanto che vidi cert’altri ramuscelli simili sulla fillirea seconda del
Clusio, ed altri pur simili su’ tralci di quella clematide che in Toscana si chiama vitalba:
per la qual cosa raddoppiate le diligenze, riposi di que’ ramuscelli e di que’ tralci in
alcune scatole; e di più ancora ogni giorno osservava e faceva osservare tutte tre quelle
suddette piante, sulle quali eran rimasi molti di quegl’incatorzolimenti stravolti; ma in
fine m’accorsi che erano un vizio naturale di esse piante sulle quali ogn’anno per lo più
si trovava, e che non generava mai insetto di sorta veruna.
Voi potrete considerarne le
figure qui appresso, e tanto più volentieri ve le mando quanto che non credo che da
alcuno scrittore, ch’io sappia, sia giammai stato badato a questo tal vizio o scherzo che
sia.
Ma perché tra questi animaluzzi, che il padre Chircher asserisce che nascono da’
ramuscelli putrefatti del viburno e della codacavallina, egli ne porta la figura d’un’altra
terza spezie che crede generarsi e dalle paglie e da’ giunchi imputriditi, non vi sia
noioso ch’io vi racconti quel che m’è avvenuto quest’anno ad Artimino, dove ne’
boschi, tra le scope, ho veduti infinitissimi bacherozzoli di questa terza spezie, i quali
da’ contadini di quel contorno son chiamati cavallucci: mentre dunque io mi tratteneva
colla corte nel mese di settembre alle cacce di quel paese, me ne furono portati
moltissimi, e vidi che erano di due maniere: gli uni aveano il colore tutto verde con due
linee bianche paralelle distese da’ lati per tutta la lunghezza del corpo loro, e gli altri
erano di color tutto rugginoso, o per dir meglio dello stesso color de’ fuscelli della
scopa. Tanto gli uni quanto gli altri hanno due cornetti in testa, composti di molti e
molti nodi o articoli. I cornetti de’ verdi son di color rossigno, ma gli altri della seconda
razza son dello stesso colore, che è tutto ‘l restante del corpo. Il lor capo è piccolissimo,
minore d’un granello di grano, gli occhi son duri e rilevati e più piccoli d’un seme di
papavero, e ne’ verdi son di color rosso. La bocca è fatta come quella delle cavallette.
Camminano con un passo grave e lento ed hanno sei gambe, ed ogni gamba ha tre
piegature, e le due prime gambe nascono appunto appunto sotto quella congiuntura,
dove sta attaccata la testa. Tutto quello spazio che è dalle due ultime gambe fino
all’estremità della coda, è composto e segnato di dieci anelli o incisure o nodi; e
dall’ultimo nodo spuntano due sottilissimi pungiglioni. Tutto il corpo insieme non è più
lungo di cinque dita a traverso, e per lo più dal capo alla coda è grosso ugualmente; e se
bene alcuni nel ventre inferiore son più tronfi e di figura romboidale, questo avviene
perché son femmine, ed hanno il ventre più o men grosso e rilevato, secondo che è
maggiore o minore il numero dell’uova che in quello si trovano. Tanto i maschi quanto
le femmine gettano la spoglia tutta intera in quella guisa che fan le serpi, i ragni ed altri
insetti, e la loro spoglia non è altro che una bianca e sottilissima tunica della stessa
figura del lor corpo.
Quando mi furon portati questi animaletti, era meco per fortuna il Sig. Niccolò
Stenone di Danimarca, famosissimo, come voi sapete, anatomico de’ nostri tempi e
letterato di ragguardevoli e gentilissime maniere, trattenuto in questa corte dalla reale
generosità del Serenissimo Granduca: ci venne ad ambodue in pensiero d’osservar le
viscere e l’interna fabbrica di quelle bestiuole, per quanto comportasse la lor minutezza,
e vedemmo che dalla bocca si parte un canaletto, il quale, camminando per tutta la
lunghezza del corpo fino ad un forame vicino all’ultimo nodo della coda, fa l’ufizio
d’esofago, di stomaco e di budella, ed intorno a questo canaletto trovammo un confuso
ammassamento di vari e diversi filuzzi, che son forse vene ed arterie.
Da mezzo il corpo
fino all’estremità della coda osservammo esservi un gran numero d’uova legate insieme,
o vestite da un filo o canale che per la sottigliezza non si poteva discernere.
Non erano
quest’uova più grosse de’ granelli di miglio, e certe erano molli e tenere, e certe più
dure: le molli e tenere apparivano gialliccie e quasi trasparenti, ma le dure, ancorché
internamente fossero gialle, avevano il guscio nero; ed in tutto, fra le nere e gialle, in un
solo animale ne contammo fino a settanta; e ad un altro, che tenemmo rinchiuso in una
scatola quattro giorni senza mangiare, oltre venticinque che n’avea fatte in quella
scatola, ne trovammo in corpo infino al numero di quarantotto.
Mentre così passavamo
il tempo, osservammo che, non ostante che a certi di quegli animaluzzi avessimo
strappato fuor del corpo tutte quante le viscere, osservammo, dico, che continuavano a
vivere o a muoversi, in quella guisa appunto che fanno le vipere sventrate ed altri molti
insetti; per lo che ad alcun’altri tagliammo il capo, ed il capo senza ‘l busto per qualche
breve tempo vivea; ma il busto senza ‘l capo vivacissimamente per lungo tempo
brancolava, come se avesse tutti quanti gli altri suoi membri; onde per ischerzo e per un
giuoco da villa ci risolvemmo a rinnestare il capo su ‘l busto, e ci riuscì con quella
stessa facilità colla quale riusciva di rinnestarsi le membra all’incantatore Orrilo, di cui
il grand’epico di Ferrara:
Più volte l’han smembrato, e non mai morto,
Né per smembrarlo uccider si potea,
Che se tagliato o mano o gamba gli era,
La rappiccava, che parea di cera.
Or fin a’ denti il capo gli divide
Grifone, or Aquilante fin’ al petto.
Egli de’ colpi lor sempre si ride;
S’adiran essi, che non hanno effetto.
Chi mai d’alto cader l’argento vide,
Che gli alchimisti hanno mercurio detto,
E spargere e raccor tutti i suoi membri,
Sentendo di costui, se ne rimembri.
Se gli spiccano il capo, Orrilo scende,
Né cessa brancolar sin che lo trovi,
Ed or pel crine ed or pel naso il prende,
Lo salda al collo, e non so con che chiovi.
Piglial talor Grifone, e ‘l braccio stende,
Nel fiume il getta, e non par ch’anco giovi.
Che nuota Orrilo al fondo com’un pesce,
E col suo capo salvo alla riva esce.
Così i nostri animaletti col capo rinnestato non solo continuarono a vivere tutto quel
giorno, ma eziandio per cinqu’altri giorni continui, con molta maraviglia di chi non ne
sapeva il segreto; e tanto più che in quello stato non solo si sgravavano de’ soliti
naturali escrementi del ventre, ma facevano ancora dell’uova: onde chi fosse stato
corrivo a scrivere questo saldamento di teste, avrebbe potuto avere una gran quantità di
testimoni di vista; ma avrebbe scritta una bella favola: conciossiecosaché quelle teste si
rappiccavano a’ lor busti perché da’ busti gocciolava un certo liquor verde viscoso e
tenace che, seccandosi, era cagione d’un saldo ricongiugnimento; ma le teste, ancorché
‘l busto vivesse, non facean moto di sort’alcuna né mostravan segni di vita; ed i busti,
senza ‘l riunimento delle teste, continuavano a vivere que’ cinque o sei giorni come se
le avessero riunite: e se voi aveste la curiosità di vedere la figura di questi animaletti,
senza cercarla nel Chircher o nel Jonstono, che la mette nella sua celebre Storia
degl’insetti, tav. XI, num. 2, e tav. XII, num. 26, io ve la mando qui disegnata dal
naturale, insieme con la figura d’uno de’ lor uovi, aggrandita coll’aiuto d’uno
squisitissimo microscopio d’Inghilterra; e vedrete che da una estremità è ovato e
dall’altra ha cert’orli rilevati e s’assomiglia ad uno di que’ mezz’uovi di legno, de’ quali
ci serviamo in vece di scalini, e si serrano a vite.
D’un parlare nell’altro son ito, senz’avvedermene, troppo lungi da quel discorso
ch’io faceva poc’anzi, sul quale ora rimettendomi, fa di mestieri ch’io ritorni a
favellarvi di quegl’insetti che si veggono avere il nascimento sull’erbe infracidate, e
ch’io vi dica che su tutte quante le spezie ho veduto indifferentemente nascere i vermi:
onde non è un miracolo ciò che Dioscoride e Plinio hanno scritto per cosa considerabile
e singulare, che su ‘l bassilico masticato ed esposto al sole avvenga un simile
nascimento di bachi, imperocché tale accidente è comune a tutte quell’erbe su le quali
son portati dagli animali i semi de’ vermi.
Da questi vermi prodotti su l’erbe infracidate
ho veduto talvolta nascer mosche ordinarie e talvolta qualche moscione, ma per lo più, e
non di rado, da una pianta sola moltissime generazioni di animaletti volanti, e così
minuti che con molta ragione alcuni di essi furono da Tertulliano chiamati unius puncti
animalia; e mi si ravviva alla memoria che su ‘l solo isopo, su ‘l solo spigo e su ‘l solo
iperico, oltre alle mosche ordinarie e ad alcuni altri pochi moscioni, nacquero otto o
nove altre diverse razze di moscherini tra loro differentissimi di figura.
Su ‘l prezzemolo
trovai parimente alcuni bachi similissimi a quegli che si trasformano in mosche: erano
però tutti pelosi, e facendo cerchio di sé medesimi spiccavano sovente in qua ed in là
vari salti; ma non mi fu favorevole la fortuna nel farmi vedere ciò che ne sarebbe nato,
imperocché morirono tutti avanti che in uova, come gli altri, si conducessero e si
fermassero; forse pel freddo della stagione, che si era avanzata verso ‘l fine del mese di
novembre.
Sentite ora quel che scrive Plinio nel libro ventunesimo della Storia naturale:
Un’altra maraviglia, dice egli, avviene del mele nell’isola di Candia: quivi è il monte di
Carina, il quale ha nove miglia di circuito: dentro a questo spazio non si trovano
mosche, ed il mele colà fabbricato esse mosche mai non assaggiano; ed essendo questo
singolare per l’uso de’ medicamenti, con tale esperienza si elegge.
La stessa maraviglia
racconta Zeze del mele attico, e soggiugne che questo avviene per essere l’Attica
abbondantissima di timo, il di cui acuto odore è dalle mosche grandemente abborrito.
Lo riferisce altresì Michele Glica ne’ suoi greci Annali e n’adduce la medesima ragione
di Zeze: e pure io ho vedute le mosche partorir le loro uova ed i loro vermi nel timo, e
da que’ vermi nascerne le mosche, e quelle mosche golosamente mangiarsi non
solamente il mele allungato con la decozione del timo, ma eziandio trangugiarsi un
lattuario composto col suddetto mele e con foglie di timo.
Forse ne’ tempi di Plinio e
nel monte Carina era una veridica storia, ma in Toscana crederei che oggi noverar si
potesse tra le favole: laonde, per terminar più presto che mi sarà possibile questa ormai
troppo lunga Lettera e troppo tediosa, ripiglio a dirvi che siccome tutte le carni morte e
tutti i pesci, tutte l’erbe e tutti i frutti sono un nido proporzionatissimo per le mosche e
per gli altri animaletti volanti, così lo sono ancora tutte le generazioni di funghi, come
ho potuto vedere nelle vesce, ne’ porcini, negli uovoli, ne’ grumati, nelle ditola ed in
altri simiglianti: io parlo però di que’ funghi i quali di già sono stati còlti e, per così
dire, son morti e putrefatti, imperocché quegli che stanno radicati in terra o su gli alberi,
e che vivono, sogliono generare cert’altre maniere di bachi, alcune delle quali sono
differentissime nella figura, in tutto e per tutto, da’ vermi delle mosche;
conciossiecosaché questi de’ funghi non vanno strascicando il loro corpo per terra, né
vanno serpeggiando come quegli, ma camminano co’ loro piedi, come i bachi da seta, e
se quelli delle mosche, de’ moscherini e de’ moscioni hanno il muso lungo ed aguzzo,
questi lo hanno corto e schiacciato, con una fascia nera sopra di esso.
Questi stessi
dunque, finiti ch’e’ son di crescere, si fuggono studiosamente da quel fungo nel quale
son nati e rilevati, ed in vece di trasmutarsi in uova si fabbricano intorno un
piccolissimo bozzoletto di seta, in cui ciascheduno di essi sta rinchiuso alcuni giorni
determinati, dopo lo spazio de’ quali da ogni bozzolo esce fuora un animaletto volante,
che talvolta è una zanzara, talvolta una moschetta nera con quattr’ale, e talvolta un’altra
moschetta parimente nera e con quattr’ale, col ventre inferiore allungato, a foggia di
coda simile a quella delle serpi.
Or qual sia la cagione efficiente prossima che generi questi bachi ne’ funghi viventi,
io per me credo che sia quella stessa che gli genera nelle vive piante e ne’ loro frutti,
altresì viventi; intorno alla quale varie sono l’opinioni de’ filosofi e di coloro che la
virtù delle piante, ovvero la loro natura, investigarono.
Fortunio Liceto, ne’ libri Del
nascimento spontaneo de’ viventi, supponendo per vero verissimo che dall’anima
vegetativa, più ignobile di tutte l’altre, non possa mai prodursi l’anima sensitiva, crede
che quella generazione di bachi si faccia per cagione del nutrimento che le piante
prendono dalla terra, in cui egli dice che sono molte particelle d’anima sensitiva, esalate
o dagli escrementi o da’ corpi morti o viventi degli animali; soggiugne ancora che da’
medesimi corpi, o viventi o morti, svaporano molti atomi o corpicelli pregni d’anima
sensitiva, i quali, volando per l’aria ed attaccandosi alle scorze delle piante, alle foglie
ed a’ frutti rugiadosi, cagionano il nascimento de’ bachi. Pietro Gassendo è di parere
che nella polpa de’ frutti nascano i vermi, perché le mosche, l’api, le zanzare ed altri
simili insetti, posandosi sopra i fiori, vi lascino i loro semi, i quali semi, rinchiusi e
imprigionati poi dentro a’ frutti, coll’aiuto del calore della maturazione divengano
vermi.
Potrei molte e molt’altre opinioni addurvi, ma perché quasi tutte si riducono a
quelle delle quali nel bel principio di questa Lettera vi favellai, perciò stimo opportuno
il tralasciarle, e se dovessi palesarvi il mio sentimento crederei che i frutti, i legumi, gli
alberi e le foglie in due maniere inverminassero.
Una, perché venendo i bachi per di
fuora e cercando l’alimento, col rodere si aprono la strada ed arrivano alla più interna
midolla de’ frutti e de’ legni.
L’altra maniera si è, che io per me stimerei che non fosse
gran fatto disdicevole il credere che quell’anima o quella virtù, la quale genera i fiori ed
i frutti nelle piante viventi, sia quella stessa che generi ancora i bachi di esse piante. E
chi sa forse che molti frutti degli alberi non sieno prodotti, non per un fine primario e
principale, ma bensì per un ufizio secondario e servile, destinato alla generazione di
que’ vermi, servendo a loro in vece di matrice, in cui dimorino un prefisso e
determinato tempo; il quale arrivato, escan fuora a godere il sole.
Io m’immagino che questo mio pensiero non vi parrà totalmente un paradosso,
mentre farete riflessione a quelle tante sorte di galle, di gallozzole, di coccole, di ricci,
di calici, di cornetti e di lappole che son prodotte dalle querce, dalle farnie, da’ cerri, da’
sugheri, da’ lecci e da altri simili alberi da ghianda; imperciocché in quelle gallozzole, e
particolarmente nelle più grosse che si chiamano coronate, ne’ ricci capelluti, che
ciuffoli da’ nostri contadini son detti, ne’ ricci legnosi del cerro, ne’ ricci stellati della
quercia, nelle galluzze della foglia del leccio si vede evidentissimamente che la prima e
principale intenzione della natura è formare dentro di quelle un animale volante;
vedendosi nel centro della gallozzola un uovo che, col crescere e col maturarsi di essa
gallozzola, va crescendo e maturando anch’egli, e cresce altresì a suo tempo quel verme
che nell’uovo si racchiude; il qual verme, quando la gallozzola è finita di maturare e che
è venuto il termine destinato al suo nascimento, diventa, di verme che era, una mosca; la
quale, rompendo l’uovo e cominciando a roder la gallozzola, fa dal centro alla
circonferenza una piccola e sempre ritonda strada, al fine della quale pervenuta,
abbandonando la nativa prigione, per l’aria baldanzosamente se ne vola a cercarsi
l’alimento.
Io vi confesso ingenuamente che, prima d’aver fatte queste mie esperienze intorno
alla generazione degl’insetti, mi dava a credere o, per dir meglio, sospettava che forse la
gallozzola nascesse perché, arrivando la mosca nel tempo della primavera, e facendo
una piccolissima fessura ne’ rami più teneri della quercia, in quella fessura nascondesse
uno de’ suoi semi, il quale fosse cagione che sbocciasse fuora la gallozzola, e che mai
non si vedessero galle o gallozzole o ricci o cornetti o calici o coccole, se non in que’
rami ne’ quali le mosche avessero depositate le loro semenze; e mi dava ad intendere
che le gallozzole fossero una malattia cagionata nelle querce dalle punture delle
mosche, in quella guisa stessa che dalle punture d’altri animaletti simiglievoli veggiamo
crescere de’ tumori ne’ corpi degli animali.
Io dubitava ancora se per fortuna potess’essere che quando spuntano le gallozzole ed
i ricci, sopraggiugnendo le mosche, spargessero sopra di essi qualche fecondo liquore di
seme che, pregno di spiriti vivacissimi, potesse penetrar nella parte più interna ed
ingravidandola producesse quivi quel verme.
Ma, avendo poi meglio considerato che vi
son molti frutti e legumi che nascono coperti e difesi da’ loro invogli o baccelletti, e che
pur bacano ed intonchiano; avend’osservato che tutte le gallozzole nascon sempre
costantemente in una determinata parte de’ rami, e sempre ne’ rami novelli, e che quelle
gallozzoline che nascono nelle foglie della quercia, della farnia e del cerro, anch’esse
costantemente nascon tutte su le fibre o nervi di esse foglie e che né pur una
gallozzolina si vede nata sul piano della foglia tra un nervo e l’altro; che tutte
infallibilmente spuntano da quella parte della foglia che sta rivolta verso la terra, e niuna
da quella parte più liscia che riguarda il cielo, e per lo contrario tutte le gallozzoline che
si trovano nelle foglie del faggio e d’alcuni altri alberi non ghiandiferi stanno tutte dalla
parte più liscia di esse foglie; avendo ancora posto mente che molte foglie d’altri alberi,
su le quali nascono o vesciche o borse o increspature o gonfietti pieni di vermi, quando
quelle foglie spuntano, elle spuntano con quelle stesse vesciche o borse, le quali molto
bene si veggiono, ancorché minutissime sieno le foglie, e vanno crescendo al crescere di
esse foglie; e di ciò manifestamente ogn’uno potrà certificarsi coll’osservar
diligentemente quel che nasce nelle foglie dell’olmo, del leccio, dell’alberello, del
susino salvatico e del lentisco; in oltre il cerro fa alcuni grappoletti di fiori; da que’ fiori
son prodotte altrettante coccole rosse o paonazze, ciascheduna delle quali ingenera tre o
quattro bachi rinchiusi ne’ loro casellini distinti.
Il medesimo cerro fa un altro
grappoletto di fiori, e da que’ fiori spuntano alcuni calicetti verdegialli legnosi nella
base e teneri nell’orlo, e tutti questi calici fanno i lor bachi, ed i bachi escon fuora in
forma d’animali volanti: perciò, mutandomi d’opinione, mi pare di poter più
probabilmente credere che la generazione degli animali nati dagli alberi non sia una
generazione a caso, né fatta da’ semi depositati dalle sopravvegnenti gravide mosche; e
tanto più perché non vi è pur una sola gallozzola che non abbia il suo baco, ed in ogni
sorta di gallozzole vi son sempre le proprie e determinate razze di bachi, di mosche e di
moscherini, le quali mai non variano.
In oltre maravigliosa è la maestria usata dalla
natura nel formare quell’uovo, e preparargli il luogo dentro la gallozzola, e corredarlo di
tante fibre e fili che da essa gallozzola vanno all’uovo, quasi altrettante vene ed arterie
che conducono l’opportuno sussidio per la formazione dell’uovo e del baco, e per lo
nutrimento che a loro fa di mestiere.
E perché vi ha certe particolari spezie di gallozzole
nelle quali non un solo, ma più vermi s’ingenerano, perciò essa natura seppe
accuratissimamente distinguere i luoghi, come lo sa fare in quegli animali che di
numerosa prole in un sol parto sono fecondi.
Si vede altresì che il verme delle
gallozzole ha un certo necessario fomento vitale da tutta quanta la quercia,
imperciocché, se sia còlta una galla coronata subito che spunti dall’albero, e che dentro
di essa l’occhio non possa scorgere principio di uovo, questa galla mai non baca e non
tarla e mai non produce la mosca; se si colga un poco meno acerba ed un poco più
grossetta della prima, e che vi si veggia l’uovo che comincia a farsi o che di poco sia
fatto, e sia per ancora molto acerbo e piccolino, ei va a male e non conduce il verme alla
maturazione; ma se ‘l verme vien’ a bene, egli ha il determinato e prefisso termine di
trasformarsi in mosca e di uscire dalla gallozzola, il qual termine mai non falla; egli è
ben vero che, secondo le diverse razze delle gallozzole, diverso è parimente il lor
termine: imperocché da alcune razze scappan fuora gli animaletti di primavera, da altre
di state, da altre d’autunno e da altre sul principio del verno; ma gli animaluzzi di
certune aspettano l’altra futura primavera, quegli di cert’altre la state, ed alcuni amano
di stagionarsi per entro la gallozzola lo spazio intero di due anni e oltre.
Egli è superfluo che di ciò io vi favelli ora più lungamente, essendovi questa storia in
qualche parte non ignota per quello che ne fu osservato ad Artimino, quando la corte
l’anno passato vi si tratteneva godendo le deliziose cacce di quelle boscaglie; anzi a
bella prova mi tacerò, rimettendomi a quello che sarò per dirne quando darò in luce
questa particolare e curiosissima Storia de’ vari e diversi frutti ed animali che dalle
querce e da altri alberi son generati; e credo fermamente che presto potrò soddisfare
alla curiosità degli investigatori delle cose naturali, essendomi stata favorevole la
generosa e real munificenza del Serenissimo Granduca mio Signore, mediante la quale
ne ho fatte miniare fino a ora molte e molte figure dal delicato pennello del Sig. Filizio
Pizzichi.
Non voglio già passare in silenzio, per tornare al mio primo proposito, che stimo non
esser gran peccato in filosofia il credere che i vermi de’ frutti sieno generati da quella
stessa anima e da quella stessa natural virtude che fa nascere i frutti stessi nelle piante; e
se bene in alcune scuole si tien per certo che una cosa men nobile non possa generarne
una più nobile della generante, io me ne fo beffe, ed il solo esemplo delle mosche e de’
moscherini che nascono nelle gallozzole delle querce parmi che tolga via ogni dubbio:
oltreché questi nomi di più nobile e di men nobile son termini incogniti alla natura ed
inventati per adattargli al bisogno delle opinioni or di questa or di quella setta, secondo
che le fa di mestiere.
Ma quando pure per le strepitose strida degli scolastici dovesse in
ogni modo esser vero che dall’ignobili cose non si potessero produrre le più nobili, io
non so per me vedere qual gran vergogna o quale stravagante paradosso mai sarebbe il
dire che le piante, oltre alla vita vegetativa, godessero ancora la sensibile, la quale le
condizionasse e le facesse abili alla generazione degli animali che da esse piante son
prodotti. Democrito, che per testimonianza di Petronio Arbitro omnium herbarum
succos expressit et, ne lapidum virgultorumque vis lateret, aetatem inter experimenta
consumpsit, non sdegnò di concedere il senso alle piante.
Pittagora e Platone ebbero
questo stesso parere; e l’ebbero similmente Anassagora ed Empedocle, se dar vogliamo
fede ad Aristotile che, nel primo libro Delle piante lo riferisce: Anassagora ed
Empedocle dicono che esse si muovono spinte da passione, e asseriscono che sentono e
si rattristano e si rallegrano; e di questi Anassagora disse che sono anche esseri viventi
e si rallegrano e si rattristano, deducandolo dal cadere e dal crescere delle foglie.
Ma i
ricreduti Manichei empiamente passarono più avanti, come racconta sant’Agostino, e
tennero che le piante avessero anima ragionevole e che però fosse misfatto d’omicidio il
coglierne frutti o fiori, lo strapparne violentemente foglie e rami e sradicarle totalmente
dal suolo.
Plotino però fu molto più moderato, scrivendo che elle hanno sentimento sì,
ma intormentito e stupido della stessa maniera che lo hanno l’ostriche, le spugne e gli
altri simili animali che piantanimali nelle scuole sono chiamati.
A Plotino ed agli altri
suddetti filosofi gentili si accostarono Giovanni Veslingio e Tommaso Campanella, con
molti altri moderni, tra’ quali l’eruditissimo nostro Imperfetto, dico il Signor Priore
Orazio Ricasoli Rucellai, ne’ suoi maravigliosi Dialoghi dell’anima fa parlare altamente
Vincenzio Mannucci, e con ragioni laudevoli, a favore di questa opinione, per prova
della quale non vi addurrò qui, secondo il detto di Plinio, che alcuni follemente si
facessero a credere che Pittagora comandasse l’astenersi dalle fave perché in quelle si
ricoverassero l’anime de’ morti; né meno vi dirò di questo legume la favolosa virtude
scritta ne’ libri filosofici manuscritti che van sotto nome d’Origene, dove s’afferma che
Zareta, filosofo di nazione caldeo e maestro di Pittagora, dicesse che le fave macerate al
sole rendevano un non so quale odore, simile a quello dell’umana semenza, e che
quando ell’erano fiorite, se si rinchiudevano in un vaso sepolto sotto la terra, dopo non
molti giorni si sarebbono trovate avere la vergognosa effigie di quella parte femminile
che, per nativa modestia, dalle donne più d’ogn’altra si cela, e che poscia averebbero
acquistata la figura del capo di un fanciullo; io non vi scrivo qui le precise greche parole
di Origene, o d’Epifanio che si sia l’autore di que’ libri, perché, se ne avrete curiosità, le
potrete vedere nell’erudite osservazioni fatte sopra Laerzio Diogene da quel
grandissimo e gentilissimo letterato, e nostro comune amico e accademico, Egidio
Menagio.
Per prova parimente della suddetta sensibilità delle piante, non fia che vi rammenti i
virgulti di Tracia animati dallo spirito del morto Polidoro, né meno i giardini di Alcina
mentovati dall’Ariosto, né le boscaglie inventate dal Boiardo e dal Berni; né vi ridurrò
alla mente nel secondo girone dell’lnferno quell’orribil selva, della quale il nostro
sovrano Poeta:
Però disse ‘l maestro, se tu tronchi
Qualche fraschetta d’una d’este piante,
Li pensier ch’hai si faran tutti monchi.
Allor porsi la mano un poco avante,
E colsi un ramuscel da un gran pruno;
E ‘l tronco suo gridò, perché mi schiante?
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
Ricominciò a gridar, perché mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi;
Ben dovrebbe esser la tua man più pia,
Se state fossim’ anime di serpi.
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
Dall’un de’ capi, che dall’altro geme
E cigola per vento che va via,
Così di quella scheggia usciva insieme
Parole e sangue; ond’ i’ lasciai la cima
Cadere, e stetti come l’uom che teme.
Imperocché queste, a prima giunta considerate e senza molto inoltrarsi, son fole
bizzarrissime de’ poeti, ritrovate per dar pasto alla plebe ed agli uomini ignoranti.
Ma voi, che avete gl’lntelletti sani,
Mirate la dottrina che si asconde
Sotto il velame delli versi strani.
Le cose belle (diceva il Berni) preziose e care,
Saporite, soavi e delicate
Scoperte in man non si debbon portare
Perché da’ porci non sieno imbrattate:
Dalla natura si vuole imparare,
Che ha le sue frutte e le sue cose armate
Di spine e reste e ossa e buccia e scorza,
Contra la violenza ed alla forza
Del ciel, degli animali e degli uccelli,
Ed ha nascosto sotto terra l’oro,
E le gioie e le perle e gli altri belli
Segreti agli uomin perché costin loro;
E son ben smemorati e pazzi quelli
Che fuor portando palese il tesoro
Par che chiamino i ladri e gli assassini,
E ‘l diavol che gli spogli e gli rovini.
Poich’anche par che la giustizia voglia,
Dandosi il ben per premio e guidardone
Della fatica, che quel che n’ha voglia
Debba esser valentuomo e non poltrone;
E pare anche che gusto e grazia accoglia
A vivande che sien per altro buone,
E le faccia più care e più gradite
Un saporetto con che sien condite.
Però quando leggete l’Odissea
E quelle guerre orrende e disperate,
E trovate ferita qualche dea
O qualche dio, non vi scandalizzate,
Che quel buon uom’ altr’intender volea
Per quel che fuor dimostra alle brigate,
Alle brigate goffe, agli animali
Che con la vista non passan gli occhiali.
E cosi qui non vi fermate in queste
Scorze di fuor, ma passate più innanzi,
Ché s’esserci altro sotto non credeste,
Per dio avreste fatto pochi avanzi;
E di tenerle ben ragione areste
Sogni d’infermi e fole di romanzi;
Or dell’ingegno ognun la zappa pigli,
E sudi e s’affatichi e s’assottigli.
E chi sa che Virgilio, Dante e gli altri toscani poeti con quelle lor favole non
volessero insegnarci che le piante non sono affatto prive di senso? Io so molto bene che
non v’è motivo, né conghiettura, né prova, né ragione concludente, non tanto per la
parte affermativa, quanto per la negativa; ma egli è anche vero che le piante si
nutricano, crescono e producono seme e frutto come gli altri animali; cercano con
ansietà il sole e l’aria aperta e sfogata, sfuggono in quel modo migliore che possono
l’ugge malefiche e con movimenti invisibili si storcono per iscansarle; e chi sa, se
gambe avessero e non fossero così altamente radicate in terra, che non fuggissero da chi
vuole offenderle, ed offese e straziate non facessero i lor versi ed i loro lamenti, se
organi possedessero disposti e proporzionati all’opra della favella?
Mi sovviene a questo proposito, ch’essendo io del mese di marzo in Livorno, vidi un
certo pomo o frutto marino abbarbicato nella terra tra gli screpoli d’uno scoglio: la
grossezza e la figura di esso pomo era come quella d’una arancia di mediocre
grandezza, di quel colore per appunto che hanno i funghi porcini, che però fungo marino
da’ pescatori è chiamato; ed avendolo còlto e volendo vederne l’interna struttura,
appena cominciai col coltello a pungerlo ed a tagliarlo, che vidi manifestissimamente
che moto avea e senso, raggrinzandosi ed accartocciandosi ad ogni minimo taglio e
puntura; e pure nella sua interna cavità, le pareti della quale erano bianche lattate, non
conteneva altro che cert’acqua limpidissima di sapore di sale ed alcuni fili bianchi, i
quali da una parte all’altra delle pareti senz’ordine alcuno erano distesi e tirati. E le
spugne, che pur da alcuni valentuomini son noverate tra le piante, non si scontorcon’
elleno, e non si raggrinzano quando son toccate ed offese?
Nella paralisia accade talvolta che in qualche membro si perda il senso restando
libero il moto, e talvolta si perda totalmente il moto senza minima offesa del senso. Or
chi direbbe, in questo secondo avvenimento, che in quel membro paralitico ed immobile
fosse rimaso il sentimento, se il malato non avesse bocca né voce da poterlo significare,
e non si lagnasse alle punture ed agli strazzii che, per rendergli la salute, dal chirurgo gli
son fatti?
Similmente, vedendosi libero e franco il moto in un altro membro, chi
crederebbe giammai che non vi fosse anco il sentire, se ‘l malato stesso non ne desse
contrassegni?
Adunque il moto in che che sia non è argomento certo, come alcuni
vogliono, per provare il senso.
Creda per tanto ogn’uno ciò che più gli aggrada, che a
me, per venire al mio principale intento, basta di aver detto che, per l’esperienze fatte,
mi sento inclinatissimo a credere che la generazione de’ vermi nell’erbe, negli alberi e
nei frutti viventi non sia una generazione a caso, ma sempre costantemente la stessa, e
che le razze di que’ vermi si convertano poi quasi tutte in animaletti volanti, ciascuno
della propria sua spezie.
E qui non mi posso contenere ch’io non ve ne descriva il
nascimento e la trasformazione d’una o di due sorte, che servirà forse per chiarezza
maggiore.
Le spezie delle ciriege bacano quasi tutte indifferentemente sull’albero, e quando elle
inverminano, ogni ciriegia inverminata ha sempre un sol baco, né mai in una sola
ciriegia n’ho potuto trovar due.
Il baco è bianco, senza gambe, ed ha la figura del cono,
come quegli delle mosche descritti nel principio di questa Lettera: fin tanto ch’e’ si
mantien baco, attende solamente a nutrirsi ed a crescere senza mai sgravarsi degli
escrementi del ventre; quando egli è arrivato alla necessaria sua grandezza, si fugge da
quella ciriegia, nella quale è nato, e cerca luogo da potersi rimpiattare, e quivi appoco
appoco si raggrinza e s’indurisce e si trasforma in un piccol uovo bianco lattato senza
mutar di colore, dal qual uovo, finché non è passato il principio della futura primavera,
non si vede mai nascer cosa veruna; ma, avvicinandosi la state, ne scappa fuora una
moschetta di color nero tutta pelosa; e i peli del dorso e quegli della testa, che son più
radi, sono ancora più lunghi di que’ del ventre.
Sul dorso si vede un mezzo cerchio di
color d’oro, e la testa è listata per traverso d’una stretta fascia pur d’oro anch’essa, dalla
quale si diparte una striscia simile più larga che va a coprire gran parte di quello spazio
ch’è tra un occhio e l’altro: gli occhi son rossi, circondati d’una linea d’oro; l’ali son
bianche, con certe macchie trasversali di color intra bigio e nero, così galantemente
disposte che somigliano le penne degli sparvieri: sei sono i piedi, neri anch’essi e pelosi,
e nelle congiunture toccati d’oro.
E meglio potrete vederne la figura ch’io ve ne mando
in questo foglio, nel quale è delineato il verme, l’uovo in cui si trasfigura il verme, e la
moschetta che esce da quell’uovo, non solo nella naturale loro piccola figura, ma ancora
in più grande e più distinta, conforme è mostrata dal microscopio d’un sol vetro.
Differenti molto da i bachi delle ciriege son quegli che si trovano nell’avellane o
nocciuole fresche; imperocché questi delle nocciuole hanno quasi la figura d’un mezzo
cilindro composto di tanti mezzi anelli bianchi, col capo di color capellino e lustro:
camminano con moto non molto veloce e con sei piccolissimi piedi situati in tre ordini
vicin’al capo.
Questi vermi, ancorché io v’abbia usata un’esattissima cura, non ho mai
potuto vedere che si trasformino in animali volanti; onde può essere, come credo, che
vivano e muoiano bachi, tali quali son nati. Io n’ho alle volte rinchiusi alcuni, i quali,
così rinchiusi e senza mangiare, son vissuti lungo tempo, ed in particolare certuni che
camparono dal dì venticinque di luglio fino a’ dieci di novembre.
Cert’altri vermi di
figura non dissimile, ma più grandi, rossi e pelosi, i quali qualche volta si trovano nelle
barbe delle bietole rosse e ne’ capi d’aglio, anch’essi campano, serrati ne’ vasi,
lunghissimo tempo; né si trasformano mai in altri animaletti con l’ali: ed è certo che uno
di quest’ultimi, racchiuso in un piccolo alberelletto di vetro ben serrato con carta, visse
dal principio d’agosto fino a tutto maggio.
Se poi que’ così fatti bachi delle nocciuole
sieno generati dalla virtù prolifica dell’albero o pure vi sieno entrati per di fuori, non è
così facile il determinarlo, imperocché, dal vedersi che quasi tutte l’altre maniere di
frutti generano da per sé i vermi, parrebbe che anco il nocciuolo dovesse generargli;
dall’altra parte potrebb’essere argomento non dispregevole che v’entrino per di fuora,
l’osservarsi che tutte le nocciuole bacate, da cui non sia per ancora uscito il verme,
hanno nel guscio un piccol callo, o porro o eminenza, che è forse la cicatrice del foro
che è fatto dal verme allora quando, essendo esso verme piccolissimo e facendosi la
strada pel guscio tenero della nocciuola, penetrò nella cavità di essa; ed il foro poi, col
crescere e coll’indurarsi del guscio, andò restrignendosi e saldandosi, onde il verme,
quando è ingrossato e fatto, se vuole uscirne bisogna che si faccia un nuovo foro più
largo, il qual foro si trova in tutte le nocciuole dalle quali o è fuggito il verme o è in
procinto di fuggirne.
Io sto dunque in dubbio di quello che io debba credere, e non mi
saprei risolvere, ancorché l’autorità d’un dottissimo filosofo mi faccia parer più
credibile che i bachi delle nocciuole sien bachi venuti di fuora, e non generati dentro di
esse; e questi si è il celebratissimo Ioachimo Jungio di Lubecca nelle sue Fisiche
Dossoscopie, raccolte e stampate con note molto dotte ed erudite da Martino Foghelio
amburghese, letterato di nobilissima fama, mio grandissimo amico.
I bachi delle susine son similissimi a quegli delle nocciuole, ma camminano con
moto più veloce e più lesto, ed alcuni son bianchi ed altri rossigni: si trattengono dentro
alle susine, dove son nati, nutrendosi della lor polpa e sgravandosi degli escrementi del
ventre, fintanto che sieno perfettamente cresciuti, ed allora l’abbandonano, ed ogni baco
si fabbrica intorno un bozzoletto bianco di seta, dal quale rinasce poi in forma d’una
farfallina grigia con la punta delle sue quattro ali macchiata di nero.
Della stessa razza de’ vermi delle susine sono i vermi delle pesche e delle pere, e
fanno i bozzoli, e da’ bozzoli rinascono farfalle.
Il giorno venticinque di giugno
rinchiusi in un vaso di vetro, benissimo serrato con carta a più doppi, dieci o dodici
bachi delle pere moscadelle, e tutti in quello stesso giorno, avendo roso e forato il
foglio, se ne fuggirono via; onde il giorno seguente ne misi due altri in un vaso serrato
con sughero, e subito saliti nella parte superiore del vaso, vi cominciarono a tessere due
bozzoli, da ciascuno de’ quali il giorno quattordici di luglio uscì una farfallina.
Il giorno
sedici dello stesso mese riposi tre altri bachi cavati da tre pere bugiarde: stettero due
giorni senza mettersi a lavorare i bozzoli, ma il dì diciotto cominciarono l’opera, ed in
capo a due giorni uno de’ suddetti bachi se n’uscì del bozzolo e ne lavorò un altro di
nuovo, e tutti tre rinacquero farfalle, non già nello stesso giorno; imperocché uno
nacque il dì sei di agosto, un altro il dì nove ed il terzo il dì quindici; perloché, facendo
nuove esperienze, rinvenni che i bachi delle pere per lo più stanno rinchiusi nel bozzolo
intorno a diciotto giorni; alle volte però trapassano di gran lunga questo termine; e se i
bachi son cavati dalle pere prima del lor necessario e perfetto crescimento, non si
conducono altrimenti a fare il bozzolo, essendoché in capo a pochi giorni si muoiono.
Ma giacché ho fatta menzione di questi farfallini nati da’ bachi delle pere e delle
susine, parmi che voi mi domandiate se tutte l’altre spezie di farfalle sieno generate
dagli alberi, o pure se nascano dalle loro madri, per concepimento d’uova o di vermi.
Son discordi tra di loro gli autori in questa materia; onde brevemente vi dirò il mio
sentimento, senza recitarvi le diverse opinioni di quegli.
S’uniscono i maschi delle farfalle colle femmine, e queste, restando così gallate le
loro uova, le ne fanno poscia in gran numero; dalle quali nascon que’ vermi che noi gli
chiamiamo bruchi, e da’ Latini detti furono erucae: questi bruchi fino ad un certo
determinato spazio di tempo si nutriscono di foglie d’alberi e d’erbe proporzionate, ed
in quel mentre s’addormentano più volte e gettano più volte la spoglia; ma quando son
finiti di crescere, alcuni tessono intorno a sé un bozzolo di seta, altri non fanno bozzolo,
ma si raggrinzano e s’induriscono e si trasformano in crisalidi o aurelie, e nel
raggrinzarsi e nell’indurirsi cavan fuora due o tre fili di seta, co’ quali tenacemente
s’attaccano a qualche tronco d’albero o a qualche sasso: cert’altri però d’un’altra razza,
ancorché si raggrinzino e s’induriscano e si trasformino in crisalidi, non filano que’ due
o tre fili di seta, e non s’attaccano a verun luogo, e possono esser trabalzati dal vento in
qua ed in là.
Finalmente da’ bozzoli e dalle crisalidi ignude nascono o, per dir meglio,
scappan fuora le farfalle come da un sepolcro, ed ogni razza ha il suo preciso e
determinato tempo di nascere: imperocché alcune razze scappan fuora in capo a pochi
giorni, altre indugiano delle settimane ed altre de’ mesi: anzi i bruchi di questa terza
razza, trasformandosi in crisalidi ignude, o fabbricandosi intorno il bozzolo nel fine
della primavera, non isfarfallano fino all’altra primavera dell’anno futuro: dalle crisalidi
ignude però non escon sempre le farfalle, ma da alcune maniere di esse escon talvolta
delle mosche.
Né vi prenda maraviglia di questi strani nascimenti e trasformazioni,
mentre noi medesimi, per così dire, non siamo altro che bruchi e vermi; onde pur di noi
cantando il nostro divino Poeta gentilmente ebbe a dire:
Non v’accorgete voi che noi siam vermi
Nati a formar l’angelica farfalla?
E perché mi giova molto a mostrarvi ch’è il vero quanto di sopra v’ho detto, piacemi
di portarvi qui tutte quelle poche esperienze che per fortuna mi son rimase, delle molte
che intorno a’ bruchi ed alle farfalle ho fatte.
Il giorno cinque di giugno, andando alla villa del Poggio Imperiale, vidi che ne’ lecci
dello stradone passeggiavano moltissimi bruchi, alcuni de’ quali si vedevan talvolta
calar dagli alberi fino in terra giù per certi fili di seta, e dalla terra velocemente rimontar
negli alberi su per gli stessi fili.
Ne feci pigliare una gran quantità, e posi mente che
erano tutti vestiti d’un pelo lungo due buone dita a traverso, parte di color nero e parte
di color di ruggine, e sulla groppa erano tutti punteggiati di quattordici punti in foggia di
margheritine rosse.
Gli misi in certe cassette, dove per alcuni giorni si nutrirono di
foglie di leccio, e poscia spogliandosi di quella veste pelosa, parve che ognun di loro
volesse cominciare un bozzolo, tessendosi all’intorno alcuni fili di seta; ma, o che
mancasse loro la materia, o che sien soliti così fare, come credo, non compirono il
bozzolo, ma tra quell’ingraticolato di fila si cangiarono in crisalidi, prima rossigne e poi
nericce aventi la figura d’un cono, su la di cui base rimasero alcuni pochi peluzzi.
Il dì
venzei di giugno ne nacquero certe farfalle della stessa figura di quelle che nascono da’
bozzoli della seta; ma se quelle de’ bozzoli della seta son bianche, queste erano di color
capellino sbiadato, tutto rabescato di nero, con due larghi spennacchietti neri in testa, e
nell’ultima estremità del ventre con una nappetta di seta nera: ma il giorno ventotto
nacquero da alcun’altre delle suddette crisalidi cert’altre farfallette minori tutte bianche,
due delle quali si attaccarono insieme, onde la femmina fece poi molte e molt’uova
piccolissime e gialle, dalle quali nel mese di maggio nacquero altrettanti piccolissimi
bruchi, che in due giorni si morirono.
Il primo giorno di luglio mi fu portato un bruco verde assai grosso, trovato in un
viale del giardino di Boboli: se gli vedevano sedici gambe, com’hanno per lo più la
maggior parte de’ bruchi, cioè otto sotto la gola, sei a mezzo ‘l ventre e due
nell’estremità della coda: aveva quattordici incisure o anelli, ed ogni anello aveva due
macchiette di color rancio o doré, e sei perle dello stesso colore, coperte di peli castagni,
corti e radi.
A dì cinque di luglio, senz’aver in questi quattro giorni mangiato, fece il suo
bozzolo tutto di seta bianca, con molta sbavatura di seta all’intorno del bozzolo, il quale,
dalla parte più acuta, era aperto e da quest’apertura scappò fuora una farfalla al fine del
mese di maggio avvenire.
A dì cinque di luglio trovai sopr’una pianta di solano un grossissimo bruco: tosto che
l’ebbi rinchiuso cominciò a rodere delle foglie di quell’erba, ed il giorno settimo dello
stesso mese gettò la spoglia e rimase crisalide rossa, che d’ora in ora andava
oscurandosi finché quasi diventò nericcia: e da essa il secondo giorno d’agosto nacque
un grandissimo farfallone che, stuzzicato ed irritato, strideva come se fosse un
pipistrello.
Era di color doré e nero nell’ali, nel dorso e nel ventre, col capo tutto nero,
sul quale s’alzavano due pennacchini nericci: gli occhi apparivano capellini e la
proboscide nera cartilaginosa e arruotolata avanti alla bocca con molti anelli, conforme
soglion tener tutte l’altre farfalle: le sei gambe, nel primo fucile o stinco attaccato al
petto, eran tutte pelose di color doré sudicio, e negli altri fucili di paonazzo; sul fine
d’ogni gamba si vedeva un’unghia, anzi per tutti i fucili e per tutti gli articoli di esse
gambe spuntavano le medesime unghie, o uncini o roncigli che sieno.
Campò solamente
sei giorni.
A dì dodici di luglio mi fu portato un ramo di quercia, in due foglie del quale erano
distesi con bell’ordine più di trenta bruchi, coperti di pelo bianco e corto e per tutto ‘l
corpo picchiettati di vari colori, giallo, doré, bigio, bianco e nero: il capo aveva un certo
color castagno, lustro e tramezzato da un Ypsilon di color giallo.
Tutti questi bruchi
stavano immobili e riposatamente dormivano; onde avendogli messi in una grande
scatola, in capo a due giorni gettarono la spoglia, si svegliarono e subito cominciarono a
mangiar foglie di quercia e di farnia; ma più volentieri le prime che le seconde; e
continuarono a cibarsene fino al dì ventiduesimo dello stesso mese; ed allora, essendosi
rincantucciati per ordine in un angolo della scatola, s’addormentarono di nuovo e
dormirono due giorni interi; quindi, essendosi di nuovo spogliati e desti, ed essendo
divenuti più grandi e col pelo molto più lungo, mangiavano con gran furia e voracità, e
durarono fino al primo d’agosto, nel qual giorno, avendo improvvisamente abbandonato
quasi affatto il mangiare, si fecero come sbalorditi, mogi, deboli, più piccoli di corpo, e
si erano tutti pelati e appena si moveano, ancorché fossero punti o tocchi; parevano in
somma intristiti o infermi; o vero somigliavano a que’ vermi da seta che, ammalandosi e
quasi marcendo prima di condursi a fare il bozzolo, son chiamati volgarmente vacche;
ed in questa forma si trattennero fino alla notte del quarto giorno d’agosto, nella quale
sei di questi bruchi, avendo per la terza volta gettata la spoglia, si cangiarono in aurelie
o crisalidi di color nericcio, che parevano tanti bambini fasciati, senz’avere né pure un
sol filo di seta col quale avessero potuto appiccarsi al coperchio o a’ lati della scatola; il
che osservando io la mattina seguente, ebbi occasione di veder la maniera con la quale
questi bruchi si trasformano in crisalidi; imperocché s’apre e si fende l’esterna spoglia
sopra la groppa vicin’ al capo, e la spoglia parimente del capo medesimo si divide e si
squarcia in due parti, e da quello squarcio comincia la crisalide ad uscir fuora, sempre
dimenandosi ed agitandosi; e tanto s’agita e si scontorce, finché abbia tramandata tutta
la spoglia fin all’estremità della coda, ed in questo tempo si vede che il capo
notabilmente ingrossa e la coda s’assottiglia a tal segno che, quando il bruco s’è finito
di convertire in crisalide, la crisalide ha pigliata la figura d’un cono e rimane d’un color
verdissimo, tenera e cedente al tatto; ma il color verde, cominciando dall’estremità della
coda, appoco appoco si cangia evidentemente per tutto ‘l corpo in doré, quindi in rosso
e, col mutar di colore, sempre più indurisce la pelle; la gola è l’ultima parte nella quale
il verde si cangia in doré; ma quando il doré della gola è diventato rosso, di già tutto ‘l
restante della crisalide s’è fatto nero o per lo meno vicin’al nero, e s’è tutto indurito; e
questa funzione si comincia e si finisce in poco più tempo di mezz’ora: perloché ho
avuto campo facilissimo di certificarmene più e più volte.
Quando tutti i bruchi si furon
convertiti in crisalidi, il che avvenne la sera del sesto giorno d’agosto, mantennero
questa figura fino alla vegnente primavera, ed allora verso ‘l fine d’aprile nacquero le
farfalle, e tutte della stessa razza, ma non tutte nello stesso giorno, siccome i lor bruchi
in diversi giorni s’eran tramutati in crisalidi.
Molte di queste farfalle, appena che furon
nate, fecero le lor’ uova, al numero per lo più dalle 35 alle 40, di color mavì smontato,
con una sottil punta nera nel mezzo; ma perché elle non erano state fecondate da’
maschi, perciò non vidi mai nascerne cosa veruna.
Il dì venzei di luglio fu trovato a pascere sopra un susino un bruco di color rancio,
così grosso e sterminato che pesava tre quarti d’oncia: era composto di tredici anelli, nel
mezzo di ciascuno de’ quali campeggiavano certe margheritine azzurre e pelose: nel
primo anello, ch’è il capo, ell’eran sei, nel secondo erano otto, ed otto altresì nel terzo e
nel quarto; ma nel quinto, mutando ordine, non eran più che sette; e dal quinto fino
all’undecimo anello eran sei; nel duodecimo se ne vedeva quattro solamente, ma
nell’ultimo nessuna.
Oltre queste margheritine pelose, ogni anello aveva due macchie
bianche circondate d’una linea nera.
Lo stesso giorno de’ venzei fece il bozzolo, il quale
fu grossissimo di color di muschio, e pareva tessuto più tosto di setole ispidissime che
della solita materia degli altri, ed era attaccato alla scatola così pertinacemente che
senza violenza grandissima non poté strapparsi; ei non aveva però esternamente quella
sbavatura di seta, come ‘l bozzolo bianco tessuto dal bruco verde poc’avanti descritto.
Egli è ben vero che dalla parte più acuta era aperto come quello, e ne nacque un
grandissimo farfallone intorno agli ultimi giorni d’aprile.
Il dì sette d’agosto serrai in un alberello di vetro un bruco trovato in un mazzetto di
ruta; era verde e spruzzolato per tutto di macchiette gialle, rosse e turchine.
Lo stesso
giorno divenne immobile, essendosi nella parte di sotto attaccato al foglio che copriva
l’alberello, e cavò fuora da’ fianchi due fili di seta e dalla coda certa poca di lanugine;
stava disteso nel foglio, toccandolo da tutte le parti, non avendo perduto colore né
mutata figura.
Il giorno seguente svanirono il color rosso ed il turchino, essendo
solamente rimasi il verde e ‘l giallo, ma un poco scoloriti; ed il bruco essendosi indurito,
senz’aver gettata la spoglia, aveva alzato il capo dal foglio ed il capo era diventato come
cornuto, e sulle spalle eran comparse due palette come si scorgono negli uomini magri;
e la coda si era ristretta ed appuntata, reggendosi sovra di essa tutto ‘l restante del corpo.
In capo a quattordici giorni ne nacque una farfalla di color giallo tutta listata e
galantemente rabescata di nero, tanto nel tronco del corpo quanto nell’ali; le due minori
di esse ali aveano nell’estremità due macchie rotonde e rosse, ed alcune altre turchine
circondate da un color paonazzo vellutato, e dall’ultimo lembo s’allungavano due
appendicette, quasi fossero due code dell’ale.
Dalla testa sorgeano non già due
pennacchini, ma bensì due lunghissime e mobili antenne di color nericcio, e più grosse
nella punta che nella base.
Morì dopo quattro giorni di vita.
Nel mese di settembre, trovandomi al Poggio Imperiale, feci raccorre una gran
quantità di bruchi di color verdegiallo con qualche macchia nera e bianca; questi
stavano rodendo certi cesti di cavolo; gli misi nelle scatole dando loro a mangiare dello
stesso cavolo, e dopo quattro giorni salirono quasi tutti ne’ coperchi delle scatole e quivi
s’attaccarono senza muoversi; ed alcuni in questo tempo fecero certe minute uova,
rinvolte in seta gialla: dopo essere stati tre giorni senza muoversi, si spogliarono non di
tutta la pelle, ma di quella parte solamente che lor vestiva il capo, quindi adagio adagio
cominciarono a mutarsi di figura, e s’indurì loro la scorza; e la figura fu perappunto
come quella della crisalide della ruta, stando tenacemente appiccati alle scatole, perché
dall’ultima estremità della coda avean cavato fuora un filo di seta che s’attaccava alla
scatola, e con due altri fili alla medesima scatola aveano raccomandate le spalle, ed un
altro filo usciva loro di sotto la gola; ma questo quarto filo non tutti l’avevano: in tal
modo, mutati di figura, si conservarono tutto ‘l verno, ma verso ‘l mese di marzo molti
si seccarono e perderono quel moto e dimenamento che, quando eran toccati, facevano:
molti però non lo perderono, e rimasero vivi e semoventi; e questi, ch’eran rimasi vivi,
lasciando al principio di maggio attaccato il guscio al coperchio delle scatole, ne
scapparon fuora in forma di farfalle di color verde giallo sbiadato, con due macchie nere
e tonde dell’ali superiori e con due cornetti gialli in testa, come quegli della farfalla nata
dal bruco trovato nella ruta.
Ma aprendo io per curiosità alcune di quelle crisalidi che
nel mese di marzo s’inaridirono e cessarono di muoversi, osservai che tutto il lor guscio
era vòto, eccetto che nella parte corrispondente al petto, dove trovai un uovo di color fra
‘l paonazzo e ‘l rosso, pieno d’una materia simile al latte o alla chiara d’uovo; agli
undici di maggio da tutte quest’uova nacquero altrettante mosche della razza di quelle
che comunemente ronzano per le nostre case, e nacquero moge e sbalordite e malfatte,
come quelle che nel principio di questa Lettera vi scrissi aver avut’origine da’ bachi nati
nelle carni; in questo stesso tempo da quelle piccolissime uova fatte da’ bruchi nel mese
di settembre usciron fuora altrettanti piccolissimi moscherini nericci, con due nere e
lunghissime antenne in testa.
Molt’altre esperienze ed osservazioni io aveva fatte, ma per la mia poca diligenza
m’è succeduto di smarrir alcuni fogli dove l’avea notate; onde, non volendo fidarmi
della memoria, farò passaggio a divisarvi che può essere che vi sia qualch’albero che
generi de’ bruchi, e che que’ bruchi si trasformino poi in crisalidi, e che dalle crisalidi
rinascano le farfalle; ma io non l’affermo e non lo nego; ed acciocché ciascuno possa
credere quel che più gli aggrada, vi riferirò che questo stesso anno, al principio di
maggio, osservai che sulle foglie della vetrice, dalla parte più ruvida e rivolta verso la
terra, nascono alcune coccole o pallottole verdi e grosse più d’un nocciolo di ciriegia, le
quali, verso la fin di maggio, diventan rosse brizzolate di bianco e stanno attaccate alla
foglia con una piccolissima appiccatura: queste pallottole nella parte interna son
giallicce ed hanno una gran cavità, in cui si trova sempre un sol bruco sottilissimo e
bianco, col capo di color castagno e quasi dorato, il quale attende a nutricarsi in quella
cavità ed a scaricarsi degli escrementi del ventre.
Dal principio di giugno fin al principio
d’ottobre continuai ad investigare se veramente que’ bruchi uscivano di quelle pallottole
e se si trasformavano in farfalle, e non ebbi mai fortuna di trovarn’una sola che fosse
bucata; e avendone serrate molte in certi vasi, né meno da queste potei accertarmene;
imperocché sempre dopo dieci o dodici giorni io trovai i bruchi morti nelle cavità delle
pallottole.
È v’è un’altra razza di vetrice che non germoglia nelle foglie queste coccole rosse,
ma in cambio loro fa su pe’ rami certi bitorzoli o calli, entro i quali si generano bruchi
bianchi simili a’ soprammentovati, e di questi ancora non m’è venuto fatto di rinvenire
‘l fine e la trasformazione.
Il dì 29 di maggio mi furon portati de’ rami di salcio, nelle foglie de’ quali eran nate
certe tuberosità o gonfietti di color verde, che cominciava a rosseggiare: eran questi
lunghi e lisci come fagiuoli; non erano già situati come le pallottoline rosse della
vetrice, le quali nascono nella banda della foglia che riguarda la terra, e facilmente da
essa foglia si spiccano, ma queste del salcio son situate in modo che hanno la loro
elevazione dall’una e dall’altra banda della foglia, la quale fa loro intorno un lembo, e
tutte son situate accanto al nervo più grosso del mezzo, e se ne trova una, due e talvolta
tre per foglia; volli aprirne alcune, e m’avvidi ch’aveano una cavità nella quale
dimorava un bruco bianco, come quello che si trova nelle due maniere delle vetrici; ed
osservai di vantaggio che molte di quelle tuberosità eran forate, e dentro alle loro cavità
non era rimaso altro che le cacature del bruco, il quale di già se n’era fuggito; onde presi
speranza di vederne la trasformazione, ma in vano; conciossiecosaché quantunque io
custodissi diligentemente molte foglie in alcune scatole, i bruchi non vollero mai
uscirne e sempre dopo qualche giorno ve gli trovai morti; e se voi foste curioso di veder
la figura di queste tre piante, de’ bruchi delle quali e delle loro nascenze non è stata fatta
mai menzione, ch’io sappia, da’ semplicisti, io ve le mando qui distintamente delineate,
avvertendovi che la figura più piccola del bruco è la sua naturale, e la maggiore è fatta
secondo che fu mostrata da un piccolo ed ordinario microscopio.
Non ho cognizione d’altri bruchi che sieno generati dagli alberi: il virtuosissimo
padre Atanasio Chircher replicatamente scrive per cosa vera, nel duodecimo libro del
Mondo sotterraneo, che l’albero del moro genera i bachi da seta, impregnato dalla
semenza di qualsivoglia animaletto penetrata nella sustanza e tra’ sughi interni di
quell’albero; a questo fine ho usata e fatt’usare particolarissima diligenza non solo ne’
mori che sono intorno a Firenze, ma ancora in quegli di molt’altre città di Toscana, e
non ho mai potuto vedere un baco da seta natovi sopra, né contrassegno veruno dal
quale si potesse sperare che vi fosse per nascere.
Aristotile vuole che dal cavolo si
generino giornalmente i bruchi, ma né anche questa così fatta generazione ho veduta; ho
ben osservato soventemente, nelle foglie e ne’ gambi del cavolo e nell’erbe
circonvicine, moltissime uova partoritevi dalle farfalle, dalle quali uova nascon poscia i
bruchi, e da’ bruchi, convertiti in crisalidi, hanno il nascimento le farfalle.
Chi pon mente sopra l’erbe, e sopra gli alberi e negli screpoli de’ loro tronchi vi
troverà spesso di simili uova, ed io mi ricordo che ‘ntorno al principio di maggio trovai
nelle foglie del sambuco molti e molti uovicini piccolissimi, ma gialli.
Ebbi piacere
d’osservar quel che ne fosse per nascere, ed in pochi giorni vidi uscirne altrettanti
minutissimi verminetti, a’ quali subito somministrai delle foglie del sambuco, che da
essi furono golosamente divorate.
Andarono crescendo e divennero di color giallo con
molte macchie rossicce; la coda loro terminava com’una mezza luna, il capo era
piccolissimo ed aguzzo, e allora quando camminavano cavavan fuora di sotto ‘l ventre
certe pallottoline, come se fossero gambe.
La maggior parte di questi vermi il dì venzei
di maggio diventò immobile, abbandonando affatto il mangiare, senza mutarsi di colore
o di figura; ma il dì primo di giugno sei de’ suddetti bachi si raggrinzarono in sé
medesimi e si rappallottarono e divennero come tant’uova appuntate e gobbe di color di
ruggine.
D’uno di quest’uovi il dì dodici di giugno scappò fuori una mosca poco più
grande delle mosche ordinarie, con due ali cartilaginose e bianche e più lunghe del
corpo; con sei gambe gialle, con due cortissimi cornetti che le spuntavano dal capo, il
quale per di sopra era di color rugginoso, col dorso dello stesso colore, ma più chiaro, a
cui succedeva una gran macchia di color quasi giallo.
Tutto ‘l restante del ventre era
tinto d’un giallo vivo, tramezzato da strisce nere trasversali. Subito che questa mosca fu
nata cominciò a gettar certo sterco bianco; e campò due soli giorni.
L’altre cinqu’uova nacquero sette giorni dopo ‘l primo e n’usciron fuora altrettante
mosche, molto differenti da quella che dal prim’uovo era uscita, ancorché fossero dello
stesso colore; imperocché queste cinque eran lunghe e sottili, con l’ali molto più corte
del lor corpo, le quali non erano due, ma quattro; aveano sei gambe, due delle quali eran
moltissimo più lunghe dell’altre quattro.
Dalla testa spuntavano due lunghissime
antennette aguzze, composte di molti e molti nodi.
Queste mosche, siccome la prima,
subito nate fecero quello sterco bianco e camparono quattro giorni: osservai però che,
quando questi vermi trovati sul sambuco si trasformano e si raggrinzano in uovo, l’uovo
diventa più piccolo del verme, e quando dall’uovo esce la mosca, ell’è molto più grande
dell’uovo, a segno che pare impossibile ch’ell’abbia potuto capirvi; onde si può credere
che vi stesse molto rannicchiata e ristretta: e perché poca abilità mi presta l’ingegno mio
nel descrivere esattamente questi animaletti, ve gli mando qui delineati, e nella lor
propria e natural grandezza, ed aggranditi ancora da un ordinario microscopio di quegli
d’un sol vetro.
Ma se non ho potuto scorgere, come poco dianzi scrissi, che dall’albero del moro
sieno generati i bachi da seta, tanto meno spero di vedergli nascere dalle carni putrefatte
d’un giovenco pasciuto per venti giorni con fogli di moro.
Girolamo Vida, poeta
nobilissimo, cantò gentilmente questa favola ad imitazione di Virgilio:
Quod si spes generis defecerit omnis ubique
Seminaque aruerint Iovis implacabilis ira,
Sicut apes teneri reparantur caede iuvenci.
Hic superaccedit tantum labor: ante iuvencus
Bisdenosque dies bisdenasque ordine noctes
Graminis arcendus pastu, prohibendus ab undis.
Interea in stabulis tantum illi pinguia mori
Sufficiunt folia et lactenti cortice ramus.
Viscera ubi caesi fuerint liquefacta, videbis
Bombycem fractis condensum erumpere costis
Atque globos toto tinearum effervere tergo,
Et veluti putres passim concrescere fungos.
Il che fu sentito per vero da due grandi e giustamente celebrati filosofi del nostro
secolo, cioè da Pietro Gassendo e dal padre Onorato Fabri, e, prima di loro, da Ulisse
Aldrovando.
Io non so che dirmi; l’esperienza non l’ho fatta, né mi sento voglia di farla:
so bene che dalle carni d’un capretto, pasciuto venti giorni di sole foglie di moro, non
nacquero altro che vermi, i quali si trasformarono in mosconi; e dalle carni dello stesso
capretto, tenute in vaso serrato, non nacque mai cosa veruna.
Io so parimente che sulle
more riscaldate e putrefatte nascono vermi, che diventano a suo tempo moscioni e
mosche ordinarie; e che sulle foglie del moro infracidate si veggon nascere altresì
mosche ordinarie e quattro o cinque altre sorte di moscherini minuti, i quali nascono
ancora su tutte quante l’altre erbe, purché vi sieno state portate le semenze e l’uova delle
mosche e de’ moscherini; e se queste semenze non vi saranno realmente portate, niente,
com’altre volte ho detto, si vedrà mai nascere né dall’erbe, né dalle carni putrefatte, né
da qualsisia altra cosa che in quel tempo attualmente non viva.
Per lo contrario, se
viverà e se veramente sarà animata, potrà produrre dentro di sé qualche bacherozzolo, in
quella maniera che nelle ciriege, nelle pere e nelle susine, nelle gallozzole e ne’ ricci
delle querce, delle farnie, de’ cerri, de’ lecci e de’ faggi hanno il lor nascimento que’
bachi i quali si trasformano in farfalle, in mosche ed in altri simili animaluzzi volanti.
In questa stessa maniera potrebbe per avventura esser vero, e mi sento disposto a
crederlo, che negl’intestini ed in altre parti degli uomini nascano i lombrichi ed i
pedicelli; nel fiele e ne’ vasi del fegato de’ montoni o castrati soventemente abbian vita
que’ vermi che bisciuole da’ macellai si chiamano; e nelle teste de’ cervi e de’ montoni
quegli altri fastidiosissimi bacherozzoli che quasi sempre vi si trovano.
E perché ad
alcuni potrebbe forse giugner nuovo che i fegati de’ montoni sien talvolta verminosi, e
che gli stessi montoni, ed i cervi altresì, abbian de’ vermi nella testa, perciò imprendo
volentieri a dirvi brevemente quello che io n’abbia osservato, e ve ne trasmetto qui
appresso la figura e degli uni e degli altri, non già de’ minori, ma de’ più grandi che si
trovino.
Le bisciuole del fegato de’ montoni o castrati hanno la figura quasi di un seme di
zucca, o per dir meglio d’una piccola e sottil foglia di mortella con un poco di gambo:
son di color bianco lattato e traspariscono in essi molte sottilissime ramificazioni di vasi
o canaletti verdognoli.
La lor bocca, o altro forame che si sia, è ritonda e posta nel piano
del ventre, poco distante da quella parte che s’assomiglia al gambo della foglia. Spesse
volte si trovan le bisciuole nella borsetta del fiele, e non solo abitano e nuotano in esso
fiele, ma ancora in tutti quanti i vasi del fegato, eccettuatone l’arterie, nelle quali non ne
ho mai vedute.
Io stimo però che elle nascano in quella borsetta, e che col rodere si
facciano la strada e passino da’ canali della bile a quegli del sangue; quindi se talora
multiplicano di soverchio, rodono eziandio la sustanza interna del fegato e vi fanno
delle cavernette, in cui sgorgando il sangue mescolato colla bile vi s’impaluda e fassi
d’un color di ruggine misto col verde, molto brutto e schifo alla vista e molto amaro a
giudizio del sapore: perloché a chiunque ponesse mente a questa faccenda si renderebbe
molto malagevole il cibarsi, come giornalmente si costuma, di quegli abominevoli
fegati, i quali però, avanti che da’ macellai sieno esposti alla vendita, son molto ben
ripuliti e netti da quell’immondizia.
De’ vermi della testa de’ cervi ne fece aperta menzione il grande e sapientissimo
Aristotile nel cap. 15 del 2 libro della Storia degli animali, e son quest’esse le sue
parole: Tutti quanti i cervi hanno de’ vermi vivi nel capo, nascendo loro sotto la lingua
in una certa cavità vicina a quella vertebra colla quale il capo s’attacca al collo. Son di
grandezza uguali a que’ più grandi che da ogni sorte di carne putrefatta si producono,
ed arrivano per lo più al numero di venti in circa.
Io ho avuto curiosità molte e molte
volte di cercarne, tanto ne’ cervi più vecchi quanto in que’ più giovani che fusoni da’
cacciatori son detti, e quasi in tutti n’ho trovati; dico quasi in tutti, perché in vero più
d’una fiata mi sono imbattuto in qualche testa che non ne ha mostrato né pure un solo,
conforme mi avvenne il dì venzette di febbraio, che di dieci teste di cervo che feci
aprire, nove erano verminose ed una sola osservai libera da quel fastidio; e pochi giorni
dopo, di sei capi di fusoni, quattro solamente contenevano i vermi. Aristotile gli
assomiglia nella grandezza a quegli che nelle carni imputridite si veggono.
E perché egli è Aristotile bisogna
credergli, ancorché dica la menzogna.
Ma a me parrebbono questi de’ cervi senza niun paragone moltissimo più grandi e
nella figura mi rassembrerebbono differentissimi da quegli, conciossiecosaché questi
de’ cervi son fatti com’un mezzo cilindro, piatti nella parte inferiore che tocca la terra e
rilevati per di sopra e bianchi, ma distinti da molte strisce di mezzi anelletti pelosi, i di
cui peli sono di color di ruggine.
Hanno due bianchi piccolissimi cornetti in testa, che
gli scortano e gli allungano e gli rimpiattano a lor voglia, come fanno le chiocciole.
Sotto questi corni stanno due uncinetti o rampini neri, duri e con gran solletico e noia
pungentissimi; di tali rampini pare che se ne servano a camminare, imperocché si
attaccano prima con essi e poscia si avanzano col corpo al cammino e serpeggiano senza
gambe.
Quell’estremità, per la quale sogliano scaricarsi degli escrementi del ventre, è
scanalata per traverso e la scanalatura è marcata di due macchie nere a foggia di mezze
lune.
Non è determinato il lor numero, e quantunque Aristotile lo ristringa al venti in
circa, nulladimeno io ho contato in una sola testa fino a trentanove di così fatte
bestiuole, e non mai meno di venti.
Similissimi a questi vermi nella figura appariscon quegli che dentro alle teste de’
castroni si trovano: e’ son però minori e men fieri, men pelosi e solamente listati di
strisce trasversali nerissime, che molto campeggiano’ su ‘l bianco di tutto il corpo; non
son però listati tutti di nero, ma solamente i maggiori, e finiti di crescere; essendo che i
minori, e nati forse di poco, sono affatto bianchi.
Quelle due macchie nere in foggia di
mezza luna che si veggono nella scanalatura di una dell’estremità di quegli de’ cervi, in
questi bachi de’ castroni son nere sì, ma di figura perfettamente circolare.
Abitano in
alcune cavità degli ossi della fronte, a i quali si appoggiano le corna: n’ho trovati ne’
canali del naso e dentro a quella cavità che è nelle radici delle corna stesse; onde fu
veridico il Caporali quando, nella Vita di Mecenate, volendo accennare la natura
d’Amore, piacevolmente scrisse:
Voglion molti che Amor dio degli amori
Siasi mezzo fanciullo e mezzo augello,
E si pasca di cuor come gli astori.
Altri che un verme sia, simile a quello
Che nasce nelle corna de’ castroni,
E gli raggira e cava di cervello.
E dicono i pastori che quando i castroni in certi tempi danno nelle smanie e pare che
abbiano l’assillo, ne son cagione questi baccherozzoli che imperversano più aspramente
del solito nella lor testa.
Non son così numerosi come que’ de’ cervi, e rare volte
arrivano ad esser dodici o quindici al più.
E qui piacciavi di ricordarvi ch’io mi ristringo
sempre a quel che ho veduto con gli occhi miei propri, e che fuor di questo non nego
mai e non affermo che che sia.
Da quella stessa vita, che sa produrre dentro alle teste de’ cervi e de’ montoni quegli
animaletti de’ quali v’ho favellato, può essere che sien fatti nascere, ed io non saprei
disdirlo, quegli altri abominevoli e odiosissimi da’ Greci chiamati assilli, che l’esterne
parti degli uomini, de’ quadrupedi e de’ volatili infestano: ma se ho da riferire
liberamente il mio pensiero, mi sento più inclinato a credere, col dottissimo Giovanni
Sperlingio, che abbiano il lor natale dall’uova fatte dalle lor madri, fecondate mediante
il coito; e se Aristotile, seguitato da’ moderni, si dette ad intendere che da quell’uova, o
lendinini che si chiamino, non nasca mai animal di sorta veruna, ei s’ingannò al certo
perché ne multiplicano in infinito; e mi parrebbe indarno l’affaticarmi nel provarlo,
trovandosi ben soventemente e i peli de’ quadrupedi e le penne degli uccelli gremite di
quei lendini, i quali, quantunque alle volte sien così minuti che ci voglia buon occhio a
scorgerli, nulladimeno, coll’aiuto del microscopio, si può benissimo considerare il lor
figuramento e distinguer quegli che per ancora son pieni, e quegli da’ quali è uscito
l’animale.
E chi troppo garoso temesse di qualche immaginaria illusione de’ microscopi,
potrebbe certificarsi di questo vero in quell’uova che si trovano attaccate alle penne
dell’aquila reale, del gheppio e del vaccaio, che pur anch’esso è un uccel di rapina, le
quali son grosse molto più de’ granelli di panìco; onde l’occhio, da per sé medesimo e
senz’aiuto, può soddisfarsi e vedervi dentro i pollìni bell’e fatti, come a me più d’una
volta è accaduto d’osservare, e quindi apprendere quanto debole sia il fondamento
d’Aristotile e con quanto poco sforzo si lasci gittare a terra.
Si potrebbe affermare, e per avventura senza far torto al vero, che tutte le generazioni
di viventi sottoposte sieno a questa noiosa bruttura, e Plinio, che vuole esenzionarne gli
asini e le pecore,
Se ‘l vero appunto non scrisse io lo scuso,
Perché si stette all’altrui relazione,
cioè a quella d’Aristotile recitata ne’ libri della Storia degli animali, e confermata
molti secoli dopo da Tommaso Moufeto nel suo lodevolissimo Teatro degl’insetti, dove,
al cap. 23 del 2 libro, non volendo tacciare d’inavvertenza quel profondissimo filosofo,
volle più tosto, lambiccandosi il cervello, scrivere che l’asino non impidocchisce per
cagione della natural pigrizia al moto, mediante la quale di rado suda; poscia parendogli
forse questa ragione frivola molto e per avventura di niun peso, ricorre all’universale, ed
in tutte le cose calzante e non mai manchevole rifugio dell’antipatia; ma ciò non ostante
impidocchisce l’asino, e de’ suoi animaletti n’ho fatto rappresentar la figura ne’ fogli
susseguenti, insieme con quegli del cammello.
E che le pecore vi sien sottoposte
anch’esse lo sa ogni più goffo pastore e ne favellò chiaramente il greco Didimo nel lib.
18 degli Affari della villa, e dopo di lui Jacub Alfiruzabadi, in quel gran vocabolario
arabico che da esso con voce egizia fu intitolato Alcamus, cioè a dire Oceano.
Il soprammentovato Moufeto riferisce che infin gli scarafaggi son tormentati da così
fatti animaluzzi ed io, quantunque non abbia avuta la congiuntura d’esperimentarlo, me
lo persuado per vero con grandissima facilità, imperocché posso con molt’altri far
testimonianza di veduta che le formiche stesse non ne son esenti e che ogni spezie di
formiche ne ha la sua propria e singular generazione; ma e’ bisogna bene aguzzar gli
occhi e armargli bene d’un microscopio squisitissimo per potergli squisitamente
ravvisare, tanto son minuti e quasi quasi invisibili; onde penso che ne manchi poco a
potergli noverare tra gli atomi.
Quegli delle formiche alate son della stessa figura d’una
zecca della gallina, che vedrete delineata nella Tav. 2, e quegli delle formiche senz’ale
si rassomigliano in gran parte a quella della tortora, che pure vedrete nella suddetta
seconda Tavola.
Gli autori della storia naturale riferiscono, e tutti i pescatori lo raffermano, che i pesci
ancora son molestati da varie maniere d’insetti; e son nomi a loro notissimi la pulce, il
pidocchio e la cimice di mare.
Aristotile lo scrisse de’ delfini e de’ tonni: altri l’hanno
affermato del salmone e del pesce spada.
Plinio ne parlò in generale dicendo: Nulla cosa
è che non nasca in mare. Vi sono infin quegli animaluzzi estivi dell’osterie, che
fastidiosi velocemente saltellano, e quegli che tra’ capelli s’ascondono. Tirandosi
l’esca fuor dell’acqua, vi si trovano spesso aggomitolati intorno; e questi si dice che la
notte rompano il sonno a’ pesci in mare; ed alcuni nascono in alcuni pesci, tra’ quali si
novera il calcide.
Acciocché possiate più facilmente aderire all’autorevole sentimento di
questi approvati scrittori, non voglio tralasciar di narrarvi che nel mese di marzo,
intorno allo scoglio della Melloria, facendo cercar delle stelle marine e dei ricci, per
rintracciarne le diverse maniere e l’interna fabbrica delle loro viscere, vidi alcuni
animaluzzi attaccati fra le spine di molti di que’ ricci, i quali animaluzzi aveano lo
stesso colorito de’ gamberi, e di figuramento e di grandezza eran simili ai porcellini o
aselli terrestri, ancorché non avessero corna in testa, ma solamente due piccolissimi
occhi neri e sessanta sottilissime gambe situate intorno al lembo della loro scorza: e
tengo che di questi così fatti intendesse Aristotile nel cap. 31 del 5 libro della sua
utilissima Storia degli animali.
Pochi giorni dopo, tra’ congiugnimenti dell’armadura
d’una locusta di mare, trovai appiattato un altro insetto, che scorpion marino dicesi dal
volgo de’ pescatori.
Se ciò fosse caso fortuito o avvenimento consueto, non ardirei farne parola; inclinerei
nulladimeno a soscrivermi alla sentenza d’Aristotile affermante che gl’insetti aquatici
non nascono dall’esterne parti de’ pesci, ma son generati nel limo, che a mio credere è il
nido in cui si depositano e si covano i semi degl’insetti.
Dalla real generosità del
Serenissimo Granduca mio Signore mi fu conceduta, quest’inverno passato, una foca o
vecchio marino che se la chiamino.
Campò fuor dell’acqua senza cibo quattro settimane
intere, e molto più avrebbe campato se, per servizio del teatro anatomico di Pisa, non si
fosse fatta svenare. In tutto quel corso di tempo che appresso di me la ritenni procurai
molte volte che fosse posto mente se tra quel folto e morvido pelo, da cui è tutta coperta
la foca, s’annidassero animaletti di veruna sorta; ma non se ne trovò mai né meno un
solo.
Per lo contrario i merghi, che volgarmente son chiamati marangoni, i tuffoli, che
sono i colimbi de’ Greci, e tutti gli altri uccelli che si tuffano e predano sott’acqua e
usano le paludi e gli stagni, hanno gran quantità di pollìni che d’ogni stagione dimorano
tra le loro piume.
Già che ho fatto nuova menzion dei pollìni, e’ non sarà fuor di proposito divisar con
più particolarità quel che intorno a ciò per molti esperimenti abbia compreso. In tutti
quanti gli uccelli di qual si sia generazione si trovano i pollìni ed ogni spezie d’uccello
ne ha la sua propria o, per dir meglio, le sue proprie e determinate razze totalmente
differenti tra di loro.
Di tre diverse fogge ne trovai nell’astore e nella gallina di Guinea,
volgarmente detta gallina di Faraone; di quattro nella marigiana; di due nel cigno,
nell’oca salvatica reale, nel gheppio e nel piviere.
Egli è però vero che vi son certi
uccelli che n’hanno alcuni similissimi, anzi gli stessi, imperocché l’aquila reale ed il
vaccaio ne hanno di que’ grandi che si trovano nel gheppio, disegnati nella Tav. 13, ed
oltre a questi, nel vaccaio se ne trovano cert’altri simili di figura, ma non di colore, a
quegli del corvo, che son rappresentati nella Tav. 16, e nell’aquila reale alcuni altri
similissimi agli ovati dell’astore.
Certi pollìni dell’ottarda e della gallina prataiuola
rassomigliano in gran parte a’ lunghi dell’astore che son nella Tav. 1.
Nel picchio e nel
filunguello n’ho veduti de’ simili a quello dello storno figurato nella Tav. 2, e nel
germano reale quasi degli stessi che si trovano nell’oca reale.
Tra le penne della gru
s’annidano pollìni della figura che potrete vedere nella Tav. 3, bianchi tutti e rabescati
quasi di caratteri o cifre nere.
Gli stessi a capello si trovano in certi uccelli nutriti nel
giardino di Boboli portati ultimamente d’Affrica, dove da’ Mori son chiamati in lor
linguaggio Bukottaia; quali reputo che sieno un’altra spezie di gru, conciossiecosaché di
color di penne e di figura sono somigliantissimi alla gru ordinaria, ancorché sieno un
poco minori e più scarsi di corpo, ed abbiano due ciuffetti bianchi e lunghi in testa,
mediante i quali di buona voglia affermerei che fossero la gru balearica.
Ho fatt’osservare tutte le maniere di uccelli stranieri che nel suddetto giardino si
nutricano; ma negli struzzoli non si son mai trovati pollìni in veruna stagione.
Una
cicogna parimente non ne avea ed in essa può essere stato caso fortuito, non essendovi
se non quella sola; ma gli struzzoli furono dodici, tra’ quali certuni eran venuti di pochi
giorni di Barberia.
Del resto la grandezza de’ pollìni non corrisponde alla grandezza o
piccolezza degli uccelli, essendo che negli uccelli di gran corpo si trovano razze di
pollìni grandi e razze di piccoli, e negli uccelli minori se ne ravvisano de’ grandi: quindi
mi sovviene di averne veduti certi nelle merle, che di grandezza non cedevano a quegli
del cigno.
Se i pollìni si guardano per di sopra, non si vede loro la bocca, ma se si osservano
vòlti allo ‘nsù, ella si scorge benissimo, situata in quel lato del muso che volta verso la
terra; ed è fatta a foggia d’un paio di tanagliette non molto dissimili a quelle della bocca
de’ tarli.
Prendetevi la pena di vederne la figura nella Tav. 8, dove è intagliato il pollìno
del cigno.
Sono in somma le razze de’ pollìni di sembianze così divisate, strane,
contraffatte e differenti che, per non formarne un lungo e sazievol catalogo nel
descriverle, ho amato meglio farvene vedere alcune disegnate a mia richiesta e miniate
dal Sig. Filizio Pizzichi, le quali ho fatto poscia intagliare nel miglior modo e ordine che
la brevità del tempo ha potuto concedermi.
Quanto al colore, ritengon molto ed han
grandissima simiglianza con quello delle penne de’ loro uccelli: vero si è ch’io porto
ferma opinione, dettatami dall’esperienza, che quando i pollìni escon fuora de’ lendini,
e’ nascano tutti bianchi, ma che poscia, col crescere, appoco appoco ed insensibilmente
si coloriscano; mantenendosi però diafani in modo che, mirati col microscopio, e da
quello ingranditi, si scorga molto bene il moto delle viscere e l’ondeggiamento de’
liquori in esse contenuti.
E perché possiate conghietturare le proporzioni delle
grandezze di queste bestiuolucce, quando l’ho fatte disegnare, mi son servito sempre
d’uno stesso microscopio di tre vetri, lavorato in Roma da Eustachio Divini con
lodevole e delicata squisitezza.
Coll’aiuto di questo solo microscopio son rappresentate tre differenti razze di
formiche non alate che si trovano in Toscana: il punteruolo del grano; il bacherozzolo
che rode i canditi e le droghe; quello che va pellegrinando tra’ capelli e nel dosso degli
uomini; quell’altro che si appiatta fra’ peli dell’anguinaia; il pidocchio dell’asino, del
cammello e d’un certo montone affricano venuto di Tripoli di Barberia, il quale di
figura e di grandezza è simile a’ castroni del Fisan e, come quegli, ha l’orecchie larghe e
pendenti, e la coda sottile e lunga fino in terra; ma essendo armato di due gran corna e
avendo il pelo più lungo delle capre, più grosso e più ispido, si riconosce essere d’una
razza differente da quella del Fisan.
Nello stesso modo è disegnata la zecca del
capriuolo e della tigre.
La zecca del leone ha per appunto la stessa figura di quella della
tigre, solamente differente nel colore e nella grandezza, essendo molto maggiore quella
del leone; la quale è tutta di color lionato chiaro, eccetto in una parte del dorso, in cui si
vede un gobbo di color tanè oscuro, e di questo stesso tanè è tutta colorita e tinta la
zecca della tigre.
Ho fatto ricercare se le tigri sieno infestate ancora da’ pidocchi, ma
non se ne son mai ravvisati; ed il simile dico di tutti quanti i leoni, pardi, orsi,
icneumoni, gatti di zibetto e gatti selvaggi affricani, che con antico e real costume son
mantenuti ne’ serragli del Sereniss. Granduca: non nego contuttociò che non ne possano
avere, ma solamente affermo che questi animali che di presente vi si trovano non ne
hanno, o per trovargli non si è usata quella puntual diligenza che conveniva; imperocché
lo scherzar intorno alle tigri ed a’ leoni è un certo mestiere che non si trova così
facilmente chi voglia imprenderlo.
Quando presi la penna, ebbi in mente di scrivervi una Lettera convenevole, ma
trapassandone di gran lunga, non so come, i confini, m’è venuto scritto presso più che
un libro, e con istile talvolta tutto secco e digiuno d’ogni leggiadria; perloché ne potrò
esser con molta ragione da molti biasimato, ed io non saprei contraddirlo: non vorrei già
che qualcuno si biasimasse di me per aver io detto forse troppo francamente il mio
parere intorno ad alcuni sentimenti de’ più rinomati maestri del nostro e de’ passati
secoli; imperocché ad ognuno è libero tener quell’opinione che gli è più in piacere; e
non credo che ciò disconvenga o che proggiudichi a quella stima e a quella riverenza
ch’io porto loro: anzi chi non ha baldanza di tirannia non dovrebbe intorno alle naturali
speculazioni sdegnarsi di questa libertà di procedere nella repubblica filosofica, che ha
la mira al solo rintracciamento della verità, la quale, come diceva Seneca, omnibus
patet, nondum est occupata: qui ante nos fuerunt, non domini, sed duces sunt; multum
ex illa etiam futuris relictum est.
Io m’ingegno di raccoglier qualche particella di questi
gran rimasugli, e solamente meco medesimo mi rammarico di non poter corrispondere
colle mie deboli forze a quelle grandissime comodità che mi presta la sovrana
beneficenza del Seren. Granduca unico mio Signore: ma facilmente avverrà, o almeno
lo spero, che, dirozzatomi un giorno e rinvigoritomi, io vaglia a presentare a sì gran
protettore cosa non affatto indegna di sua Reale grandezza. Intanto accertatevi che
questa Lettera, o libro ch’e’ si sia, se n’è venuto a Voi non per vaghezza di laude, ma
per desiderio d’essere emendato e corretto, siccome caldamente ve ne prego,
consapevole a bastanza
Che ‘l nome mio ancor molto non suona.