INF. B. D.

Della città non si hanno notizie anteriori al secolo XIII.
Trattasi di un agglomerato urbano di origine tardomedioevale, nelle cui tradizioni vivono ancora elementi dell'antico status giuridico.
Sarebbe interessante poter delineare la preistoria dell'agro leonessano, ma la scarsità dei reperti archeologici non consente ancora una esauriente conclusione.
Frequenti sono gli insediamenti italici, e fors'anche etruschi, attestati nella immediata periferia: a Monteleone di Spoleto, a nord, da dove proviene l'interessantissima biga bronzea di arte ionico-arcaica importata del sec. VI-V a.C., scoperta con altra suppellettile nel 1902, ora al Metropolitan Museum di New York; a Villa S. Silvestro, a nord-est, col suo capitolium romano del sec. III a.C., sacro presumibilmente alla triade agreste Cerere, Libero e Libera; a la via Salaria e a la valle Falacrina, ad est, con i loro insediamenti sabini e romani ed il folto bosco, ricordato da Plinio, sacro alla dea Vacuna.
Le vie di comunicazine intersecavano di necessità l'altipiano, seguendo in prevalenza le direttrici del fiume Corno e dei torrenti in esso confluenti; la presenza di più castellieri rilevati fotograficamente conferma questa rete stradale almeno per l'alto medioevo; v'è anzi chi congettura, ma a torto, il passaggio di un ramo della via "Curia" che univa Reate con Nursia.
Reperti dell'età neolitica, e cioè punte di frecce e raschiatoi di pietra rossa locale, rinvenuti lungo il fosso del Vallaro all'altezza di Villa Lucci, testimoniano la presenza dell'uomo nell'altipiano già da qualche millennio; altri reperti di Ocre (un dischetto bronzeo ed un peso di terracotta) suggeriscono l'ipotesi di un insediamento protoitalico; mentre tombe sparse qua e là lungo le vie di comunicazione e la stessa necropoli di Ocre, comprendente una dozzina di tombe, non sono databili con sicurezza.
In ogni caso, che il territorio leonessano sia stato luogo di transito per norditalici e protovillanoviani dei secoli IX-VIII a.C. in marcia verso il mezzogiorno, è ipotesi largamente accreditata.
Le prime testimonianze scritte sui nuclei abitati dell'altipiano risalgono al sec. VIII d.C., sullo scorcio cioè della dominazione longobarda e del suo tipico regime curtense: alle "corti", infatti, ci riportano i superstiti documenti dell'alto medioevo, tramite le numerose donazioni di terreni e pertinenze fatte all'abbazia di Farfa.
La prima di queste notizie risale agli anni 770-774, allorchè si cedette al monastero di Farfa la "corte" di Narnate, cessione fatta da Adelchi e confermata dall'ultimo re longobaro Desiderio.
E' di questo periodo il formarsi dei vari castelli, che vennero costruiti sulle alture, in posizione strategica.
Quali e quanti fossero questi castelli, intesi come luoghi fortificati e non soltanto come agglomerati di case, è difficile a dirsi, data l'estrema penuria ed incertezza delle fonti.
Si possono fare alcuni nomi, che porrò in ordine alfabetico, senza alcuna pretesa di risolvere la complessa questione: - Belfiore, tradizionalmente ubicato tra Colleverde e Cumulata; non si hanno notizie particolari.
- Corno, nella gola del fiume omonimo, presso i "prati di S. Maria" ove rimangono ancora dei ruderi. Ospitava una pieve, indicata in una bolla di Lucio III del 1182 come "plebs s. Mariae in Gripta Roccae montis Corni".
- Croce, o Torre Croce, dal quale trasse nome un sesto. Se ne parla in una lettera di Urbano III al vescovo Pietro di Amelia del 1185-86, insieme ai castelli di Forcamelone, Pianezza e Torre. Una tradizione settecentesca lo pone sul pendio del monte Tolentino, all'altezza di Volciano, e va forse identificato con gli imponenti ruderi di fondazione a monte della strada tra Vallunga e Volciano, che aspettano ancora un nome; ad essi la stessa tradizione settecentesca dette la denominazione di un generico "palazzo degli antichi baroni": ma forse è la stessa cosa.
- Forcamelone, alle sorgenti del Fuscello, di rimpetto al valico. Se ne fa menzione, come si è detto, nella lettera di Urban III del 1185-86. Dalla dispersione delle genti del castello ebbero origine, nei secoli XV-XVI, le cosiddette "ville del piano".
- Fuscello, lungo la valle del fiume omonimo: ne rimane la torre.
- Narnate o Torre Ornata, o solamente Torre, sul colle tra Capodacqua e Vallunga, in ottima posizione strategica. Ad esso faceva capo la pieva di S. Donato della Torre. Fu sede di un castaldato come si dirà.
- Pianezza, sul colle omonimo, pur esso in ottima posizione strategica.
- Poggio o Poggiolupo, sovrastante l'abitato di Piedelpoggio; da esso trasse nome uno dei sesti in cui fu divisa Leonessa.
- Ripa di Corno, che costituì il nucleo del nuovo abitato di Leonessa.
- Terzone, all'altezza dell'attuale Terzone S. Paolo.
- Vallonina, nella località omonima, ove fu poi costruito un convento (agostiniano).
Precise notizie si conservano dei castelli di Forcamelone, di Pianezza, di Narnate, tutti appartenenti al duca di Spoleto, come baluardi del suo dominio sulla frontiera sud-orientale del ducato. Il castello di Narnate fu sede di un castaldato, commesso alle cure ora dell'uno ora dell'altro milite, ma sempre alle dipendenze dei duchi di Spoleto, quindi, sullo scorcio del sec. XII, della Chiesa. Del castaldato narnadino si fa più volte menzione nelle carte farfensi, le quali ce ne parlano già prima dell'anno mille e durano fin verso la metà del secolo seguente, chiamandolo anche "massa" o "territorio" narnatino: esteso per tutto l'altipiano leonessano,si affiancava a quello equano (Cascia) e dipendeva a sua volta dal castaldato pontano (Ponte, nella Valnerina). Questi castelli si trovarono coinvolti nelle lotte politiche per il dominio sul ducato di Spoleto, particolarmente nel terzo decennio del sec. XIII, che vide dapprima, nel 1223, la ribellione del castello di Forcamelone assediato e saccheggiato dalle truppe del cardinal Giovanni Colonna rettore del ducato, quindi, nel 1228, la distruzione del castello di Narnate ad opera di Rainoldo d'Urslingen, tra le vive proteste di Gregorio IX. Queste notizie frammentate non consentono di delineare una precisa storia delle diverse signorie, trattandosi di zona di confine ove le alternanze di dominio, o per lo meno di influsso politico, erano legate alle più ampie contese tra la monarchia normanna esveva, i papi e i duchi di Spoleto. Traccia inequivoca di questo travaglio plurisecolare rimane nelle oscillazioni della giurisdizione ecclesiastica, divisa tra i vescovadi di Rieti e di Spoleto, ed inizialmente anche di Terni, la quale ha trovato il suo equilibrio lungo un confine piuttosto ideale, e non orografico o idrografico, che taglia a metà l'altipiano in direzione est-ovest. Ai margini settentrionali dell'agro si fissò, già sul finire del XII secolo, la linea pedemontana di confine tra stato della Chiesa e regno di Napoli, a ognuno dei quali fece capo un gruppo di castelli.
Tra questi appartenenti al Regno di Napoli emerse il castello di Ripa di Corno, attorno al quale, per una decisione politica dei sovrani di Napoli, si formò in breve tempo l'attuale Leonessa. Tale fondazione va inquadrata nei procedimenti di "sinecismo" o di "incastellazione" che, soprattutto negli Abruzzi dei secoli XIII-XIV, furono all'origine di molti agglomerati....
La storia, invece, documenta un preciso intervento di Carlo I d'Anjou a fine di meglio difendere i confini del suo regno. Le cause prossime della fondazione non sono molto chiare, ma sembra certo che un ruolo assai importante abbia giocato il desiderio di autonomia delle genti dell'altipiano, già coinvolte in quella certa anarchia di potere invalsa ad opera degli ultimi Urslingen, che scorazzarono per la zona fin verso la metà del sec. XIII; esse furono sollecitate a ribellione prima (1265) dal Re Manfredi, che, in lotta con Clemente IV, s'era attestato con le sue truppe per le montagne dell'Umbria, da Cascia ad Amatrice, poi (1268 e ss.) dall'esempio dei casciani ribelli a Spoleto e dalle lotte che ne seguirono.
Gli uomini del castello di Narnate, ribellatisi pur essi al dominio della Chiesa, si rifugiarono nel 1274 nella rocca di Ripa di Corno soggetta al re di Napoli, i cui uomini finirono per fare causa comune con gli insorti. Ne nacque una situazione piuttosto confusa, che sfociò in una nuova "terra", subito denominata Gonessa.
Per ospitare i ribelli, infatti, fu deciso il primo piano regolatore dell'ambiente: presentando il vecchio castello di Ripa case fatiscenti ed anguste, fu costruito sul lato orientale un nuovo borgo, a distanza di un tiro di sasso dal vecchio castello, con due torri di avvistamento e di difesa (presumibilmente la torre "della campanella" e la rocca); per le spese provvide con un mutuo presso la curia regia. Il documento di fondazione, che solo di recente ho potuto identificare, reca la data del 16 luglio 1278; capitano del castello di Ripa era allora il milite Teodino di Rodio, alla cui morte successe, in quello stesso anno, il figlio Berardo.
Altri immigrati dovettero ben presto rifugiarsi nella nuova terra provenienti da tutti i castelli dei dintorni, e si fece un "comune" di uomini liberi: del 1358 è l'aggregazione del castello di Fuscello, garantita da regolare istrumento e da chiare norme associative.
Il nome del nuovo agglomerato urbano, tolta qualche testimonianza che parla ancora - dal nome del castello incstellante - di Ripa di Corno, fu, come si è detto, quello di Gonessa, il quale perdurò, nella forma dotta di Connexa, fino al sec. XVI-XVII. Sul finire del '300 però già comparve il nome attuale, sia pur latinizzato in Lionissa. Le ragioni di questa onomastica non sono state ancora sufficientemente accertate, nonostante le molte ipotesi che vogliono vedere, nel primo nome, un legame con le origini e la struttura composita della città, o anche con una importante famiglia di feudatari angioini venuti dalla Francia; e, nel secondo: o una trasformazione etimologica del nome originario, o un appellativo derivato, secondo quanto narra un'enfatica ed inattendibile tradizione locale, dal valore mostrato dai connessani nel combattere "come leoni", o anche da suggestioni polemiche contro il vicino Castrum Leonis (Monteleone di Spoleto).
Lo sviluppo urbanistico originario, per le ragioni già illustrate, fu orientato prevalentemente in direzione est-ovest, e solo alquanto più tardi prese gradatamente consistenza lo sviluppo sud-nord, a carattere essenzialmente radicale, con un reticolo di strade simmetriche tutte confluenti nella piazza centrale; è pure riconoscibile il cardo e il decumano del reticolato castrense. Quasi contemporaneamente sorsero nei pressi dell'abitato i nuovi conventi di ispirazione francescana: quello di S. Francesco nel 1285 e quello di S. Lucia nel 1295; con essi fiorirono parimenti, nell'interno dell'abitato, i conventi di ispirazione agostiniana: quello di S. Agostino e quello di S. Antonio. Quanto all'organizzazione interna della città, essa fu di natura essenzialmente confederativa, pur nel progressivo assorbimento di diritti e consuetudini particolari e nell'obbedienza ad uno statuto comune.
Il primo statuto di cui si abbia notizia, da secoli non più esistente, fu redatto dal vicario regio Ciuffuto de Ciuffiti di Ascoli nel 1378-1379, a un secolo esatto dalla fondazione della città, quando ormai molte spinose questioni erano state risolte, ed ottenne numerosi approvazioni regie: di Ladislao nel 1406, di Ferrante I d'Aragona nel 1464, di Carlo V nel 1531, di Margherita d'Austria nel 1539.
Nel 1545 gli statuti originali furono trascritti dal cancelliere Persio Salvo su un nuovo codice pergamenaceo, di 22 ff.: ma originale e copia sono andati perduti; si è salvata solo quella parte rielaborata e data alle stampe nel 1621 a cura del cancelliere del comune Consalvo Dioteguardi.
Sono evidenti le tracce dell'originario processo d'incastellamento, conservandosi fino ai nostri giorni, pur con le inevitabili trasformazioni dovute al tempo e alle mutate condizioni di vita, l'originaria distinzione dei territori e dei diritti patrimoniali dei confederati.
Sul piano amministrativo furono istituiti sei rioni, detti appunto "sesti", cui vennero aggregate le ville dell'agro.
Il sesto, ben radicato nel diritto consuetudinario locale, fu insieme suddivisione di territorio ed organo amministrativo, ed ebbe una precisa funzione sociale e politica.
Basti pensare che i sei priori del reggimento erano scelti uno per sesto, ed analogamente le altre cariche rappresentative, e cioè i membri del gran consiglio ed i massari del popolo.
I sesti furono così denominati: 1° S. Egidio di Corno (comprendente anche i territori dei castelli di Vallonina e di Ripa); 2° S. Nicola di Forcamelone; 3° S. Nicola di Poggiolupo; 4°S. Maria di Croce; 5° S. Martino di Pianezza e S. Maria di Torre (comprendente i territori dei due castelli di Pianezza e di Torre Ornata); 6° S. Venanzio di Terzone. O più brevemente: Corno, Forcamelone, Poggio, Croce, Torre e Terzone. Ogni focoliere divenne perciò un sestiere ed ebbe in Leonessa, insieme al governo centrale rappresentativo, la sua universitas autonoma, la sua chiesa, il suo santo protettore, il suo sacerdote. Ed anche gli stessi immigrati, per godere pienamente dei diritti di cittadinanza, dovevano essere aggregati a certe condizioni ad uno dei sesti, quello di Forcamelone.
Per capire la storia di Leonessa bisogna necessariamente inserirla entro questa inteliatura fondamentale: città di origine demaniale, e non feudale, a struttura federativa, ubicata in una zona strategica di confine, e percò blandita e resa fedele dai regnanti di Napoli con larghe concessioni di autonomia amministrativa, che la ponevano, in pratica, nelle condizioni di libero comune. Vivevano in essa, accanto alle magistrature comunali democraticamente elette (e cioè a priori, i massari del popolo, i membri del gran consiglio e, con la dinastia aragonese, pure il podestà), i rappresentanti dell'autorità regia, e cioè il vacario, il giudice ed altri ufficiali minori, tutti dipendenti dal Capitano della montagna, cui incombeva l'onere di risiedere sul posto almeno un mese all'anno: ma tra le due magistrature non sempre corse buon sangue, ed i leonessani furono spesso costretti ad invocare l'intervento del sovrano. Verso di esso, angioino o aragonese che fosse, mostrarono sempre fedeltà, nè presero mai parte a gravi sommosse dirette a sconvolgere l'orine costituito, particolarmente durante gli avventurosi regni delle due Giovanne (1343-1381), e (1414-1435) e nel turbolento periodo della "congiura dei baroni" sotto Ferdinando I (1458-1494). C'è anzi, per la loro lealtà di trono, subirono non poche azioni di rappresaglia da parte dei rivoltosi di turno.
Soprattutto nei secoli XV-XVI fiorirono le industrie, principalmente quella laniera, la quale trovava sbocchi in numerosi centri commerciali, dai mercati di Farfa a quelli di Ascoli Piceno. Per una migliore tutela furono redatti nel 1466 brevi capitoli che salvaguardassero quell'"honore et utile della Terra". In seguito l'arte della lana volse al declino, pur continuando ad assorbire una considerevole parte dell'artigianato locale; nè molto valsero a risollevarne le sorti i tentativi esperiti nel 1587 per un nuovo più adeguato statuto. Altre attività meritatamente famose furono quelle concernenti la lavorazione delle carni suine e dei latticini, l'esportazione di granoe legumi, le industrie artigianali dei tessitori di lino, dei cappellai, degli armaioli, dei battitori di metallo, dei fornaciari e cavatori di gesso etc. Questa condizione di relativa agiatezza dette credito alla città, ed i leonessani sempre più frequentemente vennero richiesti come paceri e come garanti dalle comunità vicine in lite tra loro, e crebbero in stima un pò ovunque, come indica - ad esempio - la cittadinanza spoletina concessa loro in perpetuo nel 1569. Il maggior benessere economico favorì pure largamente lo sviluppo dell'edilizia e consentì l'ingresso di molte opere d'are nelle chiese della città. Un'altra iniziativa merita qui d'essere ricordata. Su precisa e ripetuta testimonianza dell'Antinori, "nel 1446 fu, per cura di Antonio di Colandrea piovano, meglio ricoverato il Monte di Pietà in Lagonessa, edificata forte stanza pè depositi e pegni presso alla piazza; sopra di essa fu poi adattato campanile per la campana e orologi del pubblico".
Nel dare questa notizia, l'Antinori rimanda ad una iscrizione da lui stesso letta a Leonessa ella sua visita del 1770, alla quale può essere collegata una pietra di antico portale rozzamente incisa, ritrovata negli scantinati del convento di S. Francesco, sulla quale si legge: "ATONIUS/COLE.PLEBA/NI. FIERI. FEC. / 1446".Se l'informazione antonoriana è esatta, dovremmo porre proprio a Leonessa il primo Monte di Pietà sinora documentato, preesistente peraltro al 1446, dal quale potè trarre ispirazione il b. Domenico da Leonessa che ne fondò uno ad Ascoli Piceno nel 1458. Stando a quel che dice l'Antinori, il Monte di Pietà leonessano era ubicato in posizione centrale, nel pubblico arengo, e sopra il locale fu poi innalzata la torre civica, quella stessa distrutta all'inizio del secolo. La notizia e quanto mai suggestiva, ma attende più precisa conferma documentaria.
A questo punto, accertate nei termini che si son dtti la storia delle origini e quella delle istituzioni di Leonessa, se ne possono brevemente riassumere i fasti e i nefasti principali nella loro successione cronologica.
Di ordinaria amministrazione furono all'origine le contese, spesso sanguinosissime, per vere o presunte violazioni di diritti o per abusi nello ius repraesaliarum (=rappresaglia) o nelle "cavalcate" di armati predisposte dalle stesse autorità, le quali contese, alternandosi con alleanze e pacificazioni, fiorirono per tutto il secolo XIV contro le comunità vicinori di Monteleone di Spoleto, Cascia, Norcia, Posta, Cantalice, e persino con Aquila, Rieti, Spoleto, Roma... Memorabile la lotta che i leonessani intrapresero con Rieti a breve distanza dalla fondazione della loro città, e che si concluse nel 1287 con un trattato di scambievole amicizia.
Altre celebri contese, che si protrassero per lo spazio di un secolo, furono quelle con la comunità di Cascia: nel 1289 è il primo trattato di pace tra Cascia e Leonessa, stipulato con la mediazione della comunità di Accumoli; nel 1331, durante una lotta tra Norcia e Cascia, i leonessani dettero man forte ai nursini occupando il castello di Civita e fortificandovi per molto tempo, subendo poi la rappresaglia dei casciani; altra reviviscenza di lotta si ebbe nel 1371, finchè si giunse ad un nuovo trattato di pace nel 1385. Altra controversia fu quella con Posta per il possesso di villa Santogna, al margine orientale del territorio leonessano, controversia che nel 1325 si estese alla comunità di Aquila e causò non pochi litigi, fino a tempi relativamente recenti. Baruffe per contestazioni di confine si ebbero un pò sempre, concludendosi con reiterate promesse di pace: del 1471 è un ennesimo trattato di pace con Cascia, del 1480 una convenzione con Norcia, nel 1502 un capitolato e del 1504 un trattato di pace con Monteleone.
Accanto a queste endemiche baruffe si posero conflitti ben più gravi, di natura politica, come nel 1347, il saccheggio e la distruzione della città, ad opera, - secondo quel che narra il Villani - , dell'esercito di Luigi d'Ungheria, sceso in Italia per vendicare l'uccisione di suo fratello Andrea, marito della prima Giovanna; o le devastazioni perpetrate in quegli stessi anni dalle bande dell'aquilano Lalle Camponeschi, nemico degli Angioini. Ad aggravare la situazione si aggiungevano di volta in volta le scorrerie delle compagnie di ventura: nel gennaio 1364 fu la volta della famigerata compagnia "dei cappelletti", e qualche anno più tardi, nel 1379, della compagnia di S. Giorgio; o quelle di occasionali bande di fuoriusciti: come, nel 1382, quella dello spoletino Tommaso Petrucci alleato dei monteleonesi, che tanti lutti e distruzioni ebbe ad arrecare alle genti del contado; e, nel 1386, quella di Rinaldo Orsini. Altre memorabili incursioni in territotio leonessano furono quelle del 1486, da parte di truppe aquilane e pontificie, e del 1528, ad opera dello Sciarra e del conte di S. Secondo durante la guerra tra gli eserciti francese e spagnolo.
Dal 1384 sino all'inizio del '400 si ebbe una breve denominazione dei Trinci, signori di Foligno, dapprima con Corrado, che interpose i suoi buon uffici per una pacificazione generale tra Leonessa, Norcia e Cascia, quindi con Ugolino, ambedue proposti dai leonessani come governatori della loro città e confermati nell'incarico del sovrano. Ma il timore, nient'affatto infondato, che l'incarico temporaneo potesse trasformarsi in signoria di tipo feudale, mise in agitazione i leonessani, i quali nel maggio del 1401 ottennero da Ladislao il ritorno del territorio sotto il pieno dominio regio, con l'annullamento di qualunque concessione ai Trinci e la solenne promessa di non infeudare giammai la terra di Leonessa. Tuttavia l'anno seguente si ebbe, a quanto sembra, una strana infeudazione della città al maresciallo del regno Jacques l'Eténdard, ma il provvedimento non dovette avere alcun seguito.
Nel 1420 Leonessa corse altro grave rischio di infeudazione mediante vendita, giacchè la seconda Giovanna aveva bisogno di denaro per sostenere il suo trono e quello dell'adottato Alfonso d'Aragona contro le pretese di Luig III d'Anjou ed i suoi alleati. I leonessani manifestarono per lettera tutto il loro accorato dolore, e ne ebbero per risposta una "epistola consolatoria pulcherrima" che li rassicurava sulla loro sorte ed insieme li esortava a difendere fedelmente il regno, ad essi affidato "prout ad custodes hostiorum et clavigeros"; l'espressine piacque molto, e ad essa sembra di poter far risalire il motto del nuovo stemma della città: "SUM CONNEXA VERA CLAVIS MONTANAQUE SERA".
Altra breve cessione temporanea fu fatta, per ragioni politiche, da Alfonso d'Aragona, il quale, dal1443 al 1447, lasciò Gonessa, Cittaducale ed Accumoli a papa Eugenio IV in cambio del vicariato di Benevento. Il dominio pontificio però non fu gradito in alcun modo ai leonessani che si tennero pronti all'insurrezione armata, optando "pro conservatione libertatis in regia fidelitate". Re Alfonso, grato per questo attaccamento, trasmise nel 1452 all'università di Leonessa la cura e la custodia dell'arce, sempre sino ad allora affidata ad un castellano di nomina egia, ultimo dei quali fu appunto in quell'anno Laudadeo Tau di Legognano. Si ha pure ricordo di un tentativo non riuscito, durante il regno di Federico il Bastardo (1496-1501), di distaccare Leonessa, Amatrice, Cittaducale dal regno di Napoli per trasferirle di nuovo sotto il dominio del papa. Infeudazione vera e propria si ebbe solo nel 1539. Con Carlo V, infatti, cessò del tutto la già turbata demanialità di Leoessa. L'imperatore, con privilegio del 17 marzo 1539, diede in feuso Leonessa, insieme alle libere università abruzzesi di Penne, Campli, Cittaducale e Montereale (i cosiddetti "stati farnesiani d'Abruzzo"), a sua figlia naturale Margherita d'Austria, andata sposa ad Ottavio Farnese, per costituirle il reddito dotale annuo di 6000 ducati d'oro. Si trattò però di una infeudazione all'origine non eccesivamente gravosa, con soli diritti giurisdizionali e fiscali da parte del feudatario e non territoriali; ed i leonessani, tanto gelosi per natura e per tradiione della loro autonomia e della loro libertà, non mostrarono di soffrirne molto. Va anche detto che Margherita d'Austria si comportò con prudenza e magnanimità rispettando leggi, operando un saggio decentramento amministrativo, onorando e beneficiando i nuovi sudditi: ai leonessani fece dono una elegante fontana ubicata nella piazza maggiore (1548), e per i poveri dispose, con testamento rogato dal leonessano G. Battista Atti il 3 gennaio 1586, alcuni lasciti, come doni nuziali, destinati a delle ragazze povere di Leonessa. A quest'epoca risale, come vuole la tradizione, la concessione del titolo di "città" da parte di Carlo V, successivamente confermato dalla congregazione pisana dei Cavalieri di S. Stefano: ma è notizia che attende conferma.
Da Margherita i feudi farnesiani d'Abruzzo passarono per succesione ereditaria ai Farnesi di Parma.
Leonessa (come gli altri feudi, del resto) continuò pur sempre in certi rapporti di sudditanza verso il regno di Napoli, sudditanza concretizzatasi, a pertire dal 1652, in alcune tassazioni che andavano a sommarsi ai gravami fiscali di natura feudale (mastrodattia, giurisdizione sulle seconde cause, zecca e portolania, adoho).
La situazione economica, fattasi già abbastanza precaria, ebbe un grave colpo in seguito ai violenti terremoti del 1703, nei quali rimasero distrutti molti edifici pubblici e numerose frazioni, e trovarono la morte circa 800 persone e gran quantità di bestiame: fu il colpo di grazia che ridusse Leonessa allo stremo, favorendo l'emigrazione massiccia - già iniziata nel secolo precedente - verso Roma e le città dello stato pontificio; nè a porvi rimedio valsero molto gli aggiustamenti e le restrizioni imposte nel 1735 dall'uditore generale Francesco Carfora.
Tuttavia, nel 1737, e poi nel 1746, pur afflitta da gravi ristrettezze economiche, Leonessa visse la sua ora di trionfo con la beatificazione e la canonizzazione del suo figlio più illustre, il caappuccino Giuseppe Desideri.
In seguito alla pace di Vienna del 1735, per la quale Carlo I di Borbone aveva ottenuto tutti i beni extraterritoriali già appartenuti ai Farnese e ai Medici, Leonessa ritornò sotto il pieno dominio della casa reale di Napoli e venne compresa tra i cosiddetti "stati allodiali" di privato patrimonio della corona.
Ai Borboni di Napoli rimase fedele durante i moti rivoluzionari del 1799, ed i suoi uomini combatterono con impegno tra le "masse" del gen. Salomone nell'assedio di Rieti.
Finalmente, con la legge eversiva della feudalità (1806), Leonessa fu nuovamente libero comune, e si organizzò secondo i nuovi criteri amministrativi introdotti dalla rivoluzione. Prese parte alle lotte politiche del tempo e nel settembre 1820 ebbe anch'essa la sua "vendita" carbonara, subito presa di mira dalla polizia borbonica.
Con l'avvento del regno d'Italia fece parte della provincia di Aquila tramite il circondario di Cittaducale. Nel 1927 fu però aggregata alla provincia di Rieti di nuova istituzione.
Nelle due ultime guerre mondiali molti luti si sono abbattuti sulla città: più di 161 furono i soldati morti della prima guerra, e 27 quelli della seconda guerra.
Notevole contributo di vite umane Leonessa diede al movimento di liberazione, patendo saccheggi e distruzioni ed il barbaro massacro di ben 51 suoi figli.
A ricordo di questi ultimi, sul luogo ove morirono le 23 vittime del massacro nazista del venerdi santo 7 aprile 1944, tra le quali era il cappellano delle brigate partigiane don Concezio Chiaretti, è stata eretta una stele-sacrario disegnata dal reatino Arduino Angelucci.
Il civico gonfalone è stato decorato di medaglia d'argento di valor civile (decreto del Presidente della Repubblica, 8 luglio 1959) con la motivazione: "Resisteva con intrepido coraggio allo straniero accampato in armi sul sacro suolo della patria, offrendo la vita di numerosi suoi figli per la causa della libertà"( da "Leonessa Arte, Storia, Turismo" ed. "Leonessa e il suo Santo" 19995 - Testo di Giuseppe Chiaretti)