Informatizzazione a c. di B. Durante

Castelvetro, Ludovico (1505-1571) -qui in un ritratto della quadreria dell'Università di Bologna- uno dei maggiori studiosi e critici del '500 di Dante (di cui rimane memorabile un commentario della Divina Commedia), Petrarca e Aristotele (la sua traduzione della Poetica è un riferimento per gli studiosi) fu Ludovico Castelvetro, nato a Modena nel 1505 da una famiglia benestante: suo padre era infatti il ricco banchiere Giacomo Castelvetro.
Il giovane Ludovico si laureò in giurisprudenza all'università di Siena e nel 1532 divenne docente di diritto all'università della sua città natale.
Poco dopo, tuttavia, egli abbandonò gli studi giuridici, per occuparsi di quelli letterari ed entrare a far parte dell'Accademia modenese, fondata dal medico Giovanni Grillenzoni, allievo di Pietro Pomponazzi , che riuniva i principali notabili della città, come, ad esempio, Filippo Valentini ed il professore universitario Francesco Porto (1511-1581), per discutere di teologia, ma anche per studiare e commentare le Sacre Scritture, utilizzando direttamente le fonti originarie, un modus operandi caro alla Riforma.
C. stesso si mise in evidenza, curando nel 1532 la traduzione in italiano dei Loci communes di Melantone , edito sotto il titolo di I principii de la theologia.
D'altra parte le tendenze riformiste di C. si notarono anche nella rilettura che egli aveva fatto dei testi di Petrarca, presentato come un proto-protestante, intento a satireggiare sul papato di Avignone e a fare richiami continui agli insegnamenti di Sant'Agostino o direttamente alle Sacre Scritture.
Tale fu la popolarità raggiunta dall'Accademia che il cardinale di Modena, Giovanni Morone , coadiuvato dal cardinale Gasparo Contarini , costrinse nel settembre 1542 gli aderenti a firmare un formulario di fede, gli Articuli orthodoxae professionis , che C.
si rassegnò a sottoscrivere: non così per il Porto e il Valentini, che preferirono allontanarsi dalla città.
Tuttavia la messa sotto accusa del C. nell'estate 1556, assieme a Bonifacio e Filippo Valentini e al libraio Antonio Gadaldino, lo consigliò di fuggire da Modena.
Calmate le acque, C. rientrò, ma la comparsa, intorno al 1559, della sua traduzione (probabilmente risalente al 1541) di un'altra opera di Melantone, De Ecclesiae autoritate et de veterum scriptis libellus (Dell'autorità della Chiesa e degli scritti degli antichi), mise questa volta seriamente nei guai l'umanista modenese.
Infatti, una volta salito al potere, il nuovo duca di Ferrara e Modena, Alfonso II (1559-1597), tutt'altro che tollerante verso i protestanti come invece sua madre Renata di Francia , cercò inutilmente di far processare C. a Ferrara per eresia.
C. decise quindi di presentarsi spontaneamente nell'ottobre 1560 presso il tribunale del Sant'Ufficio a Roma, ma il 17 dello stesso mese, avuta la certezza che i giudici avevano visionato la sua traduzione del De Ecclesiae, fuggì, con l'aiuto di suo fratello Gian Maria, dal convento di Santa Maria in Via, dove era confinato, in quanto era sicura la sua condanna come eretico.
La sentenza fu effettivamente emessa, ma gli inquisitori dovettero accontentarsi, a causa dello stato di contumacia, di bruciare il C. in effigie.
Il C. dapprima si nascose, per qualche mese, nella sua villa di Verdeda (vicino a Modena), quindi lasciò Modena nella primavera 1561 per Chiavenna, dove fu visitato dal suo ex allievo Fausto Sozzini e dove fu raggiunto dall'antico amico Francesco Porto, con il quale si trasferì a Ginevra.
Dal 1562 al 1564 C. visse a Ginevra e qui fu raggiunto dai nipoti Giacomo (1546-1616) e Lelio (1553-1609) Castelvetro, esuli, come lo zio, per motivi religiosi.
Giacomo, dopo anni di esilio volontario all'estero, rientrò in Italia (a Venezia) nel 1597 e 14 anni dopo, nel 1611, fu arrestato con l'accusa di eresia.
Per sua fortuna, i potentissimi appoggi internazionali di cui godeva permisero la sua scarcerazione: era stato nientedimeno che insegnante di italiano del re di Scozia Giacomo VI, poi Giacomo I re d'Inghilterra (1603-1625), il quale intervenne tempestivamente per richiedere il suo rilascio.
Morì in Inghilterra nel 1616.
Il fratello minore Lelio fu meno fortunato: fu infatti processato e successivamente bruciato come eretico a Mantova nel 1609.
Lo zio Ludovico abitò successivamente a Lione, in Valtellina (dal 1512 sotto il cantone protestante dei Grigioni), a Vienna ed infine ritornò a Chiavenna, dove morì il 21 febbraio 1571.
Addolorato per la morte dell'amico modenese, Fausto Sozzini scrisse, in suo onore, un sonetto, in cui l'antitrinitario senese dichiarò che C. gli aveva chiaramente mostrato la via da seguire: l'esilio in terra protestante e la palese professione di fede.