DA "LE ERBE...", GINEVRA, FERNI, '77 "LE ERBE OFFICINALI"

La SALVIA si presenta in numerose varietà: la "officinalis", la "pratensis", la "sclarea" tutte della famiglia delle Labiate. La SALVIA OFFICINALE cresce nei luoghi sassosi ed aridi. Le sue foglie oblunghe e grigiastre non cadono in inverno: all'inizio dell'estate sbocciano dei fiori di colore azzurro violaceo. Come sostanze attive, in farmacopea e medicina, nelle sue foglie si trovano un olio essenziale, acido tannico e resina: le foglie sono quindi utilizzate come astringente, digestivo, stimolante e antidiaforetico. La SALVIA, pianta medicamentosa per eccellenza, fu fatta ascrivere tra CARLO MAGNO in un suo CAPITOLARE tra le erbe dei SEMPLICI cioè tra le 16 piante base dell'erboristeria, quelle cui ogni AROMATARIO doveva appellarsi per comporre le sue TISANE E/O DECOTTI. La più celebre scuola medica dell'antichità medievale (la SCUOLA SALERNITANA) l'aveva battezzata "SALVIA SALVATRIX" la "PIANTA CHE SALVA" aggiungendo in un celebre versetto che "PERCHE' NON MUORE L'UOMO CUI LA SALVIA CRESCE NELL'ORTO?". Nel passato le erano attribuite, non senza ragione, tante qualità: come stimolante aromatico, contro le alitosi, per agevolare il parto (un infuso di salvia preso regolarmente un mese prima del parto avrebbe facilitato lo stesso riducendone i dolori). Una leggenda della SALVIA come erba medicamentosa sorse nel XVII sec. con un fatto criminale durante un dramma quale l'EPIDEMIA DI PESTE. Nel 1630 Tolosa era tormentata dalla PESTE ma "sette (o "quattro", secondo un'altra versione) ladri" continuavano a saccheggiare le case ed a depredare i cadaveri degli appestati restando immuni. I delinquenti vennero alla fine arrestati e furono interrogati. Fatto il processo vennero condannati a morte: ma il giudice conoscendo le loro prodezze e saputo che, prima di avventurarsi tra le case piene di cadaveri, si strofinavano sul corpo un unguento, chiese loro di cosa si trattasse. Secondo il francese Messegué, illustre erborista moderno (nel volume "Uomini, erbe e salute"), si sarebbe trattato dell'unguento composto da timo, lavanda, rosmarino e salvia macerati in aceto destinati a passare alla "storia" col nome di "ACETO DEI QUATTRO LADRI". E' impossibile che l'intruglio funzionasse contro la PESTE ma nel '600 ebbe comunque un forte ascendente sul popolo che lo chiamò anche ACETO DEI SETTE LADRI (un'altra variante della formula comportava l'aggiunta di ruta e canfora). L'"ACETO DEI SETTE (O QUATTRO LADRI)" ottenne comunque una certa rinomanza e fu riutilizzato a Marsiglia quando la città, assieme a tutta la PROVENZA, un secolo dopo fu colpita da altra epidemia: in questo caso l'aceto fu arricchito dall'uso di un'altra pianta ancora, l'AGLIO. L'ACETO verso il XIX secolo entra nell'uso ufficiale e si vende in farmacia: lo si raccomanda per il ben stare a tutti, anche a preti, suore e medici: l'invito è di berne a digiuno una cucchiata in un bicchiere d'acqua e poi di strofinarsene le tempie sì da andare tranquilli poi a visitare malati e moribondi.



Il ROSMARINO era tra i SEMPLICI cioè fra le piante obbligatoriamente coltivate per le loro ragioni medicamentose dai sudditi del Sacro Romano Impero di Carlo Magno. La pianta possiede dei fusti legnosi che di solito non raggiungono il metro di altezza e sono coperti da foglioline coriacee, lineari e fini. Già apprezzato dagli Egiziani e poi da Romani e Arabi il ROSMARINO aveva fama di pianta medicamentosa per eccellenza e tra le sue varie applicazioni si ricorda soprattutto l'uso come tisana antispasmodica per i dolori di ventre causati dallo stato infiammatorio della mucosa intestinale: in altra combinazione si ritiene vantaggioso come antispasmodico per i dolori mestruali.



La SANTOREGGIA è una pianta erbacea della famiglia delle Labiate ("Satureia hortensis") con fiori a spiga di colore rossastro usati come condimento di cibi ma -da tempi remoti- anche per ESTRARNE un'essenza usata in erboristeria.
Il nome peraltro -coniato evidentemente sotto influsso della MEDICINA POPOLARE allude alle sue qualità di panacea visto che è un'alterazione popolare del latino "SATUREIA" per incrocio con SANTO o SANTITA' in via di un'esplicita allusione ai poteri salvifici della pianta.
Il MATTIOLI nel suo volgarizzamento di PEDANIO DIOSCORIDE scrisse [181]:"Alcuni medici in tali malattie di fegato e di milza gli fanno mangiare di lungo inanzi al cibo, o con timo o con pepe o con giengievo o con pulegio o con santuregia o con calamento o con origano o con issopo".
Nel "LIBRO DI ESPERIMENTI DI CATERINA SFORZA" degli inizi del '500 (vedi: "Libro di esperimenti di Caterina Sforza, a cura di P.Pasolini, Imola,1894) si legge: "La santo regia trita e cotta in aceto, impiastata sul capo de la parte di rientro exita li dismenticati".



Melone: pianta erbacea delle Cucurbitacee, originaria dell'Asia Tropicale e dell'Africa, è costituita da un fusto strisciante e fiori di colore giallo. Il frutto della pianta ha polpa farinosa, succosa e zuccherina, molto profumata di colore giallo, bianco o verdastro, la buccia è liscia o reticolata a seconda della varietà.
Varietà: quelli estivi si dividono in due tipi: il Cantalupo con buccia liscia, divisa a spicchi e polpa gialla e gustosa; il Retato, con buccia ricoperta da un intreccio di linee e la polpa di colore giallo-arancio, che risulta essere molto dolce e aromatica. Esistono anche meloni invernali, come l'invernale giallo e l'invernale verde, entrambi a polpa chiara e piuttosto saporita.
Proprietà: leggermente lassativo, è rinfrescante e con poche calorie. Adatto a chi soffre di anemia data la presenza del ferro e ai diabetici perchè il contenuto dello zucchero, rispetto all'acqua, non è eccessivo.



La cura dei disturbi e delle malattie, delle ferite del corpo e dell’anima attraverso le proprietà delle erbe è sempre stata una prerogativa di sacerdoti e stregoni, ma anche di contadini e pastori che sapevano preparare favolosi decotti ed infusioni. Nel corso del Medio Evo l’uso curativo delle erbe acquista una sorta di ufficializzazione da parte dei monasteri.
Le 16 piante officinali spontanee che bisognava coltivare erano: assenzio, crescione, finocchio, malva, fienogreco, giglio, ligustro, lunaria selvatica, melone, menta, pulegro, ruta, salvia, tanaceto, santoreggia e rosmarino. La notte di San Giovanni era indicata dai monaci come la più adatta per la raccolta delle erbe, ma per streghe e maghi era la notte dei falò: le erbe ed i veleni bruciati diventavano l’ingrediente ideale per pozioni magiche ed incantesimi. Nell’ambito popolare la raccolta delle erbe era affidata prevalentemente alle donne, alcune delle quali hanno lasciato testimonianze significative sull’uso di particolari prodotti che sopravvive ancora oggi.
A Triora ad esempio, il semprevivo dei tetti è considerato un parafulmine magico e l’olio del cacciadiavoli, o erba di San Giovanni, è usato per cicatrizzare le ferite. Tra le pozioni magiche più efficaci c’erano quelle a base di malva, con funzioni antinfiammatorie, di borragine per le vie respiratorie e altre di ginepro, lavanda e ortica. Nel corso dei processi per stregoneria del 1587 anche l’Inquisizione fece ricorso alle proprietà delle erbe per preparare due potenti sedativi: la belladonna e il giusquiano agivano infatti sul sistema nervoso con effetti inibitori, costringendo le imputate a confessare anche ciò che non avrebbero voluto.