ripr. e informatizzaz. a c. di B. Durante

PIETRO METASTASIO (Padre Antonio Domenico Bonaventura Trapassi), poeta e librettista italiano (Roma, 3-1-1698-Vienna, 12-IV-1782).
Ebbe il cognome grecizzato in Metastasio dall'abate G. V. Gravinana che, dopo averlo sentito cantare e improvvisare, lo prese sotto la sua protezione e nel 1718 lo fece parzialmente suo erede.
Recatosi con il Gravina a Scalea, in Calabria (1712), seguì gli studi filosofici presso l'abate G. Caloprese, cugino del suo protettore, che lo avviò al pensiero cartesiano, donde il giovane trasse il gusto per la precisione concettuale e la nettezza dell'espressione.
Tornato a Roma e presi gli ordini minori (1714) studiò giurisprudenza, pur continuando a coltivare la poesia.
Nel 1717 pubblicò il Giustino, tragedia scritta nel 1712, e nel 1718 entrò nell'Arcadia con il nome di Artino Corasio.
Nel 1713 si trasferì a Napoli dove nel 1721 si occupò come praticante legale.
La sua attività di poeta lo mise a contatto con i migliori compositori della scuola napoletana che frequentò anche nel salotto della cantante Marianna Benti Bulgarelli detta La Romanina, interprete della parte di Venere nella sua cantata Gli Orti Esperidi (1721).
Gratificato dei favori dalla celebre cantante se ne innamorò componendo per lei la Didone abbandonata, musicata dal Sarro, (Napoli 1724) che caratterizzò il suo primo grande successo teatrale.
Dopo una serie di successi (1724-1730) colti a Roma e Venezia, con la feconda collaborazione dei musicisti L. Vinci e N. Porpora, in vitù delle raccomandazioni di Marianna Pignatelli, contessa d'Althann, dama di corte dell'imperatrice Elisabetta Cristina, fu chiamato a succedere a Zeno quale poeta cesareo cioè lirico ufficiale accreditato presso la corte di Vienna.
Arrivò nella capitale imperiale nell'aprile del 1730 dopo essersi sciolto dal legame della Romanina ed a Vienna rivestì la prestigiosa carica per oltre cinquant'anni, sotto i regni di Carlo VI e di Maria Teresa.
Grazie alla collaborazione di A. Caldara, compositore per il teatro e l'oratorio; Metastasio durante il primo decennio del suo soggiorno viennese produsse le sue cose migliori sì che in particolare a Vienna visse tra grandi onori e consolato dall’affetto profondo della vedova d'Althann nel cui feudo croato peraltro egli soggiornò durante i tempi difficili della guerra di successione seguita alla morte di Carlo VI.
Dopo l’incoronazione al titolo imperiale di Maria Teresa, Metastasio prese ad essergli richiesta una produzione dai diversi connotati e contraddistinta da lavori segnati da maggiore intimismo oltre che finalizzati all'esecuzione privata in benedicio deimembri della famiglia reale. A rendere meno continua la sua produzione nel campo dell'opera seria, e peraltro egli aveva già abbandonato i prediletti “drammi per musica” sostituiti da “azioni teatrali” e “componimenti drammatici”, concorsero le mutate predilezioni dell’aristocrazia viennese che soprattutto dal 1725 prese a scegliere le produzioni del teatro francese, relegando ad occasioni peculiari, come significative ricorrenze, l’allestimento di opere italiane.
Morendo, la Bulgarelli, per nulla risentita dell’abbandono di cui in qualche modo era stata vittima, lo aveva intanto nominato suo erede universale (1734): identica cosa fece poi la d'Althann nel 1755 a vantaggio del fortunato poeta.
Questi consolò le sue perdite coi pegni fruttuosi della grande considerazione della corte e dell'amicizia con N. Martinez, cerimoniere del Nunzio Apostolico a Vienna e con la sua giovane figlia, un'altra Marianna, allieva propria e di Haydn, pianista cantante e compositrice.
Così pure nella seconda metà del XVIII secolo quando l’età e il declino dell’ispirazione avrebbero potuto relegarlo in un secondo piano, Metastasio fu sempre circondato da considerazione e fama.
Si spense un biennio dopo l'imperatrice Maria Teresa, curato come uno di casa dalla famiglia Martinez, presso cui aveva sempre condotto la sua esistenza viennese.
Oltre ad un ponderoso epistolario, che costituisce uno spaccato dell’epoca, Metastasio ha lasciato 27 drammi per musica in 3 atti, alcune azioni teatrali, otto oratorî, serenate, poemi lirici, cantate, arie e canzonette.
Sommamente significativi per l’evoluzione del teatro musicale sono stati i drammi che per tutto il ‘700 hanno rappresentato un emblematico riferimento per librettisti e compositori d’opere serie.










Nato a Venezia nel 1668 (dove morì nel 1750), APOSTOLO ZENO esordì nel 1695 con il melodramma Gli inganni felici, divenendo in breve tempo librettista alla moda e scrivendo per musicisti famosi come Alessandro e Domenico Scarlatti, Händel, Vivaldi.
Nel 1710 con il fratello Pier Caterino Zeno, S. Maffei e A. Vallisneri fondò il Giornale de' letterati d'Italia.
Nel decennio 1718-1728 diresse il teatro della corte viennese.
Tornato a Venezia nel 1729, si dedicò soprattutto a opere erudite, tra cui notevoli le Annotazioni e la Biblioteca dell'eloquenza italiana di Giusto Fontanini, uscite in due volumi nel 1753.
Zeno compose 36 melodrammi, quasi tutti d'argomento storico e mitologico fra cui meritano citazione peculiare Lucio Vero (1700), Merope (1711), Alessandro Severo (1716), e Semiramide (1725).
Scrisse altresì 17
oratori ispirati alle vite dei profeti ma principalmente, più che per la qualità di siffatti lavori e dei suoi stessi melodrammi costruiti con tecnica quasi perfetta ma scarsi di fantasia e sostanzialmente macchinosi, si segnalò alla storia dell’arte teatrale e musicale in quanto concorse ad emancipare il melodramma dagli artifici del barocco estremista e degenerato, rendendolo quantomeno verosimile e comunque adeguato ai rinnovati princìpi estetici del razionalismo arcadico.









La CANTATA DA CAMERA occupa un ruolo d’enorme interesse nella musica italiana dell’età barocca, tale da poterla paragonare per entità e importanza storica al madrigale cinquecentesco o al lied romantico; in questa forma poetico - musicale, del resto, è possibile riconoscere le origini, trasmesse dal canto a voce sola sviluppatosi al principio del Seicento nel cosiddetto stile recitativo, insieme alla tradizione di canzoni strofiche d’origine pseudo-popolare, o d’ispirazione popolaresca, se non altro.
È pertanto principalmente nelle Nuove Musiche (Firenze, 1604) di Giulio Caccini che dobbiamo rintracciare gli archetipi delle forme cantatistiche in uso durante tutto il secolo.
Il percorso creativo della Cantata ricalca la straordinaria stagione del melodramma, di cui rappresenta una sorta d’estrema riduzione, e temporale, e quanto a massa sonora, mentre l’articolazione in arie e recitativi garantisce il regolare svolgersi del tempo drammaturgico.
Ogni compositore si esercitò in questa produzione, che dalla metà del XVII secolo divenne, ovunque, dominante.
La sua natura, fin dagli esordi, è da ricercarsi nelle pratiche d’intrattenimento cólto, diffuse in ambito nobiliare e accademico: ciò giustifica la scelta di testi amorosi e pastorali, come pure di soggetti storici o mitologici.
La smisurata diffusione di questo genere, avvenuta principalmente in forma manoscritta, si è manifestata articolandosi in scuole regionali (Venezia, Roma, Napoli, Emilia), i cui tratti distintivi sono insiti nella scrittura e sovente consentono di risolvere problemi d’attribuzione.
Oggetto ricercato da facoltosi dilettanti, probabilmente dovette gran parte della sua straordinaria fortuna alla capacità di adattarsi alle più diverse situazioni, ad esempio nell’intonazione di testi sacri e moraleggianti o nell’impiego di una certa varietà d’organici vocali e strumentali.
Si tratta dunque di una forma ideale per la trasmissione di contenuti poetici arcadici, offrendo ogni necessario supporto alla drammatizzazione.
Il contributo di illustri rimatori (Silvio Stampiglia, Apostolo Zeno, Pietro Metastasio), la diffusione nei circoli intellettuali, la destinazione a ensembles numericamente ridotti, benché spesso di gran ricercatezza dal punto di vista delle sonorità prodotte, (diversi elementi giustificano spesso l’ipotesi di un auto-accompagnamento del cantore) fanno della Cantata il genere prediletto per nuovi cimenti sonori e poetici, tale da essere pienamente coinvolta nel dibattito culturale che investirà l’Europa alle soglie dell’Illuminismo, quando il rapporto fra musica e poesia entrerà ancora una volta in crisi.
Con l’incremento della produzione di Cantate, sul finire del XVII secolo, si assiste a un progresso della scrittura virtuosistica, che giunge a rendere tale forma teatro di sperimentalismi e arditezze tecniche, in una sorta di osmosi linguistica fra voce e strumento.
Tra le specie morfologicamente associate alla Cantata ritroviamo il Duetto da Camera, la cui storia è lunga circa un secolo, ma che nei suoi valori contrappuntistici è ora autentica versione vocale della Sonata a tre; oppure l’impiego di strumenti concertanti con la voce, più spesso una coppia di violini ma anche flauti, oboe o una parte di violoncello che supera la sua abituale funzione di sostegno nel basso continuo per slanciarsi in una scrittura più solistica, come accade nelle cantate di area emiliana.
Non si sottrasse a questa esperienza Agostino Steffani, che, addirittura, nei primi anni del Settecento intraprese la compilazione di un’antologia delle proprie Cantate.
Nato a Castelfranco Veneto nel 1654, si formò musicalmente a Monaco con Johann Kaspar Kerll (a sua volta alllievo di Girolamo Frescobaldi, grande anticipatore del barocco musicale più evoluto) e a Roma, presso Ercole Bernabei, maestro di cappella in San Pietro.
Dal 1688 fu, poi, a Hannover, dove ebbe modo di dialogare con Leibniz sul significato della musica, e per una quindicina d’anni svolse la professione diplomatica nelle corti mitteleuropee, avendo abbastanza poco a che fare con la professione, per cui oggi lo stimiamo: non ci stupisca questa figura di musicista-ambasciatore, in quanto l’abate (dal 1682) fu preceduto in questo ambivalente incarico da un discreto numero di personaggi fin dall’età rinascimentale.
Il fallimento di una sua missione lo riportò, nel 1702, all’attività compositiva.
Fu allora che Steffani progettò l’antologia cantatistica su menzionata e che, nel corso di un soggiorno romano, tra 1708 e 1709, conobbe Händel, che lo seguì a Hannover sostituendolo nel ruolo di Kapelmeister.
Sempre in viaggio tra la Germania e l’Italia, nonostante vari riconoscimenti da parte di corti e istituzioni, Steffani attraversò, sul finire dei suoi anni, una grave crisi finanziaria. Morì a Frankfurt am Main, nel 1728.
La sua attività musicale, che si addensa principalmente entro lo scadere del secolo XVII, affronta i diversi generi in uso all’epoca.
I melodrammi, prodotti da Steffani massimamente per Hannover, Düsseldorf e Monaco, e celebranti l’esaltazione delle corti, alludendo più o meno velatamente ai loro protagonisti, furono a lungo replicati presso varie sedi nordeuropee.
È il caso di Tassilone (1709), in cui dietro le sembianze di Carlo Magno si cela l’imperatore Leopoldo I e ogni altro personaggio ha un suo corrispondente nella politica coeva.
Il compositore catellano non disdegnò neppure la produzione sacra, ma è l’esperienza della forma vocale cameristica che ha lasciato maggiore quantità di pagine, con un centinaio di brani a lui attribuiti.
Nella copiosità di queste musiche in circolazione (oggi presenti presso diverse biblioteche del mondo), e maggiormente nell’impresa di archiviarle in un’unica antologia, s’intravedono diversi aspetti funzionali della Cantata, che Steffani indubbiamente considerava prioritari nella diffusione della propria cifra stilistica all’interno del sistema produttivo musicale europeo.
L’intento di sovrintendere alla compilazione di una raccolta monografica svela altresì un’evidente finalità pratica di conservazione, ma soprattutto la consapevolezza di costituire quello che successivamente sarà definito “repertorio”, sorta di campionario del proprio lavoro.
In una simile prospettiva, le forme vocali da camera acquisiscono un primario valore nell’indagine estetica del Barocco musicale. Privilegiando l’esplorazione delle potenzialità tecniche vocali, i Duetti di Steffani, come pure i suoi Scherzi (così egli stesso intitola le cantate concertate con i violini, o i flauti, o altri strumenti), non sono sottomessi alla severa legge del dramma e in luogo dei pastori e delle ninfe, la specie teatrale rappresentata è unicamente quella del “cantante”.
Anche per mezzo di questa facoltà, l’impronta musicale di Steffani ci giunge, così, adamantina, e ancor oggi il rito della seduzione sonora si compie per mezzo dell’abilità contrappuntistica, della dissonanza espressiva, dell’esemplare costruzione melodica.
I diversi termini stilistici della vocalità veneziana e romana di metà Seicento, come il movimento in 3/2 languido o la cavata (la ripetizione variata in stile arioso dell’ultimo verso endecasillabo nel recitativo), concorrono, così, alla nascita e allo sviluppo dell’opera tedesca, da cui, poi, trae le sue primissime mosse Händel stesso.















CANZONETTE DI PIETRO METASTASIO
LA PRIMAVERA
LA LIBERTA'
PALINODIA A NICE
LA PARTENZA






























LA PRIMAVERA
Scritta in Roma l'anno 1719.

Già riede primavera
col suo fiorito aspetto;
già il grato zeffiretto
scherza fra l'erbe e i fior. Tornan le frondi agli alberi,
l'erbette al prato tornano;
sol non ritorna a me
la pace del mio cor.

Febo col puro raggio
sui monti il gel discioglie,
e quei le verdi spoglie
veggonsi rivestir.
E il fiumicel, che placido
fra le sue sponde mormora,
fa col disciolto umor
il margine fiorir.

L'orride querce annose
su le pendici alpine già dal ramoso crine
scuotono il tardo gel.
A gara i campi adornano
mille fioretti tremuli,
non violati ancor
da vomere crudel.

A1 caro antico nido
fin dall'egizie arene
la rondinella viene,
che ha valicato il mar;
che, mentre il volo accelera,
non vede il laccio pendere,
e va del cacciator
l'insidie ad incontrar.

L'amante pastorella
già più serena in fronte
corre all'usata fonte
a ricomporsi il crin.
Escon le greggie ai pascoli;
d'abbandonar s'affrettano,
le arene il pescator,
l'albergo il pellegrin.

Fin quel nocchier dolente,
che sul paterno lido,
scherno del flutto infido,
naufrago ritornò;
nel rivederlo placido
lieto discioglie l'ancore;
e rammentar non sa
l'orror che in lui trovò.

E tu non curi intanto,
Fille, di darmi aita;
come la mia ferita
colpa non sia di te.
Ma, se ritorno libero
gli antichi lacci a sciogliere,
no che non stringerò
più fra catene il pié.

Del tuo bel nome amato,
cinto del verde alloro,
spesso le corde d'oro
ho fatto risonar.
Or, se mi sei più rigida,
vuo' che i miei sdegni apprendano
del fido mio servir
gli oltraggi a vendicar.

Ah no; ben mio, perdona
questi sdegnosi accenti;
che sono i miei lamenti
segni d'un vero amor.
S'è tuo piacer, gradiscimi;
se così vuoi, disprezzami;
o pietosa, o crudel,
sei l'alma del mio cor.


LA LIBERTA'
A NICE
Scritta in Vienna l'anno 1733.

Grazie agl'inganni tuoi,
al fin respiro, o Nice,
al fin d'un infelice
ebber gli dei pietà:
sento da' lacci suoi,
sento che l'alma è sciolta;
non sogno questa volta,
non sogno libertà.

Mancò l'antico ardore,
e son tranquillo a segno,
che in me non trova sdegno
per mascherarsi amor.
Non cangio più colore
quando il tuo nome ascolto;
quando ti miro in volto
piu non mi batte il cor.

Sogno, ma te non miro
sempre ne' sogni miei;
mi desto, e tu non sei
il primo mio pensier.
Lungi da te m'aggiro
senza bramarti mai;
son teco, e non mi fai
né pena, né piacer.

Di tua beltà ragiono,
né intenerir mi sento;
i torti miei rammento,
e non mi so sdegnar.
Confuso più non sono
quando mi vieni appresso;
col mio rivale istesso
posso di te parlar.

Volgimi il guardo altero,
parlami in volto umano;
il tuo disprezzo è vano,
è vano il tuo favor;
che più l'usato impero
quei labbri in me non hanno;
quegli occhi più non sanno
la via di questo cor.

Quel, che or m'alletta, o spiace,
se lieto o mesto or sono,
già non è più tuo dono,
già colpa tua non è:
che senza te mi piace
la selva, il colle, il prato;
ogni soggiorno ingrato
m'annoia ancor con te.

Odi, s'io son sincero;
ancor mi sembri bella,
ma non mi sembri quella,
che paragon non ha.
E (non t'offenda il vero)
nel tuo leggiadro aspetto
or vedo alcun difetto,
che mi parea beltà.

Quando lo stral spezzai
(confesso il mio rossore)
spezzar m'intesi il core,
mi parve di morir.
Ma per uscir di guai,
per non vedersi oppresso,
per racquistar se stesso
tutto si può soffrir.

Nel visco, in cui s'avvenne
quell'augellin talora,
lascia le penne ancora,
ma torna in libertà:
poi le perdute penne
in pochi dì rinnova,
cauto divien per prova,
ne più tradir si fa.

So che non credi estinto
in me l'incendio antico,
perché si spesso il dico,
perché tacer non so:
quel naturale istinto,
Nice, a parlar mi sprona,
per cui ciascun ragiona
de' rischi che passò.

Dopo il crudel cimento
narra i passati sdegni,
di sue ferite i segni
mostra il guerrier così.
Mostra così contento
schiavo, che usci di pena,
la barbara catena,
che strascinava un dì.

Parlo, ma sol parlando
me soddisfar procuro;
parlo, ma nulla io curo
che tu mi presti fé:
parlo, ma non dimando
se approvi i detti miei,
né se tranquilla sei
nel ragionar di me.

Io lascio un'incostante;
tu perdi un cor sincero;
non so di noi primiero
chi s'abbia a consolar.
So che un si fido amante
non troverà più Nice;
che un'altra ingannatrice
è facile a trovar.


PALINODIA
A NICE
Scritta in Vienna l'anno 1746.

Placa gli sdegni tuoi;
perdono, amata Nice;
l'error d'un infelice
è degno di pietà.
E' ver, de' lacci suoi
vantai che l'alma è sciolta;
ma fu l'estrema volta
ch'io vanti libertà.

E' ver, l'antico ardore
celar pretesi a segno,
che mascherai lo sdegno,
per non scoprir l'amor:
ma cangi o no colore,
se nominar t'ascolto
ognun mi legge in volto
come si sta nel cor.

Pur desto ognor ti miro,
non che ne' sogni miei;
che ovanque tu non sei
ti pinge il mio pensier.
Tu, se con te m'aggiro,
tu, se ti lascio mai,
tu delirar mi fai
di pena o di piacer.

Di te s'io non ragiono,
infastidir mi sento,
di nulla mi rammento,
tutto mi fa sdegnar.
A nominarti io sono
sì avvezzo a chi m'appresso,
che al mio rivale istesso
soglio di te parlar.

Da un sol tuo sguardo altero,
da un sol tuo detto umano
io ml difendo in vano,
sia sprezzo o sia favor.
Fuor che il tuo dolce impero,
altro destin non hanno,
che secondar non sanno
i moti del mio cor.

Ogni piacer mi spiace
se grato a te non sono;
cio, che non è tuo dono,
contento mio non è.
Tutto con te mi piace,
sia colle, o selva, o prato;
tutto è soggiorno ingrato
lungi, ben mio, da te.

Or parlerò sincero:
non sol mi sembri bella,
non sol mi sembri quella,
che paragon non ha;
ma spesso, ingiusto al vero,
condanno ogni altro aspetto;
tutto mi par difetto,
fuor che la tua beltà.

Lo stral già non spezzai;
che in van per mio rossore
trarlo tentai dal core,
e ne credei morir.
Ah, per uscir di guai,
più me ne vidi oppresso;
ah di tentar l'istesso
più non potrei soffrir.

Nel visco, in cui s'avvenne
quell'augellin talora,
scuote le penne ancora
cercando libertà;
ma in agitar le penne
gl'impacci suoi rinnova;
piu di fuggir fa prova,
più prigionier si fa.

No, ch'io non bramo estinto
il caro incendio antico;
quanto piu spesso il dico,
meno bramar lo so.
Sal che un loquace istinto
gli amanti al detti sprona;
ma, fin che si ragiona,
la fiamma non passò.

Biasma nel rio cimento
di Marte ognor gli sdegni,
e ognor di Marte ai segni
torna il guerrier così.
Torna così contento
schiavo, che uscì di pena,
per uso alla catena,
che detestava un dì.

Parlo, ma ognor parlando
di te parlar procuro;
ma nuovo amor non curo,
non so cambiar di fé:
parlo, ma poi dimando
pietà dei detti miei;
parlo, ma sol tu sei
l'arbitra ognor di me.

Un cor non incostante,
un reo così sincero
ah l'amor tuo primiero
ritorni a consolar.
Nel suo pentito amante
almen la bella Nice
un'alma ingannatrice
sa che non può trovar.

Se mi dai di pace un pegno,
se mi rendi, o Nice, il cor,
quanto già cantai di sdegno,
ricantar vogl'io d'amor.


LA PARTENZA
Composta dall'autore in Vienna l'anno 1746.

Ecco quel fiero istante;
Nice, mia Nice, addio.
Come vivrò, ben mio,
così lontan da te ?
Io vivrò sempre in pene,
io non avrò più bene;
e tu, chi sa se mai
ti sovverrai di me!

Soffri che in traccia almeno
di mia perduta pace
venga il pensier seguace
su l'orme del tuo piè.
Sempre nel tuo cammino,
sempre m'avrai vicino;
e tu, chi sa se mai
ti sovverrai di me!

Io fra remote sponde
mesto volgendo i passi,
andrò chiedendo al sassi,
la ninfa mia dov'è?
Dall'una all'altra aurora
te andrò chiamando ognora,
e tu, chi sa se mai
ti sovverrai di me!

Io rivedrò sovente
le amene piagge, o Nice,
dove vivea felice,
quando vivea con te.
A me saran tormento
cento memorie e cento;
e tu, chi sa se mai
ti sovverrai di me!

Ecco, dirò, quel fonte,
dove avvampò di sdegno,
ma poi di pace in pegno
la bella man mi diè.
Qui si vivea di speme;
là si languiva insieme;
e tu, chi sa se mai
ti sovverrai di me!

Quanti vedrai giangendo
al nuovo tuo soggiorno,
quanti venirti intorno
a offrirti amore e fé!
Oh Dio! chi sa fra tanti
teneri omaggi e pianti,
oh Dio! chi sa se mai
ti sowerrai di me!

Pensa qual dolce strale,
cara, mi lasci in seno:
pensa che amò Fileno
senza sperar mercé:
pensa, mia vita, a questo
barbaro addio funesto;
pensa . . . Ah chi sa se mai
ti sovverrai di me!


Questa canzonetta ( strofe di due quartine di settenari piani e tronchi; i primi versi di ogni quartina e i due tronchi rimano fra loro, il secondo e il terzo sono a rima baciata) celebrata dai contemporanei (era cantata dal popolo durante i moti napoletani del 1820) fu tradotta in varie lingue e musicata da diversi autori, fra cui il poeta stesso (cfr. A. BONAVENTURA, Pietro Metastasio musicista, in "Musica d'oggi", gennaio, 1932, e nella "Rivista musicale italiana", XX, 1913, p. 216, il testo della musica del Metastasio fu pubblicato da L. Frati), Giovanni Paisiello e Carlo Broschi detto Farinello).











Come le due canzonette precedenti anche questa (a strofe di due quartine di tre settenari piani e uno tronco ciascuna; il primo verso libero, il secondo e il terzo, il quinto e il sesto con rima baciata: i due tronchi rimano tra loro mentre il settimo e l'ottavo risultano ripetuti al termine dt ogni strofa successiva con minime varianti solo ai versi 47 e 55) venne musicata dal poeta, da Angelo Maiorana detto Caffarelli, e da Beethoven per le prime due strofe. Con una lettera del 28 gennaio 1750, il Metastasio accompagnò l'invio di questa canzonetta a Carlo Broschi detto il Farinello.











A CARLO BROSCHI DETTO FARINELLO - MADRID
E' in data del 2 di luglio l'ultima amabilisslma vostra lettera. brevissima a rispetto della sete inestinguibile che mi trovo di cicalar con esso voi, nella maniera almeno da così enorme separazione messa; ma lunga per altro abbastanza per servirmi d'argomento e a parte che mi concedete ancora nel vostro cuore, senza qual circostanza non avreste certamente potuto sacrificar tanto tempo e tanto lavoro. La convenienza, la civiltà, la gentilezza e tutti gli altri comuni legami della società civile non sogliono ispirar tanta pazienza. Una pruova sì convincente della tenera vostra amicizia, aggiunta alle antiche testimonianze ed alle nuove proteste, mi rende così sicuro dell'amor vostro, che di tutt'altro più tosto che di questo dubiterei. Questo basterebbe per obbligarmi ad amarvi: voi sapete per molte esperienze
che amore a nullo amato amar perdona.
Ora accumulate a così efficace motivo il merito vostro che vi ha reso tanto amabile quanto singolare, la confidenza con la quale parlate de' vostri affari, la cordialità con la quale vi offerite a raddrizzare i miei, la tenera premura che mostrate della mia salute, l'istruzione ed i mezzi che me ne somministrate, la somiglianza de' malanni, la protezione che mi procurate di coteste illustri ninfe, il generoso pensiero che vi prendete e del mio palato e quasi del mio naso; sommate tutto insieme, e poi ditemi se si trova aritmetico che sappia numerarne il prodotto. Io non so esprimermi meglio che dicendovi che v'amo quanto merita d'essere amato Farinello. Ma spendiamo queste tenerezze, aflinché qualche maligno non ci appiccichi un'impostura di quelle che servono a consolar 1'invidia intollerante dell'onesta, tenera, vera e disinteressata amicizia.
Non può essere né più viva né più lepida né più minuta la descrizione che mi fate e della vostra infermità e della cavata di sangue e del chirurgo francese e del fisico lombardo. Io ho dovuto rider più volte del sale comico col quale avete saputo condire un racconto per altro così tragico. Desidero che i voti di tutte le persone delicate e colte d'Europa siano esauditi, e che possiate voi trionfar di tutti i vostri ipocondriaci cancherini interamente debellati. Datemi il buon esempio, come mi avete dato il cattivo; ed io procurerò d imitarvi.
La vostra musica per la mia Nice è degna di voi. Comincia il suo merito dalla scelta dell'affettuoso tuono di fa-ut, e cresce con naturalezza che conviene a questa specie di componimento. Io vi cedo senza repugnanza, anzi son superbo d'esser superato da voi. Ed a chi mai può far vergogna d'esser superato in musica dal mio incomparabile Farinello ? Non mi hanno incantato meno le due musiche della picciola dedica Se mi dai ecc. Ma nell'ultima particolarmente di queste vi siete dimenticato un poco che la natura non è prodiga di Farinelli, e che l'esecuzione di questa musica per esser perfetta abbisogna dell'eccellenza dell'autore. Benché io non sia musico se non quanto basta ad un poeta, comprendo la vostra intenzione e mi battezzo per secondarla; ma spiritus promptus es, caro autem infirma. Intendiamoci bene: lo parlo della mia voce, non prendete qualche equivoco ingiurioso al mio credito.
Oh caro Farinello, quale agitazione, qual tumulto, qual tempesta mi avete risvegliata nell'animo confidandomi le tanto grandi quanto poco meritate fortune della mia Nice! Voi che conoscete la vanità de' poeti non mi tacete alcuna circostanza di quelle che possono farla crescere sino al sommo della sua elevazione. Non vi contentate di assicurarmi che la mia Nice si canta sovente su le sponde del real Manzanare: mi fate intender DA CHI, e come, ed in qual sublime recesso, e fra quale illustre e felice compagnia. Né siete contento di questo: mi fate una rispettosa sì ma esattissima enumerazione delle veramente più che umane qualita di quella deità che rende felice cotesto clima con la sua presenza, e tanti, tanti altri, con gl'influssi suoi. In somma m'accorgo benissimo del vostro maligno piacere nel considerarmi agitato fra la superbia e la confusione, fra la compiacenza e l'invidia. Oh fortunata mia Nice! Chi avrebbe mai preveduto ch'io dovessi invidiarti? Con quanta venerazione dovrò riguardarti in avvenire!
Voi mi credete in gran pericolo per avervi io preferito ad una tranquillissima beltà teutonica. Oh quanto v'ingannate! Qui gli odii e gli amori non tolgono mai il sonno: qui l'anima s'impaccia pochissimo degli affari del corpo: la sera siete il favorito, la mattina l'incognito. Le premure, le agitazioni, le sollecitudini, le picciole guerre, le frequenti paci, le gratitudini, le vendette, il parlar degli occhi, l'eloquenza del silenzio, in somma tutto ciò che può dar di piacevole o di tormentoso il commercio delicato delle anime, è paese non conosciuto se non che come ridicolo ornamento de' romanzi. E' cosa incredibile a qual segno arrivi l'indolenza di queste placidissime ninfe. Io dispererei di trovarvi una sola capace di trascurare un giuoco di piquet ["picchetto": gioco di carte] per la perdita o per la morte d'un carissimo amante; ve ne troverei ben quante mai ne volessi di quelle che non interromperanno l'insipido lavoro de' lor nodetti fra gli eccessi dell'estro più misteriso. E voi temete per me? Tranquillatevi pure. Non si corre questo rischio. Assicuratene pur francamente cotesta degnissima dama che, senza averlo io meritato, prende generosamente interesse nel mio supposto pericolo. Esprimete voi alla medesima gli ossequiosi miei e grati sentimenti per il patrocinio di cui onoraì gli scritti miei. Ditegli che il nobil ritratto che voi vi siete compiaciuto di farmene mi ha reso più sensibile al freddo del settentrione dove non germogliano di tali piante. Voi in somma siete nato a luna crescente, tutto vi va a seconda. Bisogna esser Farinello, amico e gemello, per evitar l'invidia mia; che per altro, s'io mi addormentassi un poco a queste descrizioni, prenderebbe troppo vigore.
Dalla franchezza, che non avrei usata se non con voi, potrete b conoscere se io sia stato capace di credervi il mio volontario rivale nella percettoria di Cosenza [al Metastasio assegnata nel 1733 dall'imperatore]. La notizia che l'avesse ottenuta il vostro fratello non era né da me cercata né sicura; e quando lo fosse stata, a tutto ne avrei attribuita la colpa fuori che al mio Farlnello; che troppo teneramente mi ama e troppo nobilmente pensa. Ve ne ho parlato perche si parla facilmente di quel che duole. E come volete, caro amico, che non mi dolga di vedermi spogliar, così senza delitto, di tutto il frutto de' poveri miei sudori, di tutte le speranze ed i sostegni della vecchiezza ? Volete conoscere quanto io sia sfortunato? Sentite, e compiangetemi. Carlo VI, in premio delle mie lunghe fatiche ed in supplemento di soldo non pagato, mi concede mille scudi in Sicilia da situarsi sopra vescovati o beneficii di quel regno. Divengono immortali tutti i vescovi, abbati e beneficlati; si perde il regno prima che si sia potuto situare un quattrino. Vaca la percettoria di Cosenza nel regno di Napoli, e memore l'augusto mio padrone de' crediti miei me la destina: entro in possesso, spendo DEL MIO per le spedizioni ottocento e più ducati, e prima ch'io cominci a riscuotere il primo semestre entrano le armi spagnole` ed io rimango con le carte in mano da farne vesti di camera ai pani di zucchero.
La presente mia clementissima sovrana [Maria Teresa d'Austria] obbligata dalle circostanze de' tempi, diminuisce i soldi; e per dare a me un compenso di tal diminuizione, come per consolarmi in parte degli antichi miei danni, mi assegna mllle e cinquecento fiorini (e non un canonicato) in Milano. Corre il quinto anno che la grazia è fatta, ma colà non seguita dove bisogna, per mille arzigogoli ch'io medesimo non intendo ma provo. Or che vi pare ? Non è lagrimevole il caso mio? E pure è tale. Dopo diciasette anni di servizio, non già per colpa de' miei padroni ma della mia nemica fortuna, io sono in peggiore stato di quando ho lasciata la patria mia. Da questo fedele e patetico racconto argomentate quanta confidenza abbia io con voi: confidenza che vi deggio in contraccambio della vostra. Chi può rendervi mai grazie abbastanza della affettuosa e sincera prontezza con la quale vi offerite a procurar di condurre a buon porto questo mio sventurato affare ? Io riconosco in questi moti non ordinari della vostra amicizia il cuore di Farinello; e son superbo di non essermi ingannato quando mille volte ho detto che tutto è armonico in voi e tutto al medesimo grado d'eccellenza.
Io vi son già così tenuto della vostra sincera premura come se avessse conseguito il suo effetto, poiché le ragioni d'esservi obbligato dipendono da quella e non da questo. Per darvi in mano qualche scrittura autentica vi accludo un solenne certificato della Segretaria di questo supremo Consiglio d'Italia, così della concessione della nota Precettoria come del dispaccio con cui fu notificata allora a Napoli la mercede. Il mio possesso in Napoli si proverà subito che voi me lo accenniate. Io destinerò persona nella bella Partenope che assisterà dove ed a chi crederete opportuno, quando ne avrò da voi l'avvertimento. Oh se potesse riuscirvi di render nota all'augusta vostra sovrana [Maria Barbara di Braganza (1711-1758) sposa del re di Spagna Ferdinando VI] la lagrimevole istoria mia! piena, come il mondo la predica e voi me la descrivete, di clemenza, di generosità e di giustizia, è impossibile che non inclinasse l'animo a consolarmi. Per me, io conterei come affatto nuova la grazia, qualificata da così grande benefattrice. Caderebbero le sue grazie in persona, se non meritevole, cognita almeno, onde non resterebbe certamente occulto questo benefico atto del reale animo suo, da servir per esempio agli altri suoi pari e di consolazlone agli oppressi. E se la voce d'una povera cicala di Parnaso, qual io mi sono, potrà giungere sino all'orecchie de' posteri ancora qual pietosa e potente mano ha saputo sostenermi e proteggermi a dispetto di tutti gli sforzi dell'iniqua e capricciosa fortuna.
E non vi bastano, caro gemello, tante e tante testimonze che voi mi date dell'amor vostro? Credete necessari anche i doni per rendermene più sicuro! Vainilla, chinchina, estratti amaricanti, pensieri di tabacco . . . Ma questo è volermi sopraffare in guisa che non mi rimanga speranza di mai più potervi contraccambiare. Intanto comincio ad esser grato con la confessione del debito e coi voti di facoltà per pagarlo.
La Corte è in un feudo dell'imperatore in Ungheria, e per conseguenza anche madama Fuchs, [governante di Maria Teresa e delle arciduchesse] ed io non la vedrò così presto, perché sono già con gli stivali per trasportarmi in Moravia, dove resterò a godere l'aria autunnale della campagna sino a tutto il venturo ottobre insieme con la nostra degnissima signora contessa d'Althann, parte per consiglio de' medici e parte per l'allettamento di così nobil compagnia . Onde le vostre commissioni fuchsiane non potranno eseguirsi che al ritorno. Ho ben subito eseguite quelle che mi avete date per la signora contessa d'Althann suddetta; e le ho eseguite nella camera del giardino nostra favorita, ed in mezzo ad una numerosa assemblea, e facendo pompa della vostra brevissima lettera. Non so dirvi a qual segno abbia gradito questa dama la vostra cortese memoria, con quali parziali espressioni mi abbia ordinato d'assicurarvene, e con qual premura abbia voluto esser minutamente e replicatamente informata e della vostra salute e delle presenti vostre circostanze, interessandosi per quella ed esultando di queste. Tutto i1 rimanente poi della compagnia mi è caduto addosso, e ho dovuto ricantar la canzone medesima poco meno di quelle che ne' reali recessi avete per tanti anni ricantate. Vi avrebbe per altro fatto piacere, come lo ha fatto a me grandissimo, il veder qual memoria viva ancora dopo sì lungo tempo di voi in un clima dominato dall'oblivione.
Dunque volete assolutamente il mio ritratto? Oh che dolori! La pazienza di servir di modello all'indiscretezza di un pittore è per me la virtù più difficile a conseguire: fin ora non vi sono altri ritratti miei che quelle satire furtive che hanno applicate gli stampatori in fronte de' libri miei; e mi muovono la bile ogni volta che me ne capita involontariamente alcuno sotto gli occhi. Ma chi può resistere alle istanze dell'amato gemello? A1 ritorno dalla campagna prenderò per penitenza dei miei peccati l'esecuzione di cotesta vostra voglia di gravida, affinché non facciate qualche aborto. Non vi meravigliate per altro se avrò su la tela fisonomia ipocondriaca perché difficilmente farò faccia ridente al pittore; se pure non mi riesce di persuader qualche driade o napea [ninfe dei boschi, o più semplicemente "qualche bella donna"] a voler assistere all'operazione ed andarmene raddolcendo l'amaro.
Con tutte le diligenze fatte sino a' confini dell'impertinenza, non mi è riuscito di avere in tempo il certificato autentico, che di sopra vi ho accennato, da questa segreteria del Consiglio d'Italia. Onde parper la campagna lascio ordine che subito che si abbia vi sia trasmesso per la strada medesima per la quale la presente lettera lo precede.
Ho fatto copiare un paio di cantatine, già da me scritte per la Corte e non ancora molto comuni. Ve le accludo, ma non già per voi. Intendo che ne facciate un tributo a cotesta illustre protettrice delle Muse italiane, signora contessa di Belalcazar. Se poi vorrete voi illuminarle con le vostre note e con la vostra maestra voce, il tributo m'assicuro che meriterà la superiore approvazione di una dama di così delicato discernimento.
Finisco perché deggio partire, e non dipende da me il differirne il momento. Addio, caro gemello. Amatemi quanto io vi amo, ché appagherete l'infinita avidità ch'io mi sento dell'amor vostro e renderetegiustizia alla tenera sollecitudine con la quale io sono e sarò sempre.


A DANIELE SCHIEBELER · LIPSIA
Vienna 7 maggio 1767
Gratissimo dell'affettuosa cura di V. S. illustrissima di provvedermi} dell edizione delle vezzose sue italiane poesie, che ho lette ed altre rilette, tutte con nuovo piacere: me ne congratulo sinceramente seco, e l'esorto che, fatto seguace di Temide (come ella mi afferma), non contragga perciò un'ingrata inimicizia con Erato ed Euterpe, sue dichiarate fautrici. Temide le farà raccogliere più solidi frutti de' suoi letterati sudori, e raddolciranno le altre di tratto in tratto il severo e faticoso tenore di vita che prescrive la prima ai suoi favoriti seguaci. Con questa prudente alternativa godrà ella le beneficenze dell'una e l'amabile consuetudine delle altre: purché sappia resistere alle dolci lusinghe di queste care seduttrici, ch dividono difficilmente le loro conquiste con qualunque altra rivale.
Ella vorrebbe da me alcuni drammi senza arie, ed io per toglierle questo desiderio dovrei spiegarle il sistema teatrale che dalla lettura degli antichi e dalla lunga esperienza ho creduto dovermi formare in mente, ma questo è lavoro al presente troppo lungo per me. Le dirò solo succintamente ch'io non conosco poesia senza musica; che le nostre arie non sono inventate da noi; che i Greci cambiavano anch'essi di tratto in tratto la misura de' versi e mescolavano le strofe, le antistrofe e gli epodi; che a seconda delle passioni davano occasione quella musica periodica che distingue le arie dal resto: onde si sono sempre distinti i cantici da' diverbi, come si distinguono le arie de' recitativi. E' vero che i nostri compositori di musica si scordano oggidì molto spesso che gli attori sono uomini e non violini, onde fanno nascere una troppo disforme distanza fra il tenore de' recitativi e delle arie. Ma non credo che debbasi riformare la maniera di scrivere in grazia d'un abuso che a lungo andare dovrà senza fallo essere riformato dalla natura: la quale expellas furca tamen usque recurrit. Farò consegnare alla persona che mi ha recata la sua lettera (ma che non ho ancora veduta) un mio componimento intitolato I voti pubblici [consolatoria a Maria Teresa imperatrice d'Austria per la scomparsa, il 18-VIII-1765, dello sposo Francesco I] con la sua traduzione tedesca molto lodata dagli intelligenti, perché la faccia pervenire alle di lei mani. Mi conservi intanto il suo affetto, sicuro d'un giusto contraccambio, e mi creda.











Daniele Schiebeler (1741-1771) uomo di legge e poeta, continuatore della tradizione poetico-musicale di Amburgo, città ove ebbe i natali,, compose romanze burlesche (Romanzen mit Melodien, 1766) e opere buffe. Si propose di di imitare il Metastasio, cui aveva dedicato una raccolta canzonette, con il melodramma Scipio, ein dramatisches Singegedicht (1766).
















CANTATE DI PIETRO METASTASIO
-LA TEMPESTA
-LA GELOSIA
-LA PESCA
-IL SOGNO
-IL NOME











LA TEMPESTA
No, non turbarti, o Nice; io non ritorno
a parlarti d'amor. So che ti spiace;
basta così. Vedi che il ciel minaccia
improvvisa tempesta: alle capanne
se vuoi ridurre il gregge, io vengo solo
ad offrir l'opra mia. Che! Non paventi?
Osserva che a momenti
tutto s'oscura il ciel, che il vento in giro
la polve innalza e le cadute foglie.
Al fremer della selva, al volo incerto
degli augelli smarriti, a queste rare,
che ci cadon sul volto, umide stille,
Nice, io preveggo... Ah non tel dissi, O Nice?
ecco il lampo, ecco il tuono. Or che farai?
Vieni, senti; ove vai? Non è più tempo
di pensare alla greggia. In questo speco
riparati frattanto; io sarò teco.
Ma tu tremi, o mio tesoro!
Ma tu palpiti, cor mio!
Non temer; con te son io,
né d'amor ti parlerò.
Mentre folgori e baleni,
sarò teco, amata Nice;
quando il ciel si rassereni,
Nice ingrata, io partirò.
Siedi, sicura sei. Nel sen di questa
concava rupe in fin ad or giammai
fulmine non percosse,
lampo non penetrò. L'adombra intorno
folta selva d'allori
che prescrive del Ciel limiti all'ira.
Siedi, bell'idol mio, siedi e respira.
Ma tu pure al mio fianco timorosa ti stringi, e, come io voglia
fuggir da te, per trattenermi annodi
fra le tue la mia man? Rovini il cielo,
non dubitar, non partirò. Bramai
sempre un sì dolce istante. Ah così fosse
frutto dell'amor tuo, non del timore!
Ah lascia, o Nice, ah lascia
lusingarmene almen. Chi sa? Mi amasti
sempre forse fin or. Fu il tuo rigore
modestia, e non disprezzo; e forse questo
eccessivo spavento
è pretesto all'amor. Parla, che dici?
M'appongo al ver? Tu non rispondi? Abbassi
vergognosa lo sguardo!
Arrossisci? Sorridi? Intendo, intendo.
Non parlar, mia speranza;
quel riso, quel rossor dice abbastanza.
E pur fra le tempeste
la calma ritrovai.
Ah non ritorni mai,
mai più sereno il dì!
Questo de' giorni miei,
questo è il più chiaro giorno
Viver così vorrei,
vorrei morir così.


LA GELOSIA
Perdono, amata Nice,
bella Nice, perdono. A torto, è vero,
dissi che infida sei:
detesto i miei sospetti, i dubbi miei.
Mai più della tua fede,
mai più non temerò. Per que' bei labbri
lo giuro, o mio tesoro,
in cui del mio destin le leggi adoro.
Bei labbri, che Amore
formò per suo nido,
non ho più timore,
vi credo, mi fido:
giuraste d'amarmi;
mi basta così.
Se torno a lagnarmi
che Nice m'offenda,
per me più non splenda
la luce del dì.
Son reo, non mi difendo:
puniscimi, se vuoi. Pur qualche scusa
merita il mio timor. Tirsi t'adora;
io lo so, tu lo sai. Seco in disparte
ragionando ti trovo: al venir mio
tu vermiglia diventi,
ei pallido si fa; confusi entrambi
mendicate gli accenti; egli furtivo
ti guarda, e tu sorridi... Ah quel sorriso,
quel rossore improvviso
so che vuol dir! La prima volta appunto
ch'io d'amor ti parlai, così arrossisti
sorridesti così, Nice crudele.
Ed io mi lagno a torto?
E tu non mi tradisci? Infida! ingrata!
barbara!... Aimè! Giurai fidarmi, ed ecco
ritorno a dubitar. Pietà, mio bene,
son folle: in van giurai; ma pensa al fine
che amor mi rende insano
che il primo non son io che giuri in vano.
Giura il nocchier, che al mare
non presterà più fede,
ma, se tranquillo il vede,
corre di nuovo al mar.
Di non trattar più l'armi
giura il guerrier tal volta,
ma, se una tromba ascolta
già non si sa frenar.


LA PESCA
Già la notte s'avvicina:
vieni, o Nice, amato bene,
della placida marina
le fresch'aure a respirar.
Non sa dir che sia diletto
chi non posa in queste arene
or che un lento zefiretto
dolcemente increspa il mar.
Lascia una volta, o Nice,
lascia le tue capanne. Unico albergo
non è già del piacere
la selvaggia dimora;
hanno quest'onde i lor diletti ancora.
Qui, se spiega la notte il fosco velo,
nel mare emulo al cielo
più lucide, più belle
moltiplicar le stelle,
e per l'onda vedrai gelida e bruna
rompere i raggi e scintillar la luna.
Il giorno al suon d'una ritorta conca,
che nulla cede alle incerate avene,
se non vuoi le mie pene,
di Teti e Galatea, di Glauce e Dori
ti canterò gli amori.
Tu dal mar scorgerai sul vicin prato
pascer le molli erbette
e le tue care agnellette,
non offese dal sol fra ramo e ramo:
e con la canna e l'amo
i pesci intanto insidiar potrai;
e sarà la mia Nice
pastorella in un punto e pescatrice.
Non più fra' sassi algosi
staranno i pesci ascosi;
tutti per l'onda amara,
tutti verranno a gara
fra' lacci del mio ben
E l'umidette figlie
de' tremuli cristalli
di pallide conchiglie,
di lucidi coralli
le colmeranno il sen.

IL SOGNO
Pur nel sonno almen talora
vien colei, che m'innamora,
le mie pene a consolar.
Rendi Amor, se giusto sei,
più veraci i sogni miei,
o non farmi risvegliar.
Di solitaria fonte
sul margo assiso al primo albore, o Fille,
sognai d'esser con te. Sognai, ma in guisa
che sognar non credei. Garrir gli augelli,
frangersi l'acque e susurrar le foglie
pareami udir. De' tuoi begli occhi al lume,
come suol per costume,
fra' suoi palpiti usati era il cor mio.
Sol nel vederti, oh Dio!
pietosa a me, qual non ti vidi mai,
di sognar qualche volta io dubitai.
Quai voci udii! Che dolci nomi ottenni,
cara, da' labbri tuoi! Quali in quei molli
tremuli rai teneri sensi io lessi!
Ah se mirar potessi
quanto splendan più belle
fra i lampi di pietà le tue pupille,
mai più crudel non mi saresti, o Fille.
Qual io divenni allora,
quel che allora io pensai, ciò che allor dissi,
ridir non so. So che sul vivo latte
della tua mano io mille baci impressi;
tu d'un vago rossor tingesti il volto.
Quando improvviso ascolto
d'un cespuglio vicin scuoter le fronde:
mi volgo, e mezzo ascoso
scopro il rival Fileno,
che d'invido veleno
livido in faccia i furti miei rimira.
Fra la sorpresa e l'ira
avvampai, mi riscossi in un momento,
e fu breve anche in sogno il mio contento.
Partì con l'ombra, è ver,
l'inganno ed il piacer;
ma la mia fiamma, oh Dio!
idolo del cor mio,
con l'ombra non partì.
Se mai per un momento
sognando io son felice,
poi cresce il mio tormento,
quando ritorna il dì.

IL NOME
Scrivo in te l'amato nome
di colei, per cui mi moro,
caro al Sol, felice alloro,
come Amor l'impresse in me.
Qual tu serbi ogni tua fronda
serbi Clori a me costanza:
ma non sia la mia speranza
infeconda al par di te.
Or, pianta avventur
osa,
or sì potrai fastosa l'aria ingombrar con le novelle chiome;
or crescerà col tronco il dolce nome.
Te delle chiare linfe
le abitatrici ninfe;
te dell'erte pendici
le ninfe abitatrici e gli altri tutti
agresti numi al rinnovar dell'anno
con lieta danza ad onorar verranno.
Del popolo frondoso
a te sommessi or cederan l'impero
non sol gli elci, gli abeti,
le roveri nodose, i pini audaci,
ma le palme idumee, le querce alpine. Io d'altra fronda il crine
non cingerò; non canterò che assiso
all'ombra tua: dell'amor mio gli arcani
solo a te fiderò; tu sola i doni,
tu l'ire del mio bene,
tu saprai le mie gioie e le mie pene.
Per te d'amico aprile
sempre s'adorni il ciel;
né all'ombra tua gentile
posi ninfa crudel,
pastore infido.
Fra le tue verdi foglie
augel di nere spoglie mai non raccolga il vol;
e Filomena sol
vi faccia il nido.











STROFE PER MUSICA A CANONE DI PIETRO METASTASIO

Ti sento, sospiri,
ti lagni d'Amore:
ma soffri, mio core,
ma impara a tacer;
che cento martìri
compensa un piacer.


Che cangi tempre
mai più non spero
quel cor macchiato
d'infedeltà.
Io dirò sempre
nel mio pensiero:
chi m'ha ingannato
m'ingannerà.


So che vanti un core ingrato:
più non spero innamorarti,
né ti posso abbandonar.
Questo, o Nice, è il nostro fato:
io son nato per amarti,
tu per farmi sospirar.


Nel mirarvi, o boschi amici,
sento il cor languirmi in sen.
Mi rammento i dì felici,
mi ricordo del mio ben.


Sei tradito, e pur, mio core,
nel tuo caso ancor che fiero,
non sei degno di pietà.
Non di Nice, è tuo l'errore,
che da un sesso menzognero
pretendesti fedeltà.


Sempre sarò costante,
sempre t'adorerò.
Benché spietata,
mio ben ti chiamerò:
e sfortunato ancor,
ma fido amante,
sempre sarò costante,
sempre t'adorerò.

Perché, se mia tu sei,
perché, se tuo son io,
perché temer, ben mio,
ch'io manchi mai di fé?
Per chi cangiar potrei,
per chi cangiar desio,
mio ben, se tuo son io,
se il cor più mio non è?











GENERE MELODRAMMATICO: LE ARIE

LE ARIE DEL METASTASIO

1
Non so dir se sono amante;
ma so ben che al tuo sembiante
tutto ardore pena il core,
e gli è caro il suo penar.
Sul tuo volto, s'io ti miro,
fugge l'alma in un sospiro,
e poi riede nel mio petto
per tornare a sospirar.
[da Endimione, parte I, azione teatrale, scritta a Napoli nel 1720 e ivi rappresentata nel 1721]

2
Semplice fanciulletto
se al tenero augelletto
rallenta il laccio un poco,
il fa volar per gioco,
ma non gli scioglie il piè.
Quel fanciullin tu sei,
quell'augellin son io;
il laccio è l'amor mio,
che mi congiunge a te.
[da Endimione, parte I, azione teatrale, scritta a Napoli nel 1720 e ivi rappresentata nel 1721]

3
Così non torna fido
quell'augelletto al nido
la pargoletta prole
col cibo a ravvivar;
come ritorna spesso
fedele il mio bel Sole
del cor, che langue oppresso,
la pena a consolar.
[da Gli orti esperidi, parte I, azione teatrale, rappresentata a Napoli nel 1721]

4
Per esca fallace
di un labbro mendace
vantate nel core
l'amore e la fé.
Ridendo piangete,
piangendo ridete;
e già su quel viso
il pianto ed il riso
d'amore o di sdegno
più segno non è.
[da Gli orti esperidi, parte II, azione teatrale, rappresentata a Napoli nel 1721]

5
LICORI
Ombre amene, amiche piante
il mio bene, il caro amante,
chi mi dice ove n'andò?
Zeffiretto lusinghiero,
a lui vola messaggiero;
dì che torni, e che mi renda
quella pace, che non ho.
TIRSI
La mia bella pastorella,
chi mi dice ove n'andò?
[da Angelica, serenata, parte I, azione teatrale, rappresentata a Napoli nel 1722]

6
Io dico all'antro, addio;
ma quello al pianto mio
sento che mormorando,
addio, risponde.
Sospiro, e i miei sospiri
ne' replicati giri
Zeffiro rende a me
da quelle fronde.
[da Angelica, serenata, parte II, azione teatrale, rappresentata a Napoli nel 1722]

7
Alla stagion novella
fin dall'opposto lido
torna la rondinella
a riveder quel nido,
che il verno abbandonò.
Così il mio cor fedele,
nel suo penar costante,
ritorna al bel sembiante,
che per timor lasciò.
[da Galatea, parte I, azione teatrale, composta a Napoli nel 1722]

8
L'onda, che mormora
tra sponda e sponda,
l'aura, che tremola
tra fronda e fronda,
è meno instabile
del vostro cor.
Pur l'alme semplici
de' folli amanti
sol per voi spargono
sospiri e pianti,
e da voi sperano
fede in amor.
[da Siroe, atto I, scena IX, dramma composto nel 1726]

9
Vedeste mai sul prato
cader la pioggia estiva?
Talor la rosa avviva
alla viola appresso:
figlio del prato istesso
è l'uno e l'altro fiore;
ed è l'istesso umore,
che germogliar li fa.
Il cor non è cangiato,
se accusa o se difende.
Una cagion m'accende
di sdegno e di pietà.
[da Siroe, atto I, scena XV, dramma composto nel 1726]

10
Fra l'orror della tempesta,
che alle stelle il volto imbruna,
qualche raggio di fortuna
già comincia a scintillar.
Dopo sorte sì funesta
sarà placida quest'alma,
e godrà tornata in calma
i perigli rammentar.
[da Siroe, atto I, scena XVII, dramma composto nel 1726]

11
I suoi nemici affetti
di sdegno e di timor
il placido pensier
più non rammenti.
Se nascono i diletti
dal grembo del dolor,
oggetto di piacer
sono i tormenti.
[da Siroe, atto III, scena ultima, coro, dramma composto nel 1726]

12
Piangendo ancora
rinascer suole
la bella Aurora
nunzia del Sole, e pur conduce
sereno il dì.
Tal fra le lagrime
fatta serena,
può da quest'anima
fugar la pena
la cara luce
che m'invaghì.
[da Catone in Utica, atto I, scena VII, dramma rappresentato alla prima in Roma nel 1728]

13
È in ogni core
diverso amore.
Chi pena ed ama
senza speranza;
dell'incostanza
chi si compiace:
questo vuol guerra,
quello vuol pace;
v'è fin chi brama la crudeltà.
Fra questi miseri
se vivo anch'io,
ah non deridere
l'affanno mio,
che forse merito
la tua pietà!
[da Catone in Utica, atto I, scena XIII, dramma rappresentato alla prima in Roma nel 1728]

14
È follia se nascondete,
fidi amanti, il vostro foco:
a scoprir quel che tacete
un pallor basta improvviso,
un rossor che accenda il viso,
uno sguardo ed un sospir.
E se basta così poco
a scoprir quel che si tace,
perché perder la sua pace
con ascondere il martìr?
[da Catone in Utica, atto I, scena XV, dramma rappresentato alla prima in Roma nel 1728]

15
Rondinella, a cui rapita
fu la dolce sua compagna,
vola incerta, va smarrita
dalla selva alla campagna,
e si lagna, intorno al nido,
dell'infido cacciator.
Chiare fonti, apriche rive
più non cerca, al dì s'invola,
sempre sola, e finché vive
si rammenta il primo amor.
[da Semiramide, atto I, scena XV (poi soppressa): dramma rappresentato alla prima in Roma nel 1729]

16
Se intende sì poco
che ho l'alma piagata,
tu dille il mio foco,
tu parla per me.
(Sospira l'ingrata, contenta non è).
Sai pur che l'adoro,
che peno, che moro,
che tutta si fida
quest'alma di te.
(Si turba l'infida,
contenta non è).
[da Semiramide, atto I, scena X: dramma rappresentato alla prima in Roma nel 1729]

17
Ei d'amor quasi delira,
e il tuo labbro lo condanna?
Ei mi guarda, e poi sospira,
e tu vuoi che sia crudel?
Ma sia fido, ingrato sia,
so che piace all'alma mia;
e, se piace allor che inganna,
che sarà quando è fedel?
[da Semiramide, atto I, scena XI: dramma rappresentato alla prima in Roma nel 1729]

18
Il pastor, se torna Aprile,
non rammenta i giorni algenti;
dall'ovile all'ombre usate
riconduce i bianchi armenti e
le avene abbandonate
fa di nuovo risonar.
Il nocchier, placato il vento,
più non teme o si scolora;
ma contento in su la prora
va cantando in faccia al mar.
[da Semiramide, atto II, scena VI: dramma rappresentato alla prima in Roma nel 1729]

19
D'un genio, che m'accende,
tu vuoi ragion da me?
Non ha ragione amore,
o, se ragione intende,
subito amor non è.
Un amoroso foco
non può spiegarsi mai:
dì che lo sente poco
chi ne ragiona assai,
chi ti sa dir perché.
[da Semiramide, atto III, scena VII: dramma rappresentato alla prima in Roma nel 1729]

20
Sentirsi dire
dal caro bene:
Ho cinto il core d'altre catene,
quest'è un martìre,
quest'è un dolore,
che un'alma fida
soffrir non può.
Se la mia fede
così l'affanna,
perché tiranna
m'innamorò?
[da Semiramide, atto III, scena VIII: dramma rappresentato alla prima in Roma nel 1729]

21
Son confusa pastorella,
che nel bosco a notte oscura
senza face e senza stella,
infelice si smarrì.
Mal sicura al par di quella
l'alma anch'io gelar mi sento:
all'affanno, allo spavento
m'abbandono anch'io così.
[da Alessandro nell'Indie, atto III, scena VIII: dramma rappresentato alla prima nel 1729]

22
Sogna il guerrier le schiere,
le selve il cacciator;
e sogna il pescator
le reti e l'amo.
Sopito in dolce obblio,
sogno pur io così
colei, che tutto il dì
sospiro e chiamo.
[da Artaserse, atto I, scena VI: dramma rappresentato alla prima nel 1730]

23
Così stupisce e cade,
pallido e smorto in viso
al fulmine improvviso
l'attonito pastor.
Ma quando poi s'avvede
del vano suo spavento,
sorge, respira e riede
a numerar l'armento
disperso dal timor.
[da Artaserse, atto II, scena XV: dramma rappresentato alla prima nel 1730]

24
L'onda dal mar divisa
bagna la valle e'l monte;
va passeggiera in fiume,
va prigioniera in fonte,
mormora sempre e geme,
fin che non torna al mar:
al mar, dov'ella nacque,
dove acquistò gli umori,
dove da' lunghi errori
spera di riposar.
[da Artaserse, atto III, scena I: dramma rappresentato alla prima nel 1730]

25
ARBACE
Tu vuoi ch io viva, o cara;
ma se mi nieghi amore,
cara, mi fai morir.
MANDANE
Oh Dio, che pena amara!
Ti basti il mio rossore;
più non ti posso dir.
ARBACE
Sentimi.
MANDANE
No
ARBACE
Tu sei...
MANDANE
Parti dagli occhi miei;
lasciami per pietà.
(a due)
Quando finisce, o dei,
la vostra crudeltà?
Se in così gran dolore
d'affanno non si muore,
qual pena ucciderà ?
[da Artaserse, atto III, scena VII: dramma rappresentato alla prima nel 1730]

26
Dovunque il guardo giro,
immenso Dio, ti vedo:
nell'opre tue t'ammiro,
ti riconosco in me.
La terra, il mar, le sfere
parlan del tuo potere:
tu sei per tutto; e noi
tutti viviamo in te.
[da La Passione di Gesù, parte II : azione teatrale sacra rappresentata alla prima nel 1730]

27
Tu non sai che bel contento
sia quel dire: offesa sono;
lo rammento, ti perdono,
e mi posso vendicar:
e mirar frattanto afflitto
l'offensor vermiglio in volto,
che pensando al suo delitto
non ardisce favellar.
[da Issipile, atto II, scena VII: dramma rappresentato alla prima nel 1732]

28
Dunque si sfoga in pianto
un cor d'affanni oppresso,
e spiega il pianto istesso
quando è contento un cor?
Chi può sperar fra noi
piacer che sia perfetto,
se parla anche il diletto
co' segni del dolor?
[da La morte d'Abel, parte II: azione teatrale rappresentata alla prima nel 1732]

29
Se a ciascun l'interno affanno
si leggesse in fronte scritto,
quanti mai, che invidia fanno,
ci farebbero pietà!
Si vedria che i lor nemici
hanno in seno; e si riduce
nel parere a noi
felici ogni lor felicità.
[da Giuseppe riconosciuto, parte I: azione teatrale rappresentata alla prima nel 1733]

30
Io sento che in petto
mi palpita il core,
né so qual sospetto
mi faccia temer.
Se dubbio è il contento,
diventa in amore
sicuro tormento
l'incerto piacer.
[da La clemenza di Tito, atto I, scena III: dramma rappresentato alla prima nel 1734]

31
Parto; ma tu, ben mio,
meco ritorna in pace.
Sarò qual più ti piace;
quel che vorrai farò.
Guardami, e tutto obblio;
e a vendicarti io volo.
Di quello sguardo
solo io mi ricorderò.
[da La clemenza di Tito, atto I, scena XI: dramma rappresentato alla prima nel 1734]

32
Fra stupido e pensoso,
dubbio così s'aggira
da un torbido riposo
chi si destò talor:
che desto ancor delira
fra le sognate forme;
che non sa ben se dorme,
non sa se veglia ancor.
[da La clemenza di Tito, atto II, scena VII: dramma rappresentato alla prima nel 1734]

33
Ch'io parto reo, lo vedi;
ch'io son fedel, lo sai:
di te non mi scordai;
non ti scordar di me.
Soffro le mie catene;
ma questa macchia in fronte,
ma l'odio del mio bene
soffribile non è.
[da La clemenza di Tito, atto II, scena XIII: dramma rappresentato alla prima nel 1734]

34
Se mai senti spirarti sul volto
lieve fiato, che lento s'aggiri,
dì: son questi gli estremi sospiri
del mio fido, che muore per me.
Al mio spirto dal seno disciolto
la memoria di tanti martìri
sarà dolce con questa mercé.
[da La clemenza di Tito, atto II, scena XV: dramma rappresentato alla prima nel 1734]

35
Risolver non osa
confusa la mente,
che oppressa si sente
da tanto stupor.
Delira dubbiosa,
incerta vaneggia
ogni alma, che ondeggia
fra' moti del cor.
[da Il sogno di Scipione, azione teatrale rappresentata alla prima nel 1735]

36
Sì varia in ciel talora
dopo l'estiva pioggia
l'Iride si colora,
quando ritorna il Sol.
Non cambia in altra foggia
colomba al Sol le piume,
se va cambiando lume
mentre rivolge il vol.
[da Achille in Sciro, atto I, scena XII: dramma rappresentato alla prima nel 1736]

37
Non so: con dolce moto
il cor mi trema in petto;
sento un affetto ignoto,
che intenerir mi fa.
Come si chiama, oh Dio,
questo soave affetto?
(Ah, se non fosse mio,
lo crederei pietà).
[da Ciro riconosciuto, atto II, scena V: dramma rappresentato alla prima nel 1736]

38
So che presto ognun s'avvede
in qual petto annidi amore;
so che tardi ognor lo vede
chi ricetto in sen gli dà.
Son d'amor sì l'arti infide,
che ben spesso altrui deride
chi già porta in mezzo al core
la ferita, e non lo sa.
[da Ciro riconosciuto, atto II, scena XII: dramma rappresentato alla prima nel 1736]

39
Chi a ritrovare aspira
prudenza in core amante,
domandi a chi delira
quel senno che perdé.
Chi riscaldar si sente
a' rai d'un bel sembiante,
o più non è prudente,
o amante ancor non è.
[da Ciro riconosciuto, atto II, scena XIII: dramma rappresentato alla prima nel 1736]

40
Sceglier fra mille un core,
in lui formarsi il nido,
e poi trovarlo infido,
è troppo gran dolor.
Voi, che provate amore,
che infedeltà soffrite,
dite se è pena, e dite
se se ne dà maggior.
[da Temistocle, atto I, scena XIII: dramma rappresentato alla prima nel 1736]

41
VENERE
Odi l'aura che dolce sospira;
mentre fugge scotendo le fronde,
se l'intendi, ti parla d'amor.
PALLADE
Senti l'onda che rauca s'aggira;
mentre geme radendo le sponde,
se l'intendi, si lagna d'amor.
(a due)
Quell'affetto chi sente nel petto
sa per prova se nuoce, se giova,
se diletto produce, o dolor.
[da La Pace fra la virtù e la bellezza, azione teatrale alla prima, in Vienna, nel 1736: il duetto fra Venere e Pallade fu musicato da Beethoven]

42
Cieco ciascun mi crede
folle ciascun mi vuole
ognun di me si duole,
colpa è di tutto Amor.
Né stolto alcun s'avvede
che a torto Amore offende;
che quel costume ei prende
che trova in ogni cor.
[da La Pace fra la virtù e la bellezza, azione teatrale alla prima, in Vienna, nel 1736: il duetto fra Venere e Pallade fu musicato da Beethoven]

43
Oh almen, qualor si perde
parte del cor sì cara,
la rimembranza amara
se ne perdesse ancor!
Ma quando è vano il pianto,
l'alma a prezzarla impara;
ogni negletto vanto
se ne conosce allor.
[da Zenobia, atto I, scena I: dramma rappresentato alla prima nel 1740]

44
Non so se la speranza
va con l'inganno unita;
so che mantiene in vita
qualche infelice almen.
So che sognata ancora
gli affanni altrui ristora
la sola idea gradita
del sospirato ben.
[da Zenobia, atto II, scena I: dramma rappresentato alla prima nel 1740]

45
Ha negli occhi un tale incanto,
che a quest'alma affatto è nuovo;
che, se accanto a lui mi trovo,
non ardisco favellar.
Ei dimanda, io non rispondo;
m'arrossisco, mi confondo;
parlar credo, e poi m'avvedo
che comincio a sospirar.
[da Zenobia, atto II, scena II: dramma rappresentato alla prima nel 1740]

46
Oh che felici pianti!
Che amabile martìr!
pur che si possa dir
Quel core è mio.
Di due bell'alme amanti
un'alma allor si fa,
un'alma che non ha
che un sol desio.
[da Zenobia, atto II, scena V: dramma rappresentato alla prima nel 1740]

47
Fra tutte le pene
v'è pena maggiore?
Son presso al mio bene,
sospiro d'amore,
e dirgli non oso:
Sospiro per te.
Mi manca il valore
per tanto soffrire;
mi manca l'ardire
per chieder mercé.
[da Zenobia, atto III, scena IX: dramma rappresentato alla prima nel 1740]

48
Vuoi per sempre abbandonarmi?
non ti muove il dolor mio?
puoi negarmi un solo addio?
Questa è troppa crudeltà.
Dimmi almeno: io t'abbandono;
dillo almen con un sospiro;
che nemiche, oh Dio! non sono
la costanza e la pietà.
[da Il natal di Giove, scena VII, azione teatrale rappresentata alla prima nel 1740]

49
Se tutto il mondo insieme
d'Amor si fa ribelle,
inutil pregio, o belle,
diventa la beltà.
Chi più diravvi allora
che v'ama, che v'adora?
Chi più suo ben, sua speme
allor vi chiamerà?
[da L'Amor prigioniero, azione teatrale rappresentata alla prima nel 1741]

50
DIANA
Se placar volete Amore,
belle Ninfe innamorate,
imparatelo da me.
AMOR
Voi crudel rendete Amore,
belle Ninfe innamorate,
col difendervi da me.
(a due)
Nel contrasto Amor s'accende:
con chi cede, a chi si rende
mai sì barbaro non è.
[da L'Amor prigioniero, azione teatrale rappresentata alla prima nel 1741]

51
Pria di lasciar la sponda,
il buon nocchiero imìta;
vedi se in calma è l'onda,
guarda se chiaro è il dì.
Voce dal sen fuggita
poi richiamar non vale;
non si trattien lo strale
quando dall'arco uscì.
[da Ipermestra, atto II, scena I: dramma rappresentato a Vienna alla prima nel 1744]

52
È pena troppo barbara
sentirsi, oh Dio, morir,
e non poter mai dir,
morir mi sento!
V'è nel lagnarsi e piangere,
v'è un'ombra di piacer;
ma struggersi e tacer
tutto è tormento.
[da Antigono, atto I, scena XI: dramma rappresentato a Dresda alla prima nel 1744]

53
Di due ciglia il bel sereno
spesso intorbida il rigore;
ma non sempre è crudeltà.
Ogni bella intende appieno
quanto aggiunga di valore
il ritegno alla beltà.
[da Antigono, atto II, scena I: dramma rappresentato a Dresda alla prima nel 1744]

54
DEMETRIO
Non temer, non son più amante
la tua legge ho già nel cor.
BERENICE
Per pietà da questo istante
non parlar mai più d'amor
. DEMETRIODunque addio... Ma tu sospiri?
BERENICE
Vanne: addio. Perché t'arresti?
DEMETRIO
Ah per me tu non nascesti!
BERENICE
Ah non nacqui, oh Dio, per te!
(a due)
Che d'Amor nel vasto impero
si ritrovi un duol più fiero,
no, possibile non è.
[da Antigono, atto II, scena XII: dramma rappresentato a Dresda alla prima nel 1744]

55
Che ciascun per te sospiri,
bella Nice, io son contento;
ma per altri, oh Dio! pavento
che tu impari a sospirar.
Un bel cor da chi l'adora
so che ognor non si difende:
so che spesso s'innamora
chi pretende innamorar.
[da La danza, cantata a 2 voci, eseguita alla prima nel 1744]

56
Che chiedi? che brami
Ti spiega, se m'ami,
mio dolce tesoro,
mio solo pensier.
Se l'idol, che adoro,
non lascio contento,
mi sembra tormento
l'istesso piacer.
[da La danza, cantata a 2 voci, eseguita alla prima nel 1744]

57
Alla selva, al prato, al fonte
io n'andrò col gregge amato;
e alla selva, al fonte, al prato
l'idol mio con me verrà.
In quel rozzo angusto tetto,
che ricetto a noi darà,
con la gioia e col diletto
l'innocenza albergherà.
[da Il re pastore, atto I, scena I: dramma rappresentato alla prima nel 1751]

58
Il mio dolor vedete;
ditele il mio dolore.
Ditele... Ah no, tacete,
non lo potrà soffrir.
Del tenero suo core
deh rispettate il duolo.
Voglio morir, ma solo
lasciatemi morir.
[da L'eroe cinese, atto II, scena II: dramma rappresentato alla prima nel 1752]

59
Come rapida si vede
onda in fiume, in aria strale,
fugge il tempo, e mai non riede
per le vie, che già passò:
e a chi perde il buon momento,
che gli offerse il tempo amico,
è castigo il pentimento,
che fuggendo ei gli lasciò.
[da Alcide al bivio, scena IX: festa teatrale rappresentata alla prima nel 1760]

60
Vorrei che almen per gioco
fingendo il mio bel Nume
mi promettesse il cor.
Chi sa che a poco a poco
di fingere il costume
non diventasse amor.
[da Il trionfo di Clelia, atto II, scena IX: dramma rappresentato alla prima nel 1762]

61
Ah ritorna, età dell'oro,
alla terra abbandonata,
se non fosti immaginata
nel sognar felicità.
Non è ver; quel dolce stato
non fuggì, non fu sognato;
ben lo sente ogni innocente
nella sua tranquillità.
[da Il trionfo di Clelia, atto III, scena III: dramma rappresentato alla prima nel 1762]

62
Respira al solo aspetto
del porto, che lasciò,
chi al porto non sperò
di far ritorno.
A tutti è dolce oggetto
dopo il notturno orror
quel raggio precursor,
che annuncia il giorno.
[da Romolo ed Ersilia, atto III, scena I: dramma rappresentato alla prima nel 1765 a Innsbruck]

63
Un istante al cor talora basta sol per farsi amante;
ma non basta un solo istante
per uscir di servitù.
L'augellin dal visco uscito
sente il visco fra le piume
sente i lacci del costume
una languida virtù.
[da Romolo ed Ersilia, atto III, scena V: dramma rappresentato alla prima nel 1765 a Innsbruck]

64
Quell'ira istessa, che in te favella,
divien sì bella nel tuo rigore,
che più d'amore languir mi fa.
Ah s'è a tal segno bello il tuo sdegno,
che mai sarebbe la tua pietà?
[da Il Ruggiero o vero l'eroica gratitudine, atto II, scena III: dramma rappresentato alla prima nel 1771 a Milano]

65
Trova un sol, mia bella Clori,
che ti parli, e non sospiri,
che ti vegga, e non t'adori;
e poi sdegnati con me.
Ma perché fra tanti rei
sol con me perché t'adiri?
Ah, se amabile tu sei,
colpa mia, crudel, non è.
[da La scusa, cantata, data insicura]

66
Vede il nocchier la sponda,
conosce il mare infido,
e s'abbandona all'onda,
e non ritorna al lido,
e corre a naufragar.
Ah per mia pena anch'io so che nimico ho il fato,
veggo che l'idol mio
chiamar non posso ingrato,
né so di chi lagnarmi,
ma sieguo a sospirar.
[da Irene, incluso tra i "componimenti vari" dal Brunelli]















Il GENERE MELODRAMMATICO esigeva che ogni scena fosse conclusa da un' ARIA, facente seguito al RECITATIVO.
Con il tempo questa consuetudine si caricò tuttavia di estremismi ed in qualche circostanza finì per degenerare.
I CANTORI, fra i quali indubbiamente primeggiavano i CASTRATI od EVIRATI, finirono dal XVII secolo perprendere la mano ai compositori chiedendo sempre spzio maggiore allo scopo di fare sfoggio dei loro virtuosismi.
Così a fronte di un RECITATIVO sempre più esile lo spazio concesso ai funambolismi vocali delle arie finì per risultare ridondante e greve.
Un merito da ascrivere a
PIETRO METASTASIO fu proprio quello di aver dimensionato l'ARIA emancipandola dagli eccessi di virtuosismi fini a se stessa per strutturarla nell'ordinato spazio di due strofe.
Queste vennero organizzate dal magistero metastasiano entro lo spazio ben codificato del metro del savonese CHIABRERA: un metro di ottonari o di settenari piani mescolati ora a tronchi ora a senari ora a quinari, quadrisillabi e via di seguito.
La numerosissime ARIE DEL METASTASIO, oltre 1200, furono quasi venerate nel XVIII secolo: con riferimento al loro contenuto il pubblico ne compilò una sorta di classificazione in comparative, sentenziose, didascaliche, affettuose ecc.: una loro eruditissima selezione venne quindi fatta da Aurelio de' Giorgi Bertola nel suo scritto Osservazioni sopra Metastasio con alcuni versi in Operette in verso e in prosa, II, Bassano, per il remondini, 1785.