PONENTE LIGURE: CROCEVIA TRA GALLIE E PIEMONTE SUBALPINO, COLONIALISMO DI MARSIGLIA, INFLUSSI DEI FENICI (UNA CIVILTA' DI CASTELLIERI DI FRONTIERA E LE VIE STORICHE DI SCAMBIO TRA PIEMONTE-LIGURIA E MARE)

L'Italia dall'antichità fu celebrata da poeti ed eruditi come terra prediletta dal clima e protetta dalla fortificazione naturale delle Alpi: Flavio Biondo nell'Italia Illustrata scrisse:"... l'Alpe, de le quali (come dice M. Tullio) come d'un muro le fu cortese e le provide la natura contra gli impeti dei barbari....".
Lo storico Cluverius, usando fonti greche e latine, propose una visione approfondita della Liguria antica e del tratto delle Alpi Marittime da Genova al Varo: il Biondo sottolineò l'importanza dell'altura, presso Ventimiglia, del monte Magliocca (m. 345), conosciuto quale "Castel d'Appio", la modesta vetta donde per il geografo antico si dipartiva il sistema appenninico.
Pompeo Trogo compose i confini della Liguria di costa tra Marsiglia e l'Arno, Polibio delineò i limiti dell'antica regione sin a Pisa ed Arezzo.
Scilace, ponendone i confini tra Rodano ed Arno, sottolineò come in tale regione fosse ben inserita la colonia greca di Marsiglia, provvista di un frequentato porto: su ciò è utile citare quello che annotò Marcianus Heraclaensis :"Massilia....urbs maxima, Phocacensium Colonia quam in Liguria condiderunt".
Marsiglia ebbe mire espansionistiche sul Ponente ligure ma che fu anche importante per le testimonianze rilevanti di cultura greca che lasciò in area ligure dal IX al VII sec. a.Cristo.
Per le linee costiere della regione, in epoca antichissima sarebbe passata, una strada di "litorale", o VIA ERACLEA, che avrebbe unito l'Italia alla Spagne, attraversando il territorio celtico.
I greci di Marsiglia, secondo il Saige, avrebbero assimilato elementi di CULTURA FENICIA E/O CARTAGINESE che li avevano preceduti e avrebbero formato nella zona del Rodano un'isola ellenica protesa verso il levante ligure.
Questo complesso greco (dall'VIII sec.) si trovò inserito fra tante genti liguri, che nel loro insieme rappresentavano stirpe fiera, forte nelle armi, ribelle contro ogni invasore e al modo che scrisse Virgilio nelle Georgiche (II, 168) da sempre "assuefatta al patire".
I Liguri dell'interno (Montani) rappresentavano le tribù più feroci: è pensabile che il termine sia stato usato in senso generale onde specificare le genti dell'entroterra, come lascia intendere un verso di Silio Italico (Pun., VIII, 65): "Tum pernix Ligus et sparsa per saxa Vagenni".
Marsiglia stava quasi a contatto con gli "Intemeli", spalleggiati dagli "Ingauni": queste erano di fatto le più potenti popolazioni litoranee del Ponente.
Sulle alture del nizzardo si trovavano i Salii ed al contrario i Deciati erano stanziati tra Antibes e il Varo.
Gli Oxubii governavano l'odierno sito di Cannes.
Era prestigioso il ceppo dei Capillati, il cui gruppo egemone, quello dei Vediantii di Cemenelum (Cimiéz), era un pericolo per la sicurezza di Nizza.
La locazione di queste colonie greche era stata guidata da ragioni commerciali: la stessa Marsiglia rispondeva all'esigenza di difendere i traffici costieri e la rotta tirrenica.
L'archeologia ha fornito prove di relazioni mercantili tra Greci e Liguri, anche se, nonostante tali contatti, i due gruppi restarono ben distinti.
I Liguri controllavano i tragitti verso l'interno: questi percorsi garantivano loro di spostarsi su un territorio aspro e di sorvegliare ogni traffico che dall'arco ligure proseguisse verso le Alpi Marittime od il Piemonte.

La conquista ad opera delle legioni di Roma non fu semplice.
Benché Annibale durante la II guerra punica fosse entrato in Italia per altri valichi, ai Romani non sfuggì l'importanza della via costiera della Liguria.
I Romani dovevano infatti tener conto di vari fattori.
In primo luogo, nel loro processo di conquista della Liguria di Ponente Roma dovette sempre tenere debito conto del fatto che soprattutto gli Ingauni costituivano un ostacolo non trascurabile, con un territorio molto vasto che raggiungeva le valli della Bormida e del Tanaro entrando in area pedemontana.
In seconda istanza il territorio intemelio costituiva ancora un ostacolo da non sottovalutare anche perché rappresentava un passaggio obbligato per qualsiasi esercito che dovesse penetrare nella Gallia Narbonese senza valicare le Alpi.
Oltre a tutto ciò i Liguri, con la loro abitudine alla pirateria, potevano sempre disturbare il traffico, militare e mercantile, dei popoli in espansioneverso le loro contrade.
Per questo Roma affidò a due duumviri navales il compito non semplice di domare queste scorrerie piratesche.
Scontri militari dei Romani coi popoli liguri si ebbero anche prima del conflitto annibalico, ma è in siffatta circostanza che contro la grande potenza italica, per un'antica alleanza coi Cartaginesi, scesero in campo molte genti costiere del territorio compreso tra Vada Sabatia ed Albintimilium.
Intanto Magone, fratello di Annibale, riuscì ad ottenere aiuti militari da Vada Sabatia ed Albingaunum tra il 205 ed il 203.
Gli Ingauni, in cambio della promessa di poter arruolare fra di loro truppe ausiliarie, Magone fece il non trascurabile "favore" di infliggere pesanti sconfitte a Montani ed Epanterii, i bellicosi liguri dell'interno che saccheggiavano spesso il buon territorio ingauno.
La sconfitta di Magone da parte del Pretore Publio Quintilio Varo nel 203 trasformò di colpo le condizioni dei Liguri e soprattutto degli Ingauni che, per il timore di rappresaglie, stipularono una serie di trattati.
In realtà il trattato di non belligeranza, menzionato da Livio, appare esteso alla sola Albingaunum nè d'altri trattati parla lo storico padovano.
Ciò nonostante è da credere, visto il peso politico degli Ingauni, che questi trattati di non belligeranza risultassero estesi a tutte le genti del ponente ligure.
I Liguri furono però sempre gelosi della loro autonomia e perlomeno dal 201 la regione visse in uno stato costante di belligeranza e guerriglia, cui Roma pose rimedio con uno sforzo militare più deciso, specie dopo il poco onorevole episodio del pretore Lucio Bebio Divite che venne sconfitto dagli eserciti congiunti dei Liguri non lontano da Massalia, città in cui si rifugiò colle truppe superstiti e dove morì per le ferite subite come scrissero Livio (XXXVII, 5) ed Orosio (IV, 20, 24).
L'incentivazione romana delle operazioni belliche in Liguria si può datare dal 188 a.C. con le imprese del console M. Valerio Massimo (Livio, XXXVIII, 35, 7 e 42, 1).
I risultati non furono definitivi nè pari alle aspettative di Roma così che il Senato affidò ad entrambi i consoli del 187 a.C. (M. Emilio Lepido e Gaio Flaminio) la provincia della Liguria col compito di conquistarla definitivamente (Livio, XXXVIII, 42, 8).
Nonostante l'abilità dei Liguri a combattere nel loro aspro territorio, servendosi della velocità e di armi leggere che permettevano rapide fughe ed improvvisi attacchi, le legioni romane ottennero questa volta dei risultati importanti (Livio, XXXIX, 1, 1).
La pressione militare di Roma aumentò ancora dal 185 a.C. ed i popoli liguri patirono una serie di pesanti sconfitte: così mentre il console Marco Sempronio Tuditano sottometteva il levante ligure,il collega Appio Claudi Pulcro ne eguagliava la sorte "con alcune fortunate battaglie nel territorio dei Liguri Ingauni" come ancora scrisse Livio (XXXIX, 38, 1).
Nonostante questi successi la Liguria non fu del tutto piegata e, per garantire un più rigido controllo ed una maggior possibilità di celere intervento militare, fu a lungo assegnata come provincia consolare.
Nel 184, peraltro, gli Ingauni ed i loro alleati, essendo consoli Publio Claudio Pulcro e Lucio Porcio Licino, presero a riorganizzarsi, con una serie di operazioni, sino al culmine delle loro momentanee fortune, nel 181, quando, costituita una forte "lega militare", respinsero e poi assediarono il proconsole L. Emilio Paolo che pure s'era mosso contro di loro a capo di una discreta forza di guerra.
L. Emilio Paolo, che era però un buon comandante ed un soldato valoroso, seppe rompere l'assedio posto al suo accampamento ed alla fine inflisse una dura sconfitta agli Ingauni ed ai loro alleati.
Dopo che L. Emilio Paolo riuscì a piegare in maniera definitiva gli Ingauni (181 a.C.), il console Aulo Postumio Albino, dal territorio degli Apuani si spinse per via di mare sin a quello intemelio.
Questo viaggio di ispezione potrebbe lasciar intendere che, pacificati gli Ingauni, pure gli Intemelii avessero accattata la supremazia romana.
La guerra coi Liguri era stata abbastanza dura ed il Senato, di fronte ad imminenti guerre in Oriente, preferì mitigare le richieste nei confronti dei popoli sconfitti, anche per evitare possibili insurrezioni.
Il dominio degli Intemelii, al pari di quello delle altre genti liguri, ottenne quindi un foedus onorevole e la sua capitale acquisì la denominazione di "città federata" (cioè legata da vincoli di alleanza) nei confronti di Roma.
Non è semplice ricostruire ora le varianti tra i possibili "patti" stipulati coi Romani dai Liguri vinti: è comunque abbastanza certo che non si ebbero più insurrezioni e che i Liguri assolsero ai propri doveri con rigore (queste genti -come ricorda Sallustio nel De Bello Iugurt., 77, 4 e 93-94- vennero inquadrate in coorti ausiliarie e se una di queste, assieme a 2 "turme" di Traci e pochi altri soldati, si macchiò del tradimento del legato romano Aulo Postumio Albino causandone la sconfitta a Suthul in Numidia, è altrettanto vero che proprio un soldato ligure, col suo coraggio, permise a Mario di occupare una città dei Numidi).
Poco per volta, per quanto abbastanza impermeabili in un primo tempo all'acculturazione romana, i Liguri si inserirono nel contesto statale di Roma.
In un primo momento però, indice che non erano considerati ancora del tutto fidati, i Liguri furono esclusi dalle clausole delle leggi Julia de civitate danda del 90 a.C. e della Plautia Papiria dell'89 che comportavano l'inserimento di vari popoli vinti nello Stato romano.
Tuttavia i Liguri rientrarono nei corollari della Plautia Papiria e conseguentemente della Lex Pompeia de Gallia Citeriore in forza della quale le città liguri costiere vennero trasformate in Municipia di diritto latino.
Da questo momento, per quanto alcune città liguri rimasero allo stadio di colonie come Luna o Dertona e di fora o conciliabula come Industria, Pollentia, Aquae Statiellae, tutte le genti liguri, con Intemelii ed Ingauni in primo piano avevano ormai fatto un passo importante sulla strada della romanizzazione.
Sarebbero sopravvenuti altri momenti difficili ma non solo per la Liguria, bensì per tutto il vasto dominio di Roma conteso, all'interno delle guerre civili, dopo il contrasto tra Mario e Silla, dalla lotta fra Cesare e Pompeo e quindi, ai tempi del II triumvirato, fra Ottaviano Augusto ed Antonio.
Anche la Liguria fu spaccata da contrasti tra fazioni opposte e simpatizzanti dell'uno o dell'altro fra questi potenti: comunque proprio i vincitori di una dura contesa che avrebbe determinato l'evoluzione dell'antica repubblica nel più efficiente Impero furono alla base di fondamentali trasformazioni per le genti liguri
Cesare infatti largheggiò, per ottenersi simpatie e fautori in Liguria, nella concessione dell' ambita cittadinanza romana a varie importanti località liguri fra cui Ventimiglia (ed i vantaggi, sociali, fiscali, elettorali, economici non erano certo da poco): Ottaviano invece, divenuto unico padrone dell'Impero mirò ad un vasto processo di pacificazione, al riparo di tanti danni, all'instaurazione di una nuova filosofia socio-economica e morale e soprattutto alla realizzazione di quelle grandiose opere pubbliche che, in Liguria come in altre parti del mondo conosciuto, costituirono un'autenica rivoluzione del sistema di vita sempre più volto ad un deciso progresso tecnologico e ad un costante aumento del tenore di vita.
La rivitalizzazione che i Romani operarono dei tragitti dell'antico "dominio intemelio" costituisce il principale mezzo di ricostruzione del sistema viario che faceva riferimento alla linea di costa e che i coloni di Marsiglia non avrebbero disdegnato di sottomettere al loro controllo.
Secondo alcuni autori da San Dalmazzo, allo sbocco della Livenza, si sarebbe trovata una strada romana che risaliva per la valle chiamata della miniera.
Questa procedendo a levante del monte Clapier, avrebbe oltrepassato la Vesubia presso San Martino di Lantosca onde poi toccare San Dalmazzo del Piano, la valle di Bramafama ed entrare nella valle della Tinea (Vallis Tiniensis) al fine di riunirsi con una via che arrivava da Cimiéz, la quale sarebbe penetrata in Provenza e nella valle della Duranza.
Si è pure supposto che da un ramo inferiore della val Roia, ad occidente della valle di Caiross , innanzi a Saorgio e attraversando i colli del "Raus" e dell' "Aution", si originasse un tragitto destinato a raggiungere la valle della Vesubia per scendere al lato meridionale sino alla marina ed dal lato di tramontana procedere fin a Roccabigliera, poi Bollena e San Martino di Lantosca, onde fondersi coll'altra di cui si è detto o, tramite i colli di Frema-morta e dalle Finestre, penetrare nella valle del Gesso.
A giudizio del Casalis un altro tragitto della valle del Roia avrebbe messo in comunicazione Bevera con Sospello: lo studioso era riuscito a scoprire le tracce di una strada romana che dal mare raggiungeva Clans e Santo Stefano in val Tinea.
Queste considerazioni potrebbero essere semplici ipotesi in quanto la via del sale, per quanto risulta dalla cartografia militare piemontese, risaliva da Nizza a Tenda passando per Sospello e la penetrazione verso il Basso Piemonte in area intemelia fu almeno fino al XV sec. quella della via "romana" del Nervia con la deviazione verso Saorgio e quindi il Piemonte nella biforcazione da Rocchetta Nervina all'Abeglio inferiore.
Grossomodo questo tragitto del Nervia denominata da A. Eremita, suo studioso, "via delle nevi", traeva origine dalla città romana di Nervia e risaliva verso settentrione seguendo una direttrice che aveva i suoi punti di riferimento nelle zone di Camporosso, Dolceacqua, Portu (Dolceacqua), Veonegi (Isolabona), Marcora, Margheria dei Boschi, Monte Morgi, Passo Saorgio, Briga, (Pedona) S.Dalmazzo, Tenda.
I ricercatori hanno individuato altri percorsi alternativi, di sentieri liguri preromani che, per l'utilità, rimasero utilizzati.
Breil (Breglio) e Sospel (Sospello, Cespello, Cespitello o Cespitellum) facevano parte di una zona di relazione fra Vediantii, Vesubiani ed Intemelii sì che in seguito alla romanizzazione furono assoggettati all' amministrazione di Albintimilium.
In un documento del 26-IV-1260 riguardante la seconda località, in merito alla vendita di una pezza di terra, si legge "ubi dicitur Condamina" parola di arcaica ascendenza (DI AMAND., doc.223; non a caso come nota A.M.Ceriolo Verrando col termine Condamina si indicava il nucleo urbano più antico di Bordighera medievale).
A Briga nel XIII sec. (DI AMAND., doc. 220, 24-IV-1260) era usata ancora l'espressione "ubi dicitur in Villa Relio" ed a Saorgio si rinvenne la lapide di un magistrato di Albintimilium (C.I.L., V, 7813): è improbabile che non esistessero antiche vie di interscambio tra questi luoghi, anche sotto l'aspetto di sentieri che conducevano a tragitti prioritari.
V'è anzi da rammentare che in questi ultimi tempi, da parte di qualche ricercatore, la lapide (del I sec. circa d.C.) scoperta sul monte Malamorte presso la parrocchiale di Saorgio e riguardante il magistrato edile Marco Atilio Alpino - benché ritenuta di estensione famigliare della gens Atilia e dedicata per qualche vincolo testamentario- possa essere espressione dello stanziamento in zona di un funzionario romano preposto al controllo viario ed alla riscossione della tassa di passaggio, tra Italia e Gallie, imposta sui prodotti di traffico commerciale detta Quadragesima Galliarum ed il cui versamento avveniva anche sulla più frequentata via di costa presso la STAZIONE STRADALE DI LUMO, area di Cap Martìn).

A riprova di quanto fosse rilevante il sistema viario dei Romani, che poteva immettere nelle Gallie sì da incoraggiare in assenza di controlli i numerosi contrabbandieri del tempo, concorre un'osservazione del Blanc.
Dopo la scoperta di una via romana alternativa a quella di costa verso settentrione, egli ne delineò il tragitto lungo i punti di Tourette, Levenz (ove a suo parere la Vesubia si valicava con un ponte dai pilastri di costruzione romana), Utelle, La Tour (dove notò altre tracce stradali romane),Clans, Marie (ancora con relitti viari romani), S. Sauser e Castrum de Insula (donde si riesumò ulteriore materiale romano), St. Etienne de Tinee.
A giudizio di questo studioso tale percorso, oltrepassato il colle Pelouse, avrebbe raggiunto Barcellonetta e poi la "Valle Duranza" per approdare ad Embrum, centro ligure vicino al fiume Durance, nell'odierno dipartimento delle Alte Alpi.
Tale reticolo di tragitti era di creazione preromana ed i Liguri lo custodivano con attenzione in quanto, oltre a rendere possibile un controllo del territorio, agevolava l'ingresso al Basso Piemonte: un sito ragguardevole, che sarebbe stato controproducente lasciare ai Greci, si può individuare nei luoghi di La Bollene-Visubie e Visubie, presso la cui fonte era stata eretta la villa di "Boleneta" e non lontano dalla quale si ascendeva al giogo della Mad. de Fenestre entrando quindi in Piemonte per la via di Entracque.
I resti scoperti dei tragitti romani subalpini che si incrociavano su tale complesso viario, permettono di ricostruire parecchi aspetti di quell'organismo stradale ligure che gli ingegneri di Roma recuperarono, constatata la difficoltà costituzionale di realizzare più comode alternative di percorso.
Procedendo dalle valli di Pesio e della Bisalta due strade si congiungevano presso Tenda per Riofreddo o a Briga per la Livenza e da qui si sviluppavano altre diramazioni: la deviazione da Saorgio verso la val Nervia e l'altra principale diramazione verso Sospel e la Provenza, cui faceva capo l'importante nodo viario di "Bolaneta", della Visubie e di Nostra Signora della Finestra, giogo alpino interessante per le ulteriori ramificazioni che vi si sviluppavano.

LA CIVILTA' DEI CASTELLARI DI FRONTIERA

I complessi megalitici cui si "appoggiavano" gli insediamenti agropastorali dei Liguri Intemeli, vennero strutturati secondo quel SISTEMA DEI CASTELLARI che E. Bernardini definì DI FRONTIERA. Il Bernardini tracciò la morfologia di parecchi castellieri, che era principalmente di forma circolare od ellittica, con una triplice cinta muraria.
In alcuni casi si sono individuate cinte quadrangolari o pentagonali, con una certa praticità difensiva, adattate alla tipologia dei luoghi per via di fossati e terrapieni. A volte fra 2 castellari era costruita una torre con probabile funzione di avvistamento, mentre presso i valichi si disponevano talora dei muraglioni di sbarramento per ricoverarvi le greggi od organizzarvi un riparo contro i predoni.
Nell'area intemelia, procedendo in senso trasversale sud-Nord oggi, oltre che nella fisicità, anche per mezzo di un PERCORSO MULTIMEDIALE INTERATTIVO, si individuano tracce di tali RICOVERI INSEDIATIVI abbastanza sicuri, databili dal VI-V sec. a.Cristo. Entrambe le valli hanno nel colle di Tenda il comune vertice: l'ossatura basilare dell'insieme di rilievi che ne costituisce lo spartiacque si arresta gradualmente nella barriera orizzontale delle colline costiere. In aree tatticamente opportune vennero distribuiti i castellari, qualche volta forse a difesa di piccoli centri abitati, in altre circostanze con scopi di puro ricovero, altre volte un pò più ricchi sotto il profilo architettonico e comunque disposti con prevalente funzionalità di contatto viario. Senza nulla togliere alla garbatezza scientifica dei "castellari di frontiera" avanzata dal Bernardini, alla luce delle ultime indagini pare una forzatura (cui io stesso non sono stato immune) la vasta idea strategico-architettonica, quasi certamente ignota alla scienza rudimentale oltre che all'ignoranza d'un adeguato schema bellico d'intervento dei Liguri antichi, d'un meccanismo di forti interagenti fra loro sulla linea di sottili equilibri viari e di studiati tragitti militari (a ben vedere le strutture superstiti dei castellari - quando non siano state mascherate dietro la rivisitazione settecentesca degli ingegneri austriaci della Guerra di Successione al Trono imperiale ed in effetti, qualche volta almeno, da costoro trasformati in imprendibili fortezze - non sembrano aver avuto la possibilità di ospitare a lungo degli assediati, fornendo loro viveri ed acqua in abbondanza).
Dalla minima altitudine di Colla Sgarba (m. 223) si hanno comunque documentazioni di arcaiche strutture militari sino alla quota 1269 del monte Alto: su questi siti ove probabilmente si edificarono dei castellari, molti secoli più tardi gli ingegneri di guerra di Austria e Regno Sardo - sulla base del progetto Guibert e delle direttive del barone di Leutrum - impiantarono come un sistema di forti eretto (attraverso un ripascimento del terreno, un riutilizzo di fortilizi di varie epoche ed una protezione con sbarramenti di grotte ed anfratti) contro lo schieramento francese che occupava Ventimiglia medievale.
Il nome di luogo di "Colla Sgarba", cioè "forata" deriva dall'esistenza di un condotto parzialmente naturale che rendeva fattibile un controllo simultaneo della via di valle, del litorale e del mare (struttura verisimilmente assai antica, ma di cui - per l'appunto - secondo quanto dicono i pochi documenti superstiti si servirono soprattutto le vedette austro-sarde del conflitto di metà 700). In una sottostante cavernetta, detta non casualmente "A Barma" N.Lamboglia aveva individuato una sorgente, idonea alle esigenze di un piccolo presidio.
"Colla Sgarba" costituisce comunque l'altura più sintomatica della città preromana degli "Intemeli", quella intorno a cui, mollemente scendendo verso valle, si venne a costituire l'originario nucleo abitato preromano. Senza entrare nel merito di un'annosa questione topografica, sostanzialmente ancora irrisolta visti anche i numerosi interventi dell'uomo su questo sito dall'epoca medievale sin a tempi recentissimi, è interessante procedere da questa località, parallelamente al corso del Nervia, poco in altura quindi rispetto alla riva destra del fiume, seguendo i resti del duplice acquedotto romano onde raggiungere la sorgente del rio Seborrino e la sua galleria di captazione, da cui le condotte prendevano la strada per Ventimiglia romana sin al suo Castello dell'acqua necessario per smistare il rifornimento idrico della città.
In effetti grotticelle pseudonaturali, trasformate in epoche remotissime in vasche di captazione e poi - dopo interventi strutturali non sempre chiari d'epoca medievale - "tornate" ad una condizione di "abbandono", tali da sembrare ripari o conformazioni del tutto spontanei, si trovano in altri siti della bassa e media valle. A Dolceacqua, fra i possessi abbaziali del grande monastero benedettino susino di val Cenischia detto "della Novalesa" o più opportunamente "del cenobio di S.Pietro e S.Andrea"(eretto nel VII sec.) si annoveravano, dopo le devastazioni saracene, nel XII sec., una "chiesa di Santa Maria di Dolceacqua" ed altri beni fondiari sparsi per la valle tra i limiti di Camporosso e Rocchetta Nervina.
Non lungi dal corpo cenobitico del priorato novaliciense di Dolceacqua, costituito appunto dalla chiesa principale di S.Maria, si individuano tre vasche di captazione (minori ma morfologicamente prossime alla camera idrica dell'acquedotto romano) in cui venivano convogliate le acque di una falda naturale che, a loro volta, erano raccolte, per mezzo di due condotti in coccioposto di cui si son scoperte le tracce, verso la fontana del monastero. La volta delle vasche è a botte ma una delle vasche (nel modo un pò simile a quanto accaduto per la "camera di captazione" dell'acquedotto di Nervia, ha subito degli interventi (che paiono del tardo medioevo) per cui ne sono state ridotte le dimensioni con una sorta di "chiusa", forse un intervento riduttivo dovuto all'esigenza di riparare ai danni di qualche smottamento del terreno. Diversi interventi su queste "camere d'acqua" nella località "U Cuventu" di Dolceacqua hanno con probabilità alterato qualche organismo rustico romano.
Peraltro i Benedettini del XII sec. erano soliti impiantare i loro insediamenti su organismi edili e strutturali molto antichi, specialmente di origine romano-imperiale, caratterizzati dalla presenza di pozzi, acquedotti, ruderi, resti di materiale edile che era abbastanza facile riadattare e rimettere in funzione per le semplici esigenze dei monaci (anche in questo sito di Dolceacqua non sono mancati ritrovamenti, seppur sporadici, di monete costantiniane e soprattutto di frammenti ceramici della buona romanità: fenomeno vicino seppur meno eclatante di quello registrato pei Benedettini genovesi di "Villaregia - S.Stefano al mare: del resto nel territorio del Priorato novaliciense di S.Maria di Dolceacqua - il cui corpo si estendeva su luoghi dalla toponomastica significativa come "Crosa, Butin, Arcagna,Burgu Novu e soprattutto Auriveu" cioè "Uliveto" a documentare, assieme ai rogiti notarili di metà '200, che nella zona era stata impiantata dai Benedettini la novità agrocolturale dell'olivo da alimentazione - sono tuttora reperibili tracce di fasi distinte dell'impianto culturale cristiano: particolarmente in due proprietà (prossime alla cappella cenobitica minore di S.Bernardo) sono stati scoperti resti di materiale laterizio romano, frammenti di suppellettili databili al II secolo fra cui è interessante un'altra vasca o pozzo di captazione - tuttora detto "U Roglio" - presso cui son stati riconosciuti segnali di visitazione umana, databili - non senza qualche dubbio vista l'impossibilità per i numerosi ripascimenti del suolo agricolo di un'indagine stratigrafica oculata - fra il I ed l IV sec. d. Cristo: cosa che indurrebbe a credere, come scritto in altro lavoro (R.CAPACCIO-B.DURANTE, Marciando per le Alpi...,pp.225-230) che il complesso monastico, al modo quale anche si è detto e secondo le metodiche segnalate per l'impianto del principato benedettino di Villaregia sia stato impiantato sui resti di un organismo prediale romano, rimasto senza proprietari (per le spoliazioni saracene di IX-X secolo?) e quindi forse trasmesso da Adelaide di Susa (XI sec.) erede ultima del ramo carolingio Arduinico (cui in media pervenivano questi grossi fondi senza proprietari od aventi diritto) a qualche monastero benedettino, in particolare - senza trascurare l'omaggio religioso - per utilizzarne le capacità di miglioramento agronomico e di ripopolazione in contrade ormai disertate dai dispersi coloni.
Su questa direttrice si scopre poi il castellaro di Cima Fontana o cima Bandiera (m. 331) dove le fasce dei vigneti accompagnano la sequenza dgli anelli circolari della struttura preromana esaltandone l'area summitale, in cui si ritrovarono frammenti di ceramica.
In area tra Camporosso e Dolceacqua, in linea ma a levante rispetto al sito della chiesa della Madonna della Neve (loc. "CIAIXE", m. 317, dove furono scoperti resti vari di romanità) sorgeva ancora un altro castellaro ("Cima d'Aurin", m. 465) che, in base ai reperti individuati, venne frequentato dal VI-V sec. a.C. sino al II-III d.C.: i versanti Sud-Ovest venivano difesi da complessi rocciosi anulari, a gradoni. La base del colle risulta invece protetta da una grande muraria che avvolgeva un secondo muraglione, per tratti ancora in situ, largo pressapoco un metro ed organizzato, a grossolana formazione, in una torre quadrangolare volta a Nord, d'epoca posteriore (m. 6 x 6).Il sistema era forse completato da un'altra torre e diversi edifici che a suo tempo fecero credere che vi fosse ad un possibile insediamento civile. A "Cima d'Aurìn", nonostante la ricchezza dei reperti la lettura del presunto castellaro originario è difficilissima in quanto, come detto, questo è uno di quei siti strategici in cui, specie nel XVIII secolo è intervenuta l'architettura militare austro-sabauda (specie nel ripascimento del terreno e nella ristrutturazione della cinta difensiva, già erroneamente attribuita al vecchio castellaro, dove invece, anche un poco per fortuna degli archeologi, sono stati solo reimpiegati del preesistente castellaro, tra cui alcuni chiaramente "graffiti", come quello - edito fotograficamente ma non interpretato in Albintimilium, antico municipio romano... tavola IX,2 - in cui, coraggiosamente e con fatica improba, la filologa Franca Zara va ricostruendo le tracce superstiti di un'incisione celtica di derivazione leponzia, naturalmente riferentesi ad un valore onomastico).
Oltre il discusso complesso di Cima Tramontina dove si sono trovati frammenti frammenti di ceramica datati dal IV a.C. al II sec. d.C. (ma al quale non tutti, nonostante i superstiti muraglioni riadattati però dalle truppe austro-sarde del '700 riconoscono le caratteristiche di "castelliere"),proseguendo verso Nord si può sostenere (anche se qualche studioso sul campo non concorda con ciò, viste la caratteristiche di alcuni reperti) che un castellaro fosse eretto sulla vetta del monte "Abellio": tale sito era infatti sostanziale per il controllo viario di crinale (quello che da Rocchetta Nervina nella val Nervia immetteva in Ajrole in val Roia), ma in particolare, oltre le trasformazioni edili che hanno stravolto il luogo proprio per la sua valenza topografica, sembra alquanto improbabile che i Liguri, pastori e poi commercianti incalliti, non abbiano mirato a controllare con una certa saldeza questa "porta storica" verso l'area pedemontana. Il fatto che vi sopravvivano i miseri reperti di un castello medievale, diruto nel XIII sec., comprova la storica valenza militare e strategica attribuita al luogo nel contesto di civiltà pur molto diverse nel tempo e nelle idee. Più a Nord, ma verso oriente data la flessione dello spartiacque, si trovano le altrettanto discusse conformazioni di "Monte Altomoro" (m. 915, anelli concentrici in muratura preceduti da un vallone racchiudevano la vetta) e di "Monte Alto" (m. 1269 con vetta piramidale ora ricoperta di vegetazione): nonostante i rinvenimenti di reperti romani in entrambe le località non tutti sono concordi di ritenere che, come un tempo era pressoché scontato, fossero dei "castellieri liguri" con eminente funzione militare.
In questo campo così irto di difficoltà e dove ognuno - a seconda delle sue convinzioni - ritiene spesso ad oltranza d'essere nel vero (nonostante la difficoltà intrinseca in tecniche di carotaggio o sondaggio scientifico, per campioni, del terreno ed i crescenti limiti che si attribuiscono alla fin troppo celebrata ricerca stratigrafica, talora sorprendentemente fallace in aree come queste, ad alta concentrazione rurale ed urbana, dove gli sconvolgimenti del terreno - anche per semplici lavori agricoli - son stati frequentissimi nel passato antico e recente) non mi sento di suscitar scandali intellettuali affermando che "Castel d'Appio" a Ventimiglia, toponimo romano secondo N. Lamboglia dato al monte Magliocca (m. 345), sia stato in origine, come sostenuto prima da Nicola Orengo e poi da Enzo Bernardini, un edificio medievale edificato su una costruzione romana, a sua volta eretta sui resti di un castellaro ligure.
Se "Castel d'Appio", anche per quei continui ripascimenti del terreno che possono ingannare il migliore fra gli archeologi, conserva interrogativi vari sulle sue origini, o meno, quale castellaro, ciò non si può affermare a proposito del monte S. Croce (m. 354) tra Vallecrosia e San Biagio, che in qualche modo doveva costituire un caposaldo dei castellari di una frangia gregaria sul sistema di rilievi la cui ossatura risulta formata dallo spartiacque che separa la val Nervia dalla più piccola ed incavata val Crosa.
Dal S. Croce e dal monte Bellavista (Vallecrosia) si arrivava, attraverso il presumibile castellaro di Sapergo al complesso di cima Merello, sul monte Nero di Bordighera, ove nella I età del ferro sorgeva un villaggio di cui sono giunti anche reperti di insediamenti romani d'età repubblicana. Il monte "Mucchio di Scaglie" sovrastante il monte Nero, e peraltro già sede dei resti di una torre di avvistamento, sovrastante monte Nero, era forse una specie di castellaro "diaframma" tra questi complessi murari preromani d'area intemelia e quelli dislocati sull'anfiteatro montagnoso sanremese. Si è pensato all'esistenza di un castellaro alla Croce di Padre Poggi, vicino a Coldirodi, e poi ad un altro ancora, seppur dalle finalità e caratteristiche più complesse del previsto ed in parte ancora da decifrare, sulla cima del monte Caggio (m.1090) di cui si è già fatta menzione.
Sull'area summitale di monte Bignone (m. 1299) è stato inoltre scavato un altro castellaro, dove sono state identificate due costruzioni in muro a secco, con vani interni di circa m. 6 X 6, circondate da una cinta muraria esterna. Nella zona furono anche trovati reperti di ceramica preromana di manifattura locale ed anfore di tipo greco-massaliota le quali comprovano come in tal sito, dal V secolo, sia siano verificati scambi abbastanza importanti coi commercianti greci.
Verso Baiardo si raggiunge poi la località " Pian del Re" dove fu scoperta e studiata una necropoli tumuliforme.
Sul monte Colma (m. 649), sopra la dorsale tra Verezzo e Ceriana, sorgeva verisimilmente un castellaro di pianta poligonale, con triplice cinta muraria profonda sino a 9 metri, con un perimetro di 100 e che coinvolgeva una sorta di torre centrale oltre un edificio murato a secco di forma quadrata. Fuori di questo complesso murario si sono individuate tracce di capanne liguri e di più tarde abitazioni rurali romane (sorta di "caselle" o unità abitative di natura temporanea e pastorale ai fini della transumanza: la copertura in aggetto con pseudovolta è certo di origine molto antica, per quanto questo tipo di precaria costruzione si sia continuato nel tempo ben oltre la romanità.
Superata Sanremo il sistema dei castellari, per quanto forse meno studiato, ha tuttavia una sua arcaica importanza.
In particolare si conosce l'esistenza di una specie fortilizio ligure, in valle Armea sulla dorsale del monte Merlo, in valle Argentina, sulla terribile e stragegica rocca seminaturale di S.Giorgio di Campomarzio e quindi ancora sulla Rocca di Drego tra Agaggio e il passo della Teglia: certamente nell'aspra alta valle Argentina non dovevano mancare degli insediamenti Liguri preromani (in pratica nell'area a rischio dove si sfioravano le genti liguri costieri coi bellicosi "Montani"): e pare fuor d'ogni dubbio che il buon controllo o l'insediamento in quei luoghi ancora selvatici rappresentavano mezzi comodi per influenzare la vita commerciale e sociale di una vasta regione circonvicina, sin al mare e da questo ai passi che portavano, per l'oltregiogo, sin nell'odierno Basso Piemonte.
Come risulta dai riscontri onomastici la popolazione di Albintimilium fruì di reiterati contatti e scambi con parecchie città romane del Piemonte: altri centri pedemontani entrarono così stabilmente nei rapporti coi Liguri occidentali che la loro storia si mescolò con quella di queste genti oltre la romanità, in una straordinaria temperie di incontri socio-culturali.
Natalino Bartolomasi (Valsusa Antica, II, Pinerolo, 1985, s. voci) lascia intendere, pur non approfondendo, come forse avrebbe dovuto,l'importanza dell'antica Pedo nel cuneese come nodo viario tra mare e area pedemontana ma accenna ad una certa analogia storica coll'Abbazia della Novalesa sorta su un antico presidio romano, a guardia del valico del Moncenisio, zona tradizionalmente insicura per il brigantaggio e il traffico di contrabbandieri. Pedo, centro preromano di un certo rilievo, prima di diventare un'importante base di espansione del cristianesimo, poi in contatto con la Certosa di Pesio e più di questa destinata in origine ad influenzare spiritualmente e culturalmente la Liguria costiera, fu soprattutto un nodo viario e strategico dei Romani che posero le loro stazioni militari sui nodi nevralgici delle più antiche civiltà.
Da tempo immemorabile la località, a guardia di un complesso sistema viario, costituì un punto di riferimento per i Liguri costieri e per i loro commerci essendo accessibile in modo relativamente semplice.
I monaci, scendendo verso la costa nel X-XI sec. per impiantarvi le loro sedi, ripresero antichi tragitti liguri e preromani che comprovano una tradizionale serie di contatti e relazioni, ancora importanti, da analizzare.
Rimane fuori di dubbio che questo centro prossimo a Cuneo abbia costituito un viatico per la penetrazione ligure sino al Piemonte settentrionale, come si evince dai laici o dai commercianti che, accanto ai religiosi, lasciarono tracce del loro percorso costa-mare secondo una millenaria abitudine agli scambi.
G. Penco (Storia della Chiesa in Italia, Roma, I, 1977, p. 37), riprendendo le osservazioni di A. M. Riberi (S. Dalmazzo di Pedona e la sua abbazia, Torino, 1929) relativamente alla diffusione del Cristianesimo nelle regioni italiane, ha scritto una breve ma illuminante osservazione: "Quanto al Piemonte, mentre la pseudoerudizione locale ha cercato di risalire addirittura all'età apostolica, è probabile che fino al III secolo il Cristianesimo non vi si sia propagato: importante, a questo riguardo, l'opera svolta da S. Dalmazzo, di cui dovette risentire l'influsso anche l'ambiente ligure.