cultura barocca
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GUICCIARDINI, Lodovico
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004) di Dina Aristodemo

GUICCIARDINI, Lodovico. - Nacque a Firenze il 19 ag. 1521, da Iacopo di Piero e da Camilla d'Agnolo Bardi, decimo di dodici figli. Le poche notizie sicure sulla sua adolescenza riguardano gli studi umanistici e di matematica; mentre infondata è la notizia, riportata in passato da alcuni biografi, di un incarico alla corte di Cosimo I de' Medici.
Emancipato dal padre il 19 apr. 1538, tre giorni dopo il G. partì alla volta di Lione per impratichirsi nella mercatura presso Bartolomeo Panciatichi.
Le attività commerciali di Iacopo Guicciardini, che con Girolamo era il businessman della famiglia (Starn, p. 417), erano state particolarmente fiorenti fino agli inizi degli anni Trenta, ma in seguito avevano subito una serie di contraccolpi. Particolarmente critica era la situazione della ditta ad Anversa, dove altri due figli di Iacopo, Giovan Battista e Lorenzo, importavano vini dalla Francia e pastello dalla penisola iberica, ed esportavano grano in Italia.
Si è ipotizzato che il padre, simpatizzante dei piagnoni antimedicei, avesse voluto mettere al sicuro alcuni dei propri figli, inviandoli ad Anversa, ma l'ipotesi è contraddetta sia dai servigi resi da Giovan Battista, informatore dalle Fiandre di Cosimo I e di Francesco I, sia dalla dedica, da parte del G., nel 1565, dei suoi Comentarii "al granduca di Fiorenza et di Siena", al quale furono inviati anche esemplari delle opere successive. Più probabile è che i due fratelli preferissero a un incarico pubblico a Firenze un'esistenza indipendente, ancorché in grandi ristrettezze, fuori d'Italia.
Per salvare il capitale investito sulla piazza fiamminga, Iacopo fu indotto a trasferire ad Anversa anche il figlio, che vi giunse nell'agosto 1541. Dalle lettere inviate ai familiari sappiamo che il G. si dedicò con impegno agli affari, anche se i rapporti con il fratello Giovan Battista, molto più anziano di lui, non erano facili. Nel 1543, quando due bastimenti noleggiati dalla compagnia Guicciardini, provenienti dal Portogallo e diretti ad Anversa, furono catturati con il loro carico di pastello nel golfo di Biscaglia, la situazione della ditta fu compromessa drammaticamente: la "ragione" Guicciardini, che aveva accumulato debiti per 25.000 ducati, messa alle strette dalle pressanti richieste dei creditori, fu dichiarata insolvente.
In una lettera del 9 febbr. 1544 (m.f. 1543) il G. manifestò al padre l'intenzione di abbandonare Anversa per tentare "qualche ventura" in Francia, dove era "in gran concetto o gran favore" (Firenze, Arch. Guicciardini, filza LI). Rimase invece ad Anversa, anche dopo la dichiarazione del fallimento e la messa sotto tutela dei beni (10 nov. 1545).
Il G. continuò ancora per qualche anno l'attività commerciale per proprio conto, senza diventare però "fattore", rappresentante cioè di ditte o di banche, come è stato ripetuto da diversi studiosi, per un errore di lettura ora rettificato (Touwaide, p. 30). La sua attività era modesta: aveva solo un giovane dipendente e non disponeva di una propria abitazione, se a lungo, dal 1548 all'inizio del 1555, alloggiò presso il compatriota Francesco Pescioni.
Inoltre, dall'epoca del tracollo finanziario i fratelli Guicciardini si trovarono alle prese con il processo che Giovan Battista aveva intentato contro uno dei più potenti banchieri d'Anversa, il pistoiese Gaspare Ducci, che si rifiutava di restituire la somma da tempo affidatagli dalla loro compagnia. Grazie alle aderenze e agli appoggi di cui godeva il Ducci (finanziatore di Carlo V, il quale spesso dovette intervenire per risolvere gli scandali provocati dal suo agente), il processo si trascinò per ben trent'anni. Il 23 nov. 1554, allorché il Ducci rimase gravemente ferito in un agguato, si sparse la voce che ne fossero autori i fratelli Guicciardini. Il giudice, tuttavia, si convinse dell'estraneità del G. al fatto, grazie alle prove incontestabili e concordi fornite dai testimoni (Touwaide, p. 36). Lo stesso G., in una lettera del 12 gen. 1555 (m.f. 1554) ai familiari, non escludeva l'ipotesi che l'attentato fosse frutto di un intrigo ordito dal Ducci stesso per danneggiare lui e i suoi fratelli durante il processo in corso. Gli autori dell'attentato non furono peraltro mai scoperti.
L'attività commerciale del G. non dovette protrarsi oltre il 1554. Già prima dell'affare Ducci, nelle lettere ai familiari egli si era mostrato convinto che l'attività letteraria gli si addicesse più dell'esercizio, poco gratificante, della mercatura. Da una missiva del 5 ag. 1564 al fratello Raffaello risulta che da più di dodici anni egli aveva in cantiere un paio di opere che sperava di portare a termine "con honore et forse con qualche profitto" (Firenze, Arch. Guicciardini, filza LII).
Di certo, nell'ambiente mercantile anversano, aperto alla cultura e ai libri, egli aveva avuto modo di stringere contatti con letterati locali e forestieri quali Stefano Ambrosio Schiappalaria, Francesco Pescioni, Senno Poggini, Ottaviano Palma, Alexander Grapheus, Teodoro de Berty, Antoine Olivier e Gaspar Schetz. Non sappiamo se egli stesso facesse parte dell'Accademia dei Giocosi, che raccoglieva nobili mercanti italiani come i fratelli Balbani di Lucca, Lazzaro Grimaldi, Silvestro Cattaneo, ma si può presumere che gli fossero note le attività dei circoli delle varie nazioni italiane e dei letterati fiamminghi, tra cui il noto italianisant Jan Jonker van der Noot, e che fosse al corrente della considerevole produzione in italiano degli stampatori anversani.
Mentre attendeva alla stesura delle proprie opere, il G. aveva accarezzato con tenacia l'idea di farsi editore della Storia d'Italia dello zio Francesco e a tal fine aveva chiesto a più riprese, insieme con il fratello Giovan Battista, fin dal 1551 ai parenti fiorentini che gli fosse affidato il manoscritto; pur essendo riuscito, tramite il fratello Raffaello, ad averne una copia, non ottenne mai il consenso di pubblicare l'opera. Ridolfi ha ricostruito la storia di questi tentativi che si protrassero fino al 1560 e ha riconosciuto al G. unicamente il merito di aver fatto sì che, grazie al suo fermo proposito di stampare l'opera, i cugini di Firenze si affrettassero a procedere alla pubblicazione per timore di essere preceduti. L'interesse del G. sarebbe stato motivato, secondo Ridolfi, dal grande bisogno economico. In realtà va tenuto presente che una delle due opere a cui il G. lavorava, i Comentarii, erano stati progettati anche come ideale continuazione dell'opera dello zio. Quando uscirono i primi sedici libri della Storia d'Italia nel 1561 per i tipi di L. Torrentino, il G. non si trattenne dal rilevarne varie scorrettezze, forse non solo per un desiderio di ripicca, come vorrebbe Ridolfi, ma per una sincera indignazione dettata dalla sua conoscenza del testo.
I Comentarii delle cose più memorabili seguite in Europa, specialmente in questi Paesi Bassi, dalla pace di Cambrai del 1529 insino a tutto l'anno 1560 del G. uscirono nel 1565 ad Anversa, presso G. Silvio (W. Verwilt) e, contemporaneamente, presso N. Bevilacqua a Venezia. L'anno seguente furono ristampati a Venezia da D. Farri, mentre ad Anversa il Silvio pubblicò la traduzione latina e quella tedesca.
Il titolo focalizza l'attenzione sui Paesi Bassi e, in effetti, l'opera era stata concepita come supporto storico alla Descrittione dei Paesi Bassi, l'opera di maggior impegno che il G. stava elaborando in quegli stessi anni. Sennonché il disegno originario si era allargato fino "a toccar sustantialmente le cose più illustri, che nelle altre provincie d'Europa fossero avvenute" (p. 1). L'opera è suddivisa in tre libri: il primo comprende gli anni 1529-44, dalla pace di Cambrai a quella di Crépy; il secondo arriva fino all'abdicazione di Carlo V (1555) e il terzo fino al 1560. In particolare, per quanto riguarda le vicende italiane, il G. si riallaccia alla narrazione dello zio, riprendendo talora letteralmente dei brani dagli ultimi quattro libri della Storia d'Italia. I Comentarii si rifanno a un modulo frequente nella storiografia cinquecentesca, che avrebbe prodotto in seguito ambiziosi progetti di storia universale: si prendeva "un determinato arco di tempo" e si inseriva "sotto la rubrica delle successive annate tutti i "fatti" contemporanei ovunque avvenissero" (Cochrane, p. 75). Anche il G. narra secondo un ordine cronologico, scandito per anni e mesi, avvenimenti di ogni specie accaduti nei diversi paesi europei e lascia poco spazio ad analisi particolareggiate dei fatti, anche se interviene spesso con commenti e considerazioni di carattere generale e moraleggiante. Benché non si pronunci esplicitamente nel conflitto tra Francia e Spagna, non nasconde la sua scarsa simpatia per la prima.
In mancanza di uno studio approfondito dei Comentarii, nei fuggevoli accenni fatti da qualche studioso domina immancabilmente il confronto con la Storia d'Italia di Francesco, confronto che torna inevitabilmente a discapito dell'opera del nipote. Eccessiva sembra però la condanna di Cochrane (p. 352), che avrebbe voluto trovare nei Comentarii la disamina delle cause della guerra degli anni Ottanta fra Spagna e Paesi Bassi: nel 1560, anno in cui si arresta la narrazione guicciardiniana, si potevano scorgere appena, e solo a posteriori, le prime avvisaglie del futuro conflitto.
Nel 1565 apparvero a Venezia, presso due differenti editori, D. Nicolini e G. Cavalli, anche i Detti et fatti piacevoli et gravi di diversi principi, filosofi, et cortigiani raccolti dal Guicciardini et ridotti a moralità.
Il G. aveva intitolato in realtà l'operetta L'hore di ricreatione, ma Francesco Sansovino, cui nel 1563 egli aveva incautamente inviato in visione il manoscritto unitamente a quello dei Comentarii, l'aveva fatta stampare mutando, senza molti scrupoli, titolo e dedicatoria. Il G. protestò inutilmente per questa edizione pirata che, tuttavia, nella forma non autorizzata di Detti et fatti, ebbe ancora 15 edizioni, tutte veneziane, fino al 1613. Con il titolo originario di L'hore di ricreatione e con la dedicatoria del G. al duca di Seminara (probabilmente Carlo Spinelli morto nel 1563), l'opera fu pubblicata invece, per la prima volta, ad Anversa nel 1568 da G. Silvio e su questa edizione furono esemplate quasi tutte le 27 edizioni successive, comprese le numerose traduzioni. Inoltre, delle Hore fu pubblicata nel 1583, sempre ad Anversa, ma presso P. Bellero (Beelaert), un'edizione largamente aumentata e riordinata in tre libri "dal medesimo autore". L'opera fu popolare in tutta Europa: se si contano le due serie, sviluppatesi indipendentemente, dei Detti et fatti e delle Hore, e se vi si aggiungono le diverse traduzioni, si arriva a un totale di settanta edizioni, la maggior parte apparse tra gli ultimi decenni del Cinquecento e la seconda metà del Seicento.
L'Hore appartengono al genere delle facezie e dei detti memorabili, ritornato in auge nel Quattro e Cinquecento e largamente praticato anche nei Paesi Bassi, dove accanto agli Apophthegmata di Erasmo circolavano le Facetiae di H. Bebel, le novelline di J. Pauli (Schimpf und Ernst) e raccolte popolari anonime come Een nyeuwe clucht boek. Amplissimo è il panorama delle fonti che concorrono a formare l'opera del G., sia classiche sia della tradizione toscana e umanistica, cui l'autore aggiunge ricordi familiari ("Messer Francesco Guicciardini mio zio soleva dire") o di amici ("Soleva talvolta il nostro amicissimo et erudito messer Francesco Pescioni"). Al contrario del carattere licenzioso degli aneddoti, sottolineato in passato dalla critica sulla falsariga del Tiraboschi (p. 1031), ma limitato in realtà a pochissimi casi sul totale delle settecento storielle dell'ultima redazione, la specificità delle Hore va cercata nell'intento gnomico e moraleggiante esplicitato nel titolo-rubrica di ciascuna storiella. Ne deriva il carattere prevalente di massimario - di cui si era ben accorto il Sansovino, allorché aveva mutato il titolo della raccolta in Detti et fatti piacevoli… ridotti a moralità - comprovato dalla presenza di elenchi di proverbi, tratti dai Motti e facezie del Piovano Arlotto o dal "nostro gran Boccaccio", nonché dai versi di autori latini e italiani collocati spesso in coda alle storielle con lo scopo di confermare il messaggio sentenziale compendiato nel titolo-rubrica.
Nel 1567, sempre ad Anversa e per i tipi di Silvio, uscì la Descrittione di tutti i Paesi Bassi, altrimenti detti Germania inferiore. Con più carte di geographia del paese et col ritratto naturale di più terre principali. Frutto di un lavoro più che decennale, l'opera fu rielaborata e accresciuta nelle due edizioni successive, del 1581 e 1588, stampate dal celebre Ch. Plantin e conoscerà, grazie alle numerose traduzioni, una straordinaria diffusione europea per tutto il Seicento.
Fonte primaria per la storia del Belgio e dell'Olanda, la Descrittione ha un impianto storico-geografico che permette al G. di offrire un quadro dettagliato ed esaustivo di tutti gli aspetti dei Paesi Bassi, rappresentati per la prima volta come un insieme unitario, con il preciso intento di superare il particolarismo delle cronache e delle corografie esistenti, che si limitavano alle singole province. Eccezionale è ritenuto a tutt'oggi l'ingente corredo di dati e di cifre che documentano gli aspetti economici e commerciali, e la cui esattezza è stata confermata nel Novecento dalle ricerche di specialisti come J.A. Goris, J. Denucé, É. Cornaert e W. Brulez. Per Numa Broc, l'interesse guicciardiniano rende la Descrittione "le chef-d'oeuvre de la littérature descriptive et quantitative de la Renaissance" (Broc, p. 108).
L'opera, dedicata a Filippo II di Spagna, si divide in due parti: la prima comprende la Descrittione generale, che tratta la geografia fisica del paese, le caratteristiche antropologiche, i costumi degli abitanti e le strutture politiche e amministrative che regolano i rapporti tra il sovrano e le 17 province; la seconda parte comprende la Descrittione particulare delle singole province presentate secondo un percorso circolare che ha in Anversa il suo centro ideale. è probabile che l'idea dell'opera sia stata ispirata dal Felicissimo viaje (Anversa 1552) di J.C. Calvete de Estrella, l'umanista spagnolo che descrisse il viaggio compiuto nel 1549 dal futuro Filippo II da Genova fino ai Paesi Bassi, ma il testo guicciardiniano è lontano dall'ottica spagnola e trionfalistica di Calvete tesa innanzi tutto a celebrare il proprio principe e solo di riflesso a descrivere i territori appartenenti alla Corona di Spagna. Altro probabile modello potrebbe essere stata la Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti (Bologna 1550), anche se i due unici riferimenti a questo testo compaiono solo nell'edizione 1581 della Descrittione. L'inventario delle fonti guicciardiniane evidenzia la presenza di autori classici (Cesare e Tacito in primis, ma anche Plinio, Svetonio, Polibio, Strabone, Tolomeo), di cronisti e memorialisti medievali (Sigebert de Gembloux, Jean Froissart, Joannes Aventinus ecc.) e regionali (A. Barlandus, Jacob de Meyer, Jean Lemaire de Belges) e, infine, di storici contemporanei ed eruditi coevi (N. Grudius, A. Olivier, J. Vivien) con i quali il G. era in corrispondenza. Se le fonti classiche rappresentano autorità per lo più accettate, il G. si mostra più critico e guardingo verso quelle medievali, mentre decisamente polemico è nei confronti degli scrittori locali a cui rimprovera di voler nobilitare, per vanità, le origini della propria città o regione. Un ruolo non trascurabile ha avuto, nella verifica dei dati raccolti, anche l'osservazione diretta, come il G. stesso non manca di sottolineare.
L'immagine dei Paesi Bassi che il G. presenta alla cultura europea, e soprattutto al pubblico italiano destinatario ideale della Descrittione, è quella di un paese erede delle antiche popolazioni germaniche. In ciò il G. si ricollega all'immagine cesariana e tacitiana dei Germani già ripresa da E.S. Piccolomini (papa Pio II) e N. Machiavelli, mostrando però che la loro civiltà moderna ha attenuato l'impronta del primitivismo originario. La novità sta però nell'avere intuito che la moderna identità dei Paesi Bassi, la loro prosperità economica e commerciale, trova saldi fondamenti nell'ordinamento politico e amministrativo, di cui è mirabile esempio Anversa che "quasi a modo di città libera et di republica si regge et si governa" (ed. 1994, p. 241). Anversa possiede, per il G., i connotati di un ideale governo misto in grado di garantire la civilità (il progresso contrapposto alla barbarie) e la politia (il buon funzionamento degli ordini e delle leggi). Questo binomio non è d'altronde esclusivo appannaggio di Anversa o delle Fiandre, ma va esteso alle province settentrionali meno note, come l'Olanda, su cui poteva ancora gravare un'ipoteca di rozzezza e di barbarie.
Tale ammirazione quasi incondizionata per i Paesi Bassi pone il problema tuttora aperto dei limiti entro i quali la rappresentazione guicciardiniana rispecchi il reale stato di cose del paese. Nella princeps il G. dichiara di prendere come punto di riferimento l'anno 1560 e si mostra convinto che dopo i disordini e le lotte intestine il paese tornerà al suo "pristino stato". Ma questa convinzione permane nelle due successive edizioni, quando la rivolta contro il governo spagnolo era ormai drammaticamente in atto. In effetti, l'impianto dell'opera rimane quello originario, ma un'attenta analisi delle varianti evidenzia come il G. sia ben consapevole del cambiamento in atto nei rapporti di forza tra Filippo II e i suoi sudditi fiamminghi. Il parere sugli eretici e sulle "incivilissime guerre civili" non muta, ma il G. è attento a registrare i segni della forza organizzativa e militare dei ribelli e non nasconde la simpatia per una religiosità che, se non si può certo definire riformata, ricorda però quella devotio moderna che aveva salde radici nei Paesi Bassi. Basti pensare all'ampio elogio di Adriano VI, che contesta i giudizi fortemente negativi sul papa "barbaro" circolanti nella cultura italiana, ivi compresa la Storia d'Italia dello zio Francesco.
All'epoca della sua pubblicazione la Descrittione portò una certa notorietà all'autore. Le numerose poesie di amici italiani e fiamminghi che precedono il testo indicano, sia pure nella loro veste di componimenti di occasione, una sincera ammirazione. Per gli anni successivi scarseggiano tuttavia le notizie biografiche e i pochi episodi che si conoscono presentano oscurità e dubbi. Questi episodi risultano collegati alle vicende politiche di Anversa, di cui il G. non dovette essere solo testimone. Già nel 1566, all'epoca della furia iconoclasta scatenatasi nella città, egli non nascondeva il timore che a causa delle "sciagurataggini" e dei "tanti garbugli" commessi dai "maladetti heretici", i mercanti sarebbero stati costretti ad allontanarsi con "danno et rovina di questa terra che era una delle più ricche et felici di tutta l'Europa" (lettera del 22 marzo 1567, m.f. 1566, al fratello Raffaello, Firenze, Arch. Guicciardini, filza LII). Fin dall'inizio, il G. era stato fautore di una linea di conciliazione che evitasse l'inasprirsi del conflitto, come attesta l'elogio della politica moderata della reggente Margherita d'Austria duchessa di Parma, nella dedicatoria premessa alla prima traduzione francese della Descrittione (Anversa, G. Silvio, 1567). Gli eventi precipitarono con la nomina a governatore del duca d'Alba F. Álvarez de Toledo, del cui spietato regime il G. fece subito esperienza personale. Sospettato di tradimento, fu detenuto nel castello di Vilvorde dall'aprile del 1569 al settembre 1570.
Sulle cause di questa incarcerazione sono state formulate in passato svariate ipotesi (Touwaide, pp. 39-54), la più fantasiosa delle quali è quella secondo cui il G. avrebbe consigliato al duca d'Alba l'abolizione del digiuno quaresimale (Enc. Italiana, XVIII, sub voce). La versione più attendibile dei fatti è probabilmente quella fornita da una lettera del fratello Giovan Battista: nelle mani del duca d'Alba sarebbe pervenuto un memoriale redatto dal G. che sconsigliava la creazione di nuove imposte adducendo argomenti affini a quelli sostenuti dai rappresentanti della città di Anversa, decisamente contrari alla richiesta del governatore. Il G., in effetti, era stato nel 1568 consigliere della nazione fiorentina ad Anversa e poteva ben prevedere con quale ostilità un'ulteriore imposta sul commercio sarebbe stata accolta dai mercanti, specie forestieri, che già davano segno di voler disertare la piazza.
A rafforzare questa versione dei fatti può giovare forse un particolare autobiografico rinvenibile nell'edizione 1588 della Descrittione. Narrando la storia della costruzione della cittadella di Anversa, avvenuta tra il 1567 e il 1569, il G. ricorda che i tre che furono incaricati del progetto dal duca d'Alba (i capitani Chiappino Vitelli e Gabrio Serbelloni e l'ingegnere architetto Francesco Paciotto) erano stati "instrutti, a benefitio della villa, dall'autore di questa opera". Il G. era dunque entrato in contatto con i tre influenti italiani e li aveva assistiti nella scelta, assai controversa, del terreno su cui doveva sorgere la fortificazione. Ciò può spiegare anche perché poco tempo dopo, tra il 1568 e 1569, pervenisse al G., come pratico degli ambienti anversani, la richiesta della corte di Bruxelles di scrivere quel parere sulle imposte che sortì come effetto la sua detenzione.
Per la scarcerazione del G. si adoperò la nazione fiorentina che, come risulta dagli Avvisi di Fiandra a Guidubaldo II Della Rovere duca d'Urbino dell'8 maggio 1569, perorò la sua liberazione alla corte imperiale; il fratello Giovan Battista fece appello a C. Vitelli e soprattutto a Cosimo I, che a sua volta si rivolse alla regina di Francia Caterina de' Medici e a Carlo IX, i quali intervennero a favore del G. con due missive del 10 febbr. 1570 al duca d'Alba. Finalmente, per intercessione della consorte di Filippo II, Anna d'Asburgo, di passaggio da Anversa, il G. ottenne la scarcerazione il 2 sett. 1570. Questa disavventura conferma peraltro la volontà del G. di assumere una posizione intermedia fra le parti in lotta, anche se la speranza in una soluzione pacifica doveva apparire sempre più problematica per l'incalzare di nuovi terribili avvenimenti: la repressione sanguinaria del duca d'Alba, l'aperta rivolta dell'Olanda e della Zelanda, la furia spagnola del 4 nov. 1576 ad Anversa. Di quest'ultimo episodio offre testimonianza una lunga missiva del fratello Giovan Battista, da Bruxelles del 10 nov. 1576, al granduca Francesco I, all'origine della quale erano con ogni probabilità informazioni provenienti dal G., spettatore diretto dei fatti.
Nel corso degli anni Settanta il G. non tralasciò di preparare modifiche e aggiunte per una nuova edizione della Descrittione, progettata da tempo dall'editore della princeps G. Silvio. Questi, però, passato nelle file protestanti, era emigrato nel 1577 a Leida, e la seconda edizione uscì perciò solo nel 1581, ad Anversa, per i tipi di Ch. Plantin, nominato dal duca d'Alba prototipografo reale e rimasto tale anche negli anni in cui la città fu conquistata dai calvinisti.
È noto che Plantin era stato membro della setta segreta della Famiglia dell'amore e poi di una setta affine, fondata da Hendrik Barrefelt detto Hiël ("luce di Dio") e di cui facevano parte anche G. Lipsio e A. Ortelio. Per gli affiliati a questa setta contava solamente la vita spirituale interiore, mentre era di secondaria importanza l'adesione alla forma esteriore di una delle religioni costituite, cattolicesimo o protestantesimo: ci si poteva conformare alla religione predominante del paese in cui si viveva o cambiare fede a seconda dei mutamenti politici. Queste teorie fornivano una soluzione a spiriti tolleranti che rifiutavano qualsiasi tipo di estremismo e permettono di capire la posizione di un Plantin al servizio dei due campi avversi e fautore nello stesso tempo di una linea di conciliazione. Se non ci sono prove di un'affiliazione del G. alla Famiglia dell'amore, non è però da escludere che l'ideale di tolleranza e di pace religiosa perseguito da Plantin esercitasse su di lui una certa attrazione. Nemmeno si può escludere una convergenza ideale di propositi tra lo stampatore e il G. nel riproporre con la Descrittione un testo che, nonostante le lacerazioni di quegli anni, offriva un'immagine unitaria del paese, nell'intento di appellarsi a uno spirito di pacificazione e di superamento delle divisioni.
Sempre presso il Plantin, seguì nel 1582 la traduzione francese dell'opera. Nel marzo dello stesso anno il G. fu di nuovo arrestato perché sospettato di aver avuto contatti con Gaspar de Añastro, un mercante spagnolo mandante del fallito attentato contro Guglielmo d'Orange. Inoltre gli veniva contestato di aver scritto a M. Bandini, a Parigi, delle lettere in cui parlava con disprezzo della joyeuse entrée ad Anversa, nel 1582, di Francesco di Valois, duca d'Angiò, eletto duca del Brabante dal partito protestante antispagnolo. Fu rilasciato dopo pochi giorni, ma la breve disavventura giudiziaria è significativa di come la sua condizione di straniero fosse precaria e soggetta a maggiori diffidenze. Dopo aver pubblicato nel 1583 l'edizione accresciuta delle Hore di ricreatione, nel 1585 licenziò alla stampa i Precetti et sententie più notabili in materia di Stato di M. Francesco Guicciardini, con una dedicatoria ad Alessandro Farnese, che dopo un lungo assedio aveva riconquistato Anversa in quell'anno.
Il volume è composto di cento precetti tratti dall'edizione degli Avvertimenti di Francesco Guicciardini curata da Iacopo Corbinelli (Parigi 1576) e di cento sententie estrapolate dalla Storia d'Italia. I Precetti et sententie hanno destato finora un qualche interesse solo nell'ambito della complicata storia critico-testuale dei Ricordi (Spongano, p. XXIII) e della ricezione della Storia d'Italia (Luciani, pp. 314, 324). In effetti, di primo acchito, potrebbero essere accomunati alle operazioni di rimaneggiamento di cui abbondava la produzione editoriale tardocinquecentesca, come per esempio gli zibaldoni ricavati dalle opere di Francesco Guicciardini da Francesco Sansovino nel 1578 e da Remigio Nannini nel 1582. Una lettura accurata del testo rivela invece non un mero florilegio di aforismi politici, ma una scelta orientata sulla situazione dei Paesi Bassi, e di Anversa in specie, nel difficile momento della riconquista da parte del duca d'Alba e del ritorno del governo spagnolo. I precetti, pur nella loro generalizzazione, rispecchiano la lezione concreta degli avvenimenti e un'attenta osservazione dell'azione politica e militare di Alessandro Farnese. Dai testi dello zio, infatti, il G. seleziona quegli avvertimenti focalizzati sul governo del principe: "savio" è il principe che in tempo di pace sa maneggiare la natura "fallace" del popolo, ma "savio" più di tutti deve mostrarsi il capitano di un esercito perché, in tempo di guerra, immenso è il potere della fortuna e fallaci più che mai sono gli uomini. Anche la scelta delle sententie fa pensare che esse siano state ricavate dalla Storia d'Italia sulla base di analogie tra gli eventi della penisola narrati da Francesco e la situazione dei Paesi Bassi. Il tenore generale della silloge conferma comunque quell'appello alla conciliazione, alla moderazione e alla prudenza, che aveva caratterizzato l'atteggiamento del G. fin dall'inizio delle "perturbationi" nella sua seconda patria. La stessa dedicatoria al Farnese, più che atto di mera cortigianeria, è l'ennesimo tentativo di mediazione a favore della città, nella sincera illusione che il nuovo governatore avrebbe posto fine alle "miserabili guerre, non […] civili, ma incivilissime et pestifere" e i popoli si sarebbero "ridotti a pace universale" (p. 5). Naturalmente non si può escludere che la dedica sia stata dettata anche da interesse personale: il G. non godeva certamente di particolari protezioni e la sua situazione finanziaria doveva essere tutt'altro che brillante, se aveva preferito alla catena d'oro che gli era stata offerta dal Municipio di Anversa in occasione della seconda edizione della Descrittione una modesta rimunerazione annuale in denaro.
Se ci fu ricerca di interesse personale, non sortì comunque alcun effetto. Gli ultimi anni dello scrittore dovettero trascorrere in gravi ristrettezze: nel 1586 fu costretto a vendere la casa acquistata nel 1577, e nessun miglioramento gli arrecò la terza e ultima edizione della Descrittione, stampata da Plantin nel 1588. A perorare la causa del G. fu il giovane Giovanni de' Medici, che trovandosi tra il 1587 e il 1588 nei Paesi Bassi, presso Alessandro Farnese, scrisse al granduca di Toscana Ferdinando I varie lettere sollecitando un "qualche trattenimento" per il "dabene et virtuoso vecchio et vassallo da non dispregiare" ormai da cinquant'anni "fuora dalla patria" e desideroso "di tollerare la sua povertà" attendendo ai suoi studi (Touwaide, p. 58). Lo stesso G. rivolse due volte di seguito, nel 1588, una supplica al granduca, ma da Firenze non arrivò alcun sussidio.
Trascurato da quella che nell'edizione 1588 della Descrittione continuò a ricordare come "[sua] dolce e serenissima patria" (ed. 1994, p. 269), il G. si spense ad Anversa pochi mesi dopo, il 22 marzo 1589.
L'edizione critica, con ampio commento, delle Hore di ricreatione è a cura di A.-M. van Passen, Roma-Leuven 1990; la Descrittione di tutti i Paesi Bassi è edita criticamente da D. Aristodemo, Amsterdam 1994.

Fonti e Bibl.: Molti documenti e atti ufficiali relativi al G. sono stati riprodotti in facsimile in R.H. Touwaide, Messire L. G. gentilhomme florentin, Nieuwkoop 1975 (fornisce l'elenco di 44 lettere del G. ai familiari conservate a Firenze, Archivio Guicciardini, Carteggi, filze LI e LII; e di quattro lettere a Cosimo I nell'Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, filze 516, c. 194r; 519, c. 786; 797, c. 605; 807, c. 709); estratti di lettere in R. Ridolfi, Documenti sulle prime stampe della Storia d'Italia guicciardiniana, in La Bibliofilia, LXI (1959), pp. 39-51; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VII, Modena 1792, p. 1031; R. Fruin, Guicciardini's beschrijving van de Nederlanden (La "Descrizione dei Paesi Bassi" di L. G.), in Verspreide Geschriften, Den Haag 1903, VII, pp. 193-203; J.A. Goris, Étude sur les colonies marchandes méridionales (Portugais, Espagnols, Italiens) à Anvers de 1488 à 1567, Louvain 1925; V. Luciani, Francesco Guicciardini e la fortuna dell'opera sua, a cura di P. Guicciardini, Firenze 1949, pp. 314, 324, 470; R. Spongano, Introduzione a F. Guicciardini, Ricordi, Firenze 1951, pp. XXIII, XLII, XLIV; W. Brulez, L'exportation des Pays-Bas vers l'Italie par voie de terre au milieu du XVIe siècle, in Annales, XIV (1959), pp. 461-491; R. Starn, Francesco Guicciardini and his brothers, in Renaissance. Studies in honor of Hans Baron, a cura di A. Molho - I.A. Tedeschi, Firenze 1971, pp. 417-419; G. Costa, Le antichità germaniche da Machiavelli a Vico, Napoli 1977, pp. 65-76; N. Broc, La géographie de la Renaissance (1420-1620), Paris 1980, pp. 107 s.; E. Cochrane, Historians and historiography in the Italian Renaissance, Chicago-London 1981, pp. 352, 370; M. Jacqmain, Introduzione a L. Guicciardini, De idyllische Nederlanden. Antwerpen en de Nederlanden in de 16e eeuw ("I Paesi Bassi idilliaci. Anversa e i Paesi Bassi nel XVI secolo"), Antwerpen-Amsterdam 1987, pp. 5-13; A.-M. van Passen, L. G., L'hore di ricreatione. Bibliografia delle edizioni, in La Bibliofilia, XCII (1990), pp. 145-214; D. Aristodemo, La figura e l'opera di L. G.: prospettive di ricerca, in L. G. (1521-1589). Actes du Colloque international, Bruxelles… 1990, a cura di P. Jodogne, Leuven 1991, pp. 19-36; Bibliografia degli studi dedicati a L. G., a cura di D. Aristodemo - A.-M. van Passen, ibid., pp. 348-354; D. Aristodemo, La "Descrittione di tutti i Paesi Bassi" fra cultura italiana e cultura fiamminga, in Les Flandres et la culture espagnole et italienne aux XVIe et XVIIe siècles, a cura di M. Blanco-Morel - M.-F. Piéjus, Lille 1998, pp. 151-164; G. Mangani, Il "mondo" di Abramo Ortelio. Misticismo, geografia e collezionismo nel Rinascimento dei Paesi Bassi, Ferrara 1998, passim; H. Deys et al., Guicciardinus illustratus. De kaarten en prenten in L. G.'s "Beschrijving van Nederland" (Le carte e i disegni nella "Descrizione dei Paesi Bassi" del G.), 't Goy-Houten 2001; Enc. Italiana, XVIII, sub voce.

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Arlotto Mainardi, detto il Piovano o Pievano Arlotto (Firenze, 25 dicembre 1396 – Firenze, 26 dicembre 1484), è stato un presbitero italiano, famoso per il suo spirito e le sue burle diventate proverbiali, grazie a una letteratura popolare fiorita per tutto il Rinascimento. Parroco della chiesa di San Cresci a Macioli, vicino a Pratolino, era celebre per le storielle che raccontava, per la sfrontatezza dei suoi gesti e la malizia venata di uno spirito boccaccesco. Personaggio amato dal popolo per la sua bonaria schiettezza, fu talvolta un problema per la curia vescovile, retta all'epoca dal pio Antonino Pierozzi che tentò di redimerlo senza successo. È ritratto in diversi quadri, anche nei secoli successivi, a testimoniare la sua duratura fama cittadina. Per esempio Una burla del Pievano Arlotto è un quadro secentesco del Volterrano mentre un ritratto del faceto parroco è opera di Giovanni da San Giovanni, entrambi conservati alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Dopo la sua morte, un ignoto amico pubblicò nella seconda metà del Quattrocento un volumetto intitolato I Motti e facezie del Piovano Arlotto, che dà un vivido ritratto dal basso del contado fiorentino nell'epoca di Lorenzo il Magnifico, nel quale il registro faceto e, per il lettore odierno, piuttosto volgare, non soffoca però i tratti autentici e umani di questi scherzi da prete. Un esempio di curiosa vicissitudine legata a questa figura è quella della tentata redenzione dell'Arlotto: 'un giorno l'arcivescovo, preoccupato dell'abitudine dell'Arlotto di frequentare le osterie, lo invitò alla mensa dell'Arcivescovado per riportarlo ad una tavola più adatta a un sacerdote. Ma poiché il Pievano Arlotto, tutti i giorni portava nuovi e sempre più numerosi amici alla detta mensa, l'Arcivescovo fu costretto a lasciare andare il Pievano a mangiare e bere dove più gli fosse gradito'. Un'altra volta, in una notte di forte pioggia, di ritorno dal Casentino, si fermò, completamente fradicio, in una piccola osteria presso la Consuma la quale era piena di gente ed era impossibile anche solo avvicinarsi ai posti accanto al fuoco, tutti già occupati. Allora si rivolse all'oste con il tono di chi vuol parlare privatamente, ma anche farsi intendere da tutti, raccontando la disavventura di aver perduto dal carniere, dove si era fermato a orinare a qualche miglio da lì, la bella somma di quattordici lire e diciannove fiorini. Pian piano, a piccoli gruppi, i commensali si offrirono di uscire per cercare le monete ed il nostro Pievano non solo poté ristorarsi bello largo vicino al fuoco ma, per la compassione dell'oste, ebbe anche il conto abbonato. Fra i detti popolari nati dalla sua figura c'è il modo di dire 'Essere come la bandiera del Pievano Arlotto cioè fatta tutte di pezze rubate', oppure si diceva 'Ricevere la benedizione del Pievano Arlotto nel senso di stare in guardia poiché qualcuno stava per giocare un tiro'. Pare infatti che l'Arlotto una volta benedisse la folla aspergendo olio invece di acqua benedetta. Da anziano trovò ospitalità nell'Ospizio per vecchi parroci (detto appunto dei Pretoni) che aveva sede presso l'attuale oratorio di Gesù Pellegrino a Firenze. Egli non smentì il suo spirito faceto neanche sulla lastra tombale (morì nel 1484), che fu apposta sulla sua tomba nell'oratorio al centro del pavimento appena dopo l'ingresso, dove fece scrivere: Questa sipoltura a facto fare il Piovano Arlocto per se e per tucte quelle persone le quali drento entrare vi volessino. L'epigrafe che si può leggere oggi non è l'originale, ma un anacronistico rifacimento posteriore, in un diverso italiano: Questa sepoltura il Pievano Arlotto la fece fare per sé, e per chi ci vuole entrare. VEDI ANCHE = Le burle del piovano Arlotto: tre atti da ridere, commedia di Giulio Bucciolini (1910). Abramo Basevi, L'ultimo anno di vita del Piovano Arlotto, Firenze, Barbera & Nencini, 1862 (UNA NOTA = Il Piovano Arlotto fu un mensile letterario satirico pubblicato a Firenze dal gennaio 1858 al dicembre 1860) [testo tratto da Wikipedia, l'Enciclopedia libera on line]

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